venerdì 10 aprile 2015

10. VIA MORALE A DIO


La via morale a Dio consiste nel mostrare che c’è un qualche collegamento tra l’idea di Dio e la morale. Potrebbe essere sia nel senso che a partire da Dio si conclude alla morale, sia che dalla morale si giunge a Dio. Nel primo caso Dio starebbe, in qualche senso, a fondamento della morale; nel secondo la morale sarebbe un argomento a favore di Dio. Già da questi contrastanti percorsi battuti, si può arguire la complessità e ambivalenza di tale via. Si tratta insomma di argomentare intorno alla autonomia e indipendenza o meno della morale dalla teologia e dalla religione, argomento difficile e dibattuto, che può essere visto in tanti modi diversi, e che provo a ricostruire in modo solo indicativo e certamente incompleto.  

            Nel primo senso vuol dire che una motivazione religiosa della morale conferisce una fondazione migliore alla morale stessa piuttosto che una naturalistica-ateistica. Non dice assolutamente che non si possa agire moralmente anche non credendo in Dio, cosa certamente possibile e che si dà anche di fatto in tante persone (e non ha alcuna rilevanza filosofica il fatto che ci siano alcuni non credenti più “virtuosi” di  certi credenti, sia perché altri non credenti lo sono di meno, sia perché il vissuto pratico di una persona è cosa diversa dalla giustificabilità o verità in sé dell’ideale che persegue).
            Per alcuni dunque l’argomento morale parte dal fatto che esistono credenze morali – su ciò che è bene o male, o giusto o ingiusto – che sono universalmente condivise e che sembrano avere una base oggettiva. Che uccidere un innocente o commettere violenza sui bambini siano moralmente riprovevoli è riconosciuto dai più: si presuppone infatti che azioni del genere siano malvagie in se stesse, non semplicemente in base al consenso umano sulla loro malvagità o perché Dio le vieta, bensì perché il bene deve essere perseguito e il male evitato per loro stessi, non solo perché ordinati da Dio. Ora, e questo è il punto dell’argomento, l’oggettività dei valori morali sembra meglio garantita se è fondata nell’esistenza di Dio, essere moralmente perfetto che esprime la sua volontà buona per l’uomo attraverso l’ordine della natura da lui creata e/o attraverso gli insegnamenti delle sacre scritture (Bibbia per il cristiano), e che è in grado di valutare il significato morale delle azioni umane e di conferire ad esse il merito o il biasimo corrispondenti. L’uomo allora fa il bene se corrisponde alla volontà di Dio, e fa il male se non vi corrisponde. Ma l’obbligazione morale proveniente da Dio non deve essere concepita come arbitraria, in virtù della perfezione morale di Dio, il quale esemplifica la proprietà dell’assoluta bontà (A. Aguti). Perseguendo la volontà di Dio, e quindi il bene, l’uomo arriva alla sua completa ed assoluta realizzazione, alla sua felicità, nella vita trascendente in comunione con Dio.
Come spiega il teologo K. Ward, non si intende dire che Dio sia necessario per la morale, ma che la fede in Dio aggiunge forza e tono particolari all’esperienza del senso dell’obbligo. E questo in due modi.
Primo, se vi è un Dio che ha una finalità per la vita umana e se tale finalità è che gli esseri umani accrescano la propria saggezza, compassione e generosità, allora è pienamente comprensibile affermare che vi sia un obbligo oggettivo a essere saggi, compassionevoli e generosi, quali che siano i nostri sentimenti. Noi non inventiamo i nostri doveri morali, né lasciamo che dipendano dai capricci del successo evolutivo del passato o dalle contingenze dei nostri attuali desideri. Il richiamo alla saggezza e alla compassione è la voce di Dio, il cui comando è categorico e autorevole, anche se può non parlarci per mezzo di parole.
E secondo, se Dio è un Ideale di suprema bellezza e bontà, allora non vedremo i nostri doveri semplicemente come comandi di una qualche potenza arbitraria. Desidereremo razionalmente conoscere e amare quella bellezza suprema, in modo che possa attrarci verso di sé e plasmare in maniera più piena la nostra natura in base alla sua. La motivazione dell’azione morale non sarà soltanto il dovere; sarà l’amore per il Bene e il desiderio di essere tanto più simili e tanto più uniti a tale bene quanto possiamo.
Il modo in cui un credente in Dio vede la vita morale è diverso da quello in cui la vede un non credente. Vi sono molti modi in cui vedere la vita morale e faranno la differenza nella condotta che assumiamo vivendo. I teisti la considerano come un insieme di obblighi oggettivi e vincolanti, cui obbedire perché promanano da un essere di suprema bellezza, bontà e saggezza, che unico fra tutte le cose è degno di essere amato in modo incondizionato. Dio è “una potenza superiore che promuove la rettitudine” (M. Arnold) e l’amore e la saggezza divini possono potenziare e favorire i nostri sforzi verso un incremento della giustizia e dell’altruismo.
            Per altri invece, una fondazione naturalistica-atea della morale sembra più debole di quella teologica perché verrebbe a privare l’uomo del suo valore o della sua dignità assoluti e incondizionati.
Da un punto di vita ateo si potrebbe anche dire che la moralità è solo un adattamento biologico, che è solo un aiuto per la sopravvivenza e la riproduzione, e un significato più profondo non esisterebbe. Come stabilire, senza Dio, che la moralità dell’homo sapiens sia oggettiva? Dopo tutto, se non c’è Dio, allora cosa c’è di così speciale in noi esseri umani? Saremmo solo sottoprodotti accidentali della natura, che si sono evoluti su un granellino infinitesimale di polvere chiamato pianeta Terra, perso da qualche parte in un universo indifferente, anzi ostile e insensato, che sono destinati a perire individualmente e collettivamente in un tempo relativamente breve. Come stabilire dei valori assoluti nella vita se la vita stessa non ha un valore assoluto? Per quanto l’ateo ammetta delle norme morali non potrebbe fondare l’incondizionatezza delle proprie esigenze etiche. Non può darsi nessun valore o dovere incondizionati da un essere condizionato, come sarebbe l’uomo senza fondamento in Dio. Come ammette lo stesso filosofo ateo P. Flores d’Arcais “il non credente può scegliere tra un etica per il tu e la solidarietà, per l’individuo irripetibile uguale in dignità, e un etica per l’io, per il solo interesse e successo personale. Ma il primato del tu e la solidarietà implicano un dovere di sacrificarsi che in genere riesce solo a chi ha fede in un Altro, inteso proprio come Dio Padre. La carità è difficile”.
È pur vero che darsi regole da rispettare, al singolo facente parte della società,  conviene anche a se stessi perchè così viene salvaguardata anche la nostra sicurezza, veniamo tutelati e rispettati. Ma quando mi converrà, perché non dovrei tradire tali regole? O quando credo di non essere scoperto? In una visione naturalistica della vita, in cui si concepisce l’uomo come nato dal caso e dalla necessità, straniero nell’universo, senza un senso assoluto dell’esistenza ma col solo senso eventuale che ognuno vuole assegnargli, senza un destino oltre la morte biologica, si può anche stabilire che il significato relativo della vita stia nella ricerca del piacere, o nella lotta per l’esistenza in cui uno può far di tutto per vincere anche senza riguardo dell’altro, a meno che non sia suo amico.  


            Il non credente potrebbe replicare in diversi modi.
Potrebbe evidenziare che il punto è che bisogna “essere buoni per amore della bontà” e non perché Dio potrebbe punirti se non lo sei. Dice A. Comte-Sponville: “Il comportamento di uno che si impedisce di uccidere solo per timore della punizione divina è privo di valore morale: non è altro che prudenza, paura del poliziotto divino, egoismo. Quanto a colui che non farebbe il bene se non per la propria salvezza, non farebbe il bene (perché agirebbe per interesse, non per dovere o per amore) e non sarebbe salvato”.
E ancora: “Che abbiate o meno una religione, ciò non vi dispensa dal rispettare il prossimo, la sua vita, la sua libertà, la sua dignità; ciò non annulla la superiorità dell’amore sull’odio, della generosità sull’egoismo, della giustizia sull’ingiustizia”.
La bontà dovrebbe essere comprensibile indipendentemente dall’idea di Dio, altrimenti perde tutta la sua forza morale.
Ma questo - potrebbe obiettare il credente - non implica allora che la moralità abbia una propria verità oggettiva, indipendente, cosa che molti filosofi moralisti atei escludono, visto che in un universo naturalista non esiste un luogo celeste dove le regole sono incise su tavole di pietra, e non ci sono “dovrebbe” o “deve” nelle leggi della fisica? 
Il filosofo ateo J. Baggini risponde che l’etica, anche senza essere del tutto oggettiva, potrebbe essere comunque ben fondata anche indipendentemente dalla prospettiva religiosa. Dice che la morale non ha un unico fondamento. Piuttosto emerge dalla confluenza di certi fatti, desideri, sentimenti e bisogni. Tra i fatti possiamo includere osservazioni come: la sofferenza è spiacevole, le persone vogliono evitarla e anche gli animali la provano; non vi sono differenze moralmente significative tra persone di colore diverso; e la ricchezza o il talento di una persona hanno molto a che fare con la sua fortuna. Fra i desideri vi sono quelli di vivere una vita libera da false illusioni, di non essere ipocrita e di essere apprezzato per buone ragioni. I sentimenti comprendono la preoccupazione empatica per la sofferenza degli altri e il piacere nel farli star meglio. E i bisogni includono la necessità di vivere in pace gli uni con gli altri, con la possibilità di fidarsi e di cooperare.
Dati dunque i semplici fatti e i nostri desideri, sentimenti e bisogni, abbiamo buone ragioni per approvare la giustizia, per essere equi e onesti nel trattare con gli altri, per mostrare compassione, per non uccidere gli innocenti, e così via.
Ora, questa guida per la moralità non sarà del tutto oggettiva, perché ad uno che dice che non vuole interessarsi dei propri simili o della loro sofferenza non c’è modo di dimostrargli che invece deve farlo. Ma non è nemmeno del tutto soggettiva, arbitraria, basata su capricci, perché appunto si aggancia a certi fatti, desideri, sentimenti e bisogni umani condivisibili dai più.  In questo senso, anche senza Dio molte cose non sono permesse.
            Un discorso simile, direbbe l’ateo, vale anche per il valore della vita umana.
Anche chi non crede in Dio non necessariamente deve affermare la nullità e la mancanza di significato e di valore totali della realtà in generale e della vita umana in particolare. Sicuramente il non credente non dirà di credere in un senso oggettivo dell’intera realtà e della vita umana, ma nondimeno egli potrebbe lo stesso porsi obiettivi e ideali e cercare di raggiungerli, realizzare significative opere culturali, senza dover caratterizzare come illusoria una simile prassi (H. Albert). L’ateo può credere in un valore relativo della vita, ed impegnarsi a sostenerlo promuovendo e  sviluppando i tanti valori che lo caratterizzano. Come disse B. Russel: “Non credo che per vivere pienamente sia necessario durare eternamente, né che la felicità, l’amore o il pensiero perdano valore perché finiscono”.
Inoltre - dice lo scettico o l’ateo - è vero che se ci fosse un Dio, avremmo ogni ragione per ritenere che saprebbe giudicare meglio di noi cosa è giusto e cosa no. Perciò, se in più credessimo di aver accesso alla sua guida, saremmo giustificati nel seguirla. Tuttavia bisogna considerare, innanzitutto, che ci sono dubbi scettici sull’esistenza di un Dio, e poi che ci sono dubbi circa la tesi che i testi sacri – come, tra gli altri, la Bibbia e il Corano - contengano realmente il messaggio di Dio all’umanità; e anche se si ritenesse così, ci sono comunque diverse interpretazioni di quei testi, che hanno dato origine, tra l’altro, a diverse confessioni religiose a partire dallo stesso testo sacro. Quindi, data l’ambiguità della maggior parte dei testi religiosi e il grande disaccordo su cosa esattamente Dio voglia da noi, in pratica questa è una piccola perdita. Non possiamo sapere con certezza cosa Dio ritiene sia giusto per noi e quindi siamo costretti in ogni caso a tornare a fare affidamento sul nostro stesso giudizio.  

Nel secondo senso, sappiamo che per Kant non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio con la “ragion pura” ma si può giungere a postularla attraverso la “ragion pratica”. Secondo Kant, l’essenza della moralità consiste nella conformità con la legge morale, che si manifesta alla coscienza nella forma dell’imperativo categorico: il dovere morale è un assoluto per la coscienza e si giustifica da se stesso e non per la ricerca della felicità o per altri motivi (autonomia della morale). Nell’esperienza morale però l’uomo giusto vede il non senso di una totale estraneità tra vita morale e felicità, e pertanto la ragione nel suo uso pratico postula una connessione necessaria tra moralità e felicità, non potendone fare oggetto di dimostrazione speculativa. In tal modo occorre anche postulare l’esistenza di un Essere che sia principio della connessione tra moralità e felicità, in quanto causa dell’armonia tra legge morale e tendenza naturale al bene e alla beatitudine. Questa causa è postulata come Essere intelligente, volontà, santità ed è il termine della speranza della felicità, che scaturisce dalla moralità, nel senso che il giusto scopre che il suo essere conforme alla legge morale lo rende degno di beatitudine. Il postulato dell’esistenza di Dio (come anche gli altri due postulati della ragion pratica, la libertà e l’immortalità dell’anima) non estende l’ambito della conoscenza speculativa perché deriva dal bisogno di giustificare un fine pratico ed è dunque pura “credenza” della ragione. Questa “fede morale”, che procede dalla volontà morale, supplisce così ai limiti della ragione pura, consentendo di riproporre la questione filosofica di Dio come questione “pratica”.
In altre parole, essere morali fino in fondo, costa. Prodigarsi per il bene, e per il bene degli altri, significa anche spesso un danno nei nostri confronti. Una vita coscienziosa, giusta, sarebbe forse una vita molto modesta. Il bene esige molte volte un’attività pericolosa, scomoda, che mette seriamente in pericolo la qualità della nostra vita. Può esigere sacrifici dolorosi. I valori sensibili visibili e tangibili hanno un vantaggio naturale nei confronti dei valori superiori, faticosamente formulati e vissuti. La necessità di adempiere con costanza il proprio dovere non è attraente come un evento sensazionale o piacevole. Quindi, con K. Ward, si potrebbe dire che, se Dio esiste, allora l’impegno morale non sarà vano. Tale impegno potrà spesso implicare l’abnegazione o perfino il martirio per la causa della giustizia. Un Dio creatore che crea affinchè prosperi la bontà garantirà che la giustizia sia vittoriosa e non sia sconfitta dal fallimento umano o dalla morte. Questa è una conseguenza del credere in un creatore buono e potente. Significa che lo sforzo morale non sarà mai vano, nemmeno se le sue conseguenze non sono quelle che noi speriamo o ci aspettiamo nell’immediato. Significa che vi sarà una vita dopo la morte terrena, che vi saranno un giudizio e la possibilità di perdono e di appagamento.
Un approccio simile, che alla religione arriva a partire dall’etica, è anche quello del “teologo laico” V. Mancuso. Dice: “La motivazione della mia fede è la seguente: io credo in Dio perché ciò mi consente di unire il sentimento del bene e della giustizia dentro di me con il senso del mondo fuori di me”. Sostiene cioè che “l’autentica religiosità nasce quando in alcuni la dimensione etica assume un tale significato da andare al di là del comportamento personale e arriva a voler abbracciare il senso complessivo del mondo: si giunge a volere che il mondo in se stesso sia etico, che la vita in se stessa sia giusta, che il senso complessivo del tutto sia il bene. E siccome il mondo e la vita qui si chiudono e si chiuderanno sempre nell’antinomia [tra la dimensione esteriore della natura e quella interiore della morale], si postula nella propria coscienza […] l’esistenza di una definitiva dimensione dell’essere che garantisca la vittoria del polo positivo: ecco l’atto di fede in Dio, cioè nell’esistenza di una dimensione definitiva dell’essere del tutto buona e armoniosa”(Io e Dio, 2011). 

Qual è la portata di questa “prova” dell’esistenza di Dio a partire dall’esperienza morale?
Si possono fare almeno due critiche.
La prima sul fondamento della legge morale. La filosofia morale è in grado di dimostrare, non a partire dall’esistenza di Dio, ma a partire dall’analisi dell’esperienza morale e degli “assoluti etici” che la contraddistinguono, che esiste la legge morale naturale, universale, oggettiva, immutabile e necessaria? Guardiamo l’imperativo categorico espresso nella formulazione “agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre in ogni tempo come principio di una legislazione universale”. Si può oggi partire ancora legittimamente da un “Tu devi” incondizionato, che sarebbe impresso in ogni essere pensante? Si può partire da un imperativo categorico, che non sarebbe oggetto di conoscenza ma semplicemente un fatto primordiale dello spirito umano nella sua dimensione volontaristica? Si deve davvero ammettere in noi il fatto di un obbligo morale incondizionato, che esigerebbe poi l’esistenza di un bene sommo, conciliante la moralità con la felicità, e quindi l’esistenza di Dio? L’assolutezza del “tu devi” non è semplicemente un postulato su cui poi si fonda l’altro postulato dell’esistenza di Dio? L’amissione in noi di una legge morale, apoditticamente certa, quale quella che trova la sua espressione nell’imperativo categorico, non presuppone già l’impulso morale, l’interrogazione circa la moralità o addirittura la decisione in favore di una vita morale, una decisione che però, come in Nietzche, può essere presa anche in tutt’altro senso? Come si vede non è affatto scontato ammettere, e tanto meno dimostrare, che esiste  una legge  morale naturale, contro il relativismo, l’edonismo, l’utilitarismo, il positivismo.
L’altro limite riguarda la soddisfazione dell’aspirazione alla felicità, secondo pilastro di Kant nella sua argomentazione. Che tale aspirazione sia propria di tutti gli uomini si deve certamente ammettere, ma in base a cosa si può supporre che essa venga soddisfatta? Che cosa ci fa supporre che il dovere e l’inclinazione, il diritto ad essere felici e la felicità debbano conciliarsi tra loro? Perché a colui che ubbidisce alla legge morale deve aspettare assolutamente la felicità? Che cosa mi assicura che esiste la felicità?   

In conclusione, la via morale per arrivare a Dio è senz’altro problematica, e tuttavia dire che la morale senza Dio non perda nulla mi pare più difficile del contrario; quindi mi sembra che, se questa via dice qualcosa, lo dica a vantaggio (seppur lieve) della credenza religiosa.

BIBLIOGRAFIA

Abbagnano N. Dio, prove, in Id. Dizionario della filosofia, UTET 1971, pgg 245-249
Aguti A., Filosofia della religione. Storia, temi, problemi, La scuola 2013, pp. 226-233
Baggini J., Le grandi domande. Etica, 2012, Dedalo 2013, pgg.169-187
Bencivenga E., La dimostrazione di Dio.  Mondadori 2009, pp. 99-125
Comte-Sponville A., Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio (or. 2006), Ponte alle Grazie 2007
Kung H., Dio esite? or.1978, Mondadori 1979
Mancuso V. Io e Dio, Garzanti 2011
Ward K., Quasi certamente c’è un Dio, or. 2008, Armenia 2012, pp. 154-160
Weischedel W., Etica scettica, or. 1976, Il Melangolo 1998
Zagzebski L.T., Pensare Dio. Un’introduzione storica alla filosofia della religione, 2007, Edoardo Varini Editore 2012, pp. 161-187
 

2 commenti:

  1. Ho letto con attenzione e interesse. E’ una trattazione ricca, con notevoli spunti di riflessione e stimolanti citazioni. Anche il legame tra Kant e Mancuso mi pare efficace. Al termine della lettura ho pensato alla prospettiva etica di Lévinas: il comando che viene dal volto dell’Altro. Difficile dire se si tratti di una concezione che regge dal semplice punto di vista filosofico o se – per comprenderla – sia indispensabile fare riferimento ad un condizionamento o addirittura ad un fondamento religioso, extrafilosofico, rappresentato dal retroterra dell’ebraismo. Comunque mi pare che sull’etica dell’alterità si giochi oggi la possibilità di un incontro tra credenti e non credenti. Grazie e buon pomeriggio. Rossana Rolando (moglie di Gian Maria Zavattaro).

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    1. Grazie Rossana del commento. Conosco poco e indirettamente Levinas, e anch'io direi che non so se la sua concezione regga, filosoficamente parlando. Tuttavia certamente avvince e forse, praticamente, convince più di altre speculazioni. Il volto dell'altro, magari dell'altro povero e bisognoso, direi che è quella "cosa" che ci interpella di più, con cui dobbiamo fare i conti, che ci responsabilizza. Dice Filippo Gentiloni in ABRAMO CONTRO ULISSE. Un itinerario alla ricerca di Dio, anch'egli simpatizzante di Levinas, a proposito di dove si possa incontrare Dio: "Molto più felice mi sembra un altro luogo di incontro, in linea con la tradizione ebraico-cristiana, anche se dimenticato negli ultimi secoli; non esposto ai rischi metafisici dell’oggettivazione né a quelli intimistici della psicologia. Un’esperienza “trascendentale” è forse possibile nell’esperienza dell’incontro con l’altro, quel particolare altro che è il povero. Povero, cioè ultimo, umile, oppresso, dimenticato, disprezzato. È in un vero incontro fattivo, non pietoso, ma operativo col povero che si può sperimentare meglio che in altri luoghi qualcosa o qualcuno che trascende, precede, supera, oltrepassa, fonda, motiva, condiziona e non è condizionato. Si tratta del valore dell’altro che soffre l’ingiustizia e che va aiutato.
      È un tema caro alla Bibbia e alla migliore tradizione ebraica e cristiana. Per molti salmi e molti testi profetici ed evangelici, il Dio vero non è quello che fa più miracoli o albe e tramonti più belli, ma quello che rende giustizia al povero.
      E sempre per la Bibbia e la migliore tradizione giudaico-cristiana l’incontro con il povero non è un “sentire” qualcosa, una sorta di compassione o di pietà. No. Il Dio della Bibbia si incontra non “sentendo” qualche cosa ma “facendo” qualche cosa e questo qualche cosa è la giustizia, quella giustizia che tratta il povero come il ricco, la vedova e l’orfano come il potente, il piccolo come il grande.
      Non si abbia fretta di chiamare con il nome di Dio questa esperienza più profonda e impegnativa delle altre. Il pericolo dell’idolatria è sempre alle porte, come ci insegna la Bibbia. Quello che è certo è che siamo chiamati tutti – credenti e non credenti – a fare giustizia al povero, qualunque sia il nome che diamo all’esperienza di tale chiamata, qualunque sia il volto che intravvediamo dietro all’impegno che abbiamo assunto come prioritario.
      Ricordiamoci quella grande pagina del vangelo (Mt.25) che orchestra la scena del giudizio finale proprio sulla giustizia resa al povero, e stabilisce la grande distinzione – destra e sinistra – non fra credenti e non credenti ma fra chi rende e chi non rende giustizia".
      Buona giornata Rossana

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