sabato 11 aprile 2015

11. ORIGINE E SPIEGAZIONE DELLA "RELIGIONE"


Dalle considerazioni sull’esistenza di Dio, passiamo ora all’analisi del fenomeno religioso, ossia allo studio della “religione”. Tale studio è importante, perché l’idea di Dio nella storia e nella nostra vita non la incontriamo a se stante ma all’interno di una religione istituita.
Ora ci chiediamo: da dove nasce la “religione”? Qual è la sua origine?
Occorre però precisare che la “religione” in quanto tale non esiste, esistono soltanto le concrete religioni storiche. Tuttavia bisogna pur dare una sommaria definizione di partenza di quel che intendiamo per “religione” pur sapendo che non ci sono definizioni universalmente valide.
Una buona definizione è quella del filosofo A. Aguti (2013) per il quale “la religione è l’insieme delle esperienze, credenze, atti rituali e comportamenti morali, tanto individuali che collettivi, che si riferiscono e sono indirizzati a una o a più divinità, cioè a una o più realtà personali dotate di un potere che sovrasta l’uomo, che quest’ultimo adora e verso le quali nutre una devozione totale in vista della propria salvezza”.
Noi tratteremo prima le questioni dell’origine della religione e le sue possibili spiegazioni, considerando i più classici approcci degli studiosi a tali questioni, con lo scopo di rispondere, se è possibile, alla domanda se il senso religioso e del sacro sia riferibile alla struttura originaria dell’esperienza umana o sia invece il prodotto culturale di scelte umane rese necessarie, o comunque suggerite, in una società resa via via più evoluta e complessa.
Poi illustreremo le singole religioni da quelle più antiche a quelle moderne, soffermandoci su quelle che rivendicano una rivelazione soprannaturale storica per giustificarne la verità o provenienza divina, e tra queste ci soffermeremo sui tre monoteismi, con specifico interesse per quello ebraico-cristiano. Noi siamo interessati al problema della verità della religione o delle religioni, non tanto a questioni sociologiche o culturali. Detto ancor più esplicitamente, ci preme sapere se le religioni possono giustificare una origine divina soprannaturale o se devono o possono essere considerate solo un prodotto storico-culturale dell’uomo. Quindi, per i nostri scopi, possiamo anche considerare semplicemente la religione rivelata come la credenza in una divinità che si ritiene si sia fatta conoscere all’uomo rivelandogli la sua origine e il suo destino soprannaturale, e la via per ottenerlo.
Lo studio delle religioni rivelate potrebbe anche farci conoscere, se venisse accertata la verità di qualche tradizione religiosa, la vera essenza, identità, o il vero “volto” di Dio, considerato che ad una analisi filosofico-scientifica del mondo e dell’uomo questi aspetti fondamentali del divino rimanevano ambigui e problematici. Infatti, si è già detto che, anche ammesso si potesse raggiungere il Dio dei filosofi e degli scienziati, questo potrebbe essere la Causa prima, il Creatore o l’ordinatore del mondo, la Mente o l’Essere: ma come sapere se questo “Dio” è personale o impersonale, se è interessato a noi, se può e vuole renderci felici, se ci ama, insomma se è significativo in sé e per la nostra vita o non piuttosto indifferente? La compresenza del bello e del brutto, del bene e del male, della gioia e del dolore nella storia e nella vita dell’uomo gettano una luce oscura su quello che potrebbe essere l’essenza di Dio – benevolo, malevolo o indifferente – e  quindi una eventuale autentica rivelazione divina potrebbe rassicurarci in merito.
Ma insieme con l’essenza di Dio, se l’uomo derivasse da Dio, una vera rivelazione divina ci farebbe anche conoscere l’essenza dell’uomo, chi è l’uomo, e con questo ci farebbe conoscere non solo da dove viene, ma anche dove va, o dove potrebbe arrivare (il suo destino) se seguisse la via indicata dalla rivelazione stessa. 
Alla presentazione di ogni religione seguirà infine una considerazione sulla credibilità teologica  o meno di tale religione, in altri termini sulla sua giustificabilità o ingiustificabilità razionale/esperienziale. Naturalmente alla religione cristiana dedicheremo un approfondimento molto più esteso che alle altre.  

Dati sulle origini

            Cominciamo dalla questione inerente l’“origine” della religione: la religione è connaturata con l’uomo o è solo un suo successivo prodotto culturale? La comparsa dell’uomo è anche la comparsa della religione?  Come si spiega e come si configura la religione delle origini?
            Individuiamo per sommi capi i percorsi che hanno portato alla comparsa dell’uomo sulla terra.
E’ l’Africa la terra dove si svilupparono i più antichi ominidi, gli Australopiteci, circa 4-5 milioni di anni fa, dando origine alla linea evolutiva che avrebbe alla fine portato all’uomo. Questi erano già bipedi.
A partire da 2,5-2 milioni di anni fa troviamo quello che fu denominato homo habilis caratterizzato da un certo sviluppo della capacità cranica  e dalla presenza di alcune forme di abilità manuale.
Vengono classificati come homo erectus i fossili “umani” che si ritrovano fino a 200.000-100.000 anni fa: il cranio è più cerebrizzato ed è capace di lavorazioni più progredite (conosce la lingua articolata, controlla il fuoco, usa utensili, raccoglie e caccia).
Da questa data in avanti si ha l’homo sapiens, che si suddivide in homo sapiens neanderthalensis (sottospecie europea, scomparsa circa 35000 anni fa) e homo sapiens sapiens, che risale a circa 100.000 anni fa ed è l’origine dell’uomo attuale. Le più antiche testimonianze della cultura umana sono i reperti di utensili, le tombe e le rappresentazioni artistiche (ad es. le pitture nelle caverne) dell’età della pietra (fino all’8.000 a.C.). Siccome i primi documenti scritti hanno al massimo 6.000 anni, l’interpretazione dei reperti antichi non può essere suffragata da testi esplicativi dell’epoca, ma si basa soprattutto su ipotesi. Si può dire che a cultura della forma sapiens è certamente  evoluta, sia nelle lavorazioni su pietra e su osso, sia nelle raffigurazioni dell’arte parietale e mobiliare, sia nelle pratiche funerarie, di cui le più antiche inumazioni sono state riconosciute in Palestina risalenti a 90.000 anni fa.
            Uno dei problemi aperti in tema di evoluzione umana è la identificazione della “soglia” umana, ossia quando si è passati dall’“animale” all’uomo, ed è un problema arduo. Quando nell’ominide si manifesta la capacità di progetto e di simbolismo è segno che la scintilla dell’intelligenza si è accesa in lui. Ma quando ciò è avvenuto? Dobbiamo riconoscere che le origini dell’uomo e della cultura sono avvolte nell’oscurità più profonda (F. Facchini).
Certamente non possono esservi dubbi sul livello umano degli esseri che nel Paleolitico superiore ci hanno lasciato raffigurazioni nelle grotte o di quelli che 90.000 anni fa incominciarono a seppellire i morti. Ma si può anche retrodatare la soglia dell’umano? A quando? E con l’avvento dell’umano   abbiamo anche l’avvento del senso religioso nell’uomo? 
            Alcuni studiosi (ad es. J. Ries e F. Facchini) riconoscono una capacità simbolica dell'uomo - incluso il simbolismo spirituale - nelle manifestazioni della cultura, anche in quelle di ordine strumentale. Anche la primitiva tecnologia, quando esprime creatività e intenzionalità, rivelerebbe autocoscienza. E nel momento in cui ha avuto coscienza di sé, l'uomo non può non aver percepito la sua differenza rispetto agli altri esseri che aveva attorno, non può non essersi posto “domande” su di sé e sulla realtà esterna. Espressioni di cultura nella storia evolutiva dell’uomo si trovano non solo nelle fasi recenti con l’homo sapiens che seppellisce i morti e affresca le pareti delle grotte, ma anche con l’homo erectus o l’homo abilis. L'uomo si rivela dunque sapiens già in quello stadio in cui viene definito faber per la sua tecnologia. In realtà è faber perché sapiens, fin dalle origini, perché fa emergere la coscienza riflessa e la capacità simbolica, che ispirano anche il senso religioso e del sacro. Già certi rituali funerari delle epoche precedenti a 100.000 anni fa lasciano intendere che l'uomo non è rimasto indifferente di fronte alla morte e ha sviluppato le sue capacità dì simbolizzazione attraverso gesti e operazioni che non si collegano a necessità immediate della specie. A questi studiosi sembra che, se anche non possiamo stabilire a quali convinzioni religiose fosse legata la fede nell'aldilà, in molti casi si osservano comportamenti a carattere rituale (offerte, posizionamento) che hanno attinenza con il sacro e rimandano certamente ad una sfera soprannaturale.
Altri studiosi sono più prudenti nelle loro interpretazioni, considerando che non esistono evidenze archeologiche per le quali si possa ipotizzare un significato religioso più antiche di ottantamila anni (anche se questo non lo esclude, perché l’enorme durata del sepellimento potrebbe aver cancellato ogni traccia di comportamento rituale) e che, se è vero che non conosciamo alcuna civiltà priva di qualsiasi forma di religione, non abbiamo il diritto di estendere il valore  di questa osservazione su epoche sconosciute del passato, affermando, per es., che la religione è connaturata all’uomo come tale. Questi studiosi (ad es. F. Fedele e P. Scarpi) dichiarano che non è possibile ripercorrere l’itinerario intellettuale e culturale che ha condotto l’uomo a separarsi dalla natura, elaborando tecnologie e forme di pensiero, nel corso dei lunghi e numerosi millenni del paleolitico (2.500.000 – 10.000 anni fa), in cui era stato un raccoglitore di cibo e un cacciatore. Nemmeno è possibile ricostruirne i comportamenti religiosi, al di là di un superficiale riconoscimento di pratiche funerarie o di elementi che possono far pensare ad azioni rituali. “Non ogni comportamento rituale è religioso, e non ogni atto strano e “non utilitario” è rituale” (F. Fedele). La presenza di ocra rossa nelle sepolture va considerata simbolo del sangue, della vita e della morte, o traccia dei vestiti in pelle tinti di rosso? I cumuli di ciottoli sferoidali, selci lavorate, fossili, minerali e denti di mammiferi, vanno interpretati come depositi votivi o come accumuli di materie prime e merci di scambio? Meno ambigue sono le sepolture, soprattutto se accompagnate da offerte, che denotano uno specifico atteggiamento verso la morte. Le sepolture dovute a uomini neanderthaliani (70.000- 35.000 anni fa) costituiscono una testimonianza incontestabile del rispetto tributato ai defunti, dimostrando l’esistenza di preoccupazioni spirituali, ma le eventuali concezioni religiose, così come i riti connessi con le inumazioni, sfuggono per ora all’indagine. L’apparire del disegno, coi suoi segni stereotipi, può al più permettere di pensare ad un linguaggio simbolico. Qualcosa di più sappiamo del neolitico (6000 – 4000 anni fa) - per la presenza di manufatti più complessi, la domesticazione degli animali, lo sviluppo dell’agricoltura, il passaggio dal nomadismo a vita sedentaria e quindi lo sviluppo di comunità proto-urbane - ma non è ancora possibile ricostruire la vita intellettuale e spirituale degli uomini di quest’epoca perché l’uso della scrittura non si afferma che a partire per lo meno dal IV millennio a.C.. Sappiamo che il maggior sviluppo umano e culturale si ha soprattutto nel Vicino Oriente (per l’habitat naturale favorevole). Quale fosse la cultura di queste popolazioni e quali forme di culto praticassero resta tuttavia un mistero. Nel neolitico il fenomeno religioso più macroscopico è la pratica funeraria. I vari reperti trovati – persone sepolte in posizione flessa e trattate con ocra rossa – invitano senza dubbio a intravedere una forma di culto, ma non si è in grado di precisare se ciò comportasse un culto degli antenati, per quanto questo sia plausibile.

I dati che abbiamo aprono dunque a diversi approcci al problema dell’origine e della spiegazione del fenomeno religioso.

Approccio evoluzionistico

Il più classico è rappresentato dalla “scuola evoluzionistica”. Questa partiva dal presupposto che nella fase primordiale dell'umanità non vi fosse alcuna forma di religiosità e che l’idea religiosa comparisse in uno stadio successivo, col procedere dell’evoluzione storica. Le varie fasi suggerite da Lubbock (1834-1913) erano le seguenti: ateismo, feticismo (o teriomorfismo), culto della natura (o totemismo), shamanismo, idolatria (o antropomorfismo). L'idea di Dio apparirebbe solo in una fase successiva. A una concezione evoluzionistica si ispirò anche E. Burnett Tylor (1832-1917), il quale propose uno sviluppo del senso religioso a partire dall'animismo, passando per il feticismo, l'idolatria, il politeismo e sfociando infine nel monoteismo. Condividono l’approccio evolutivo studiosi come Morgan (1818-1881) e, più recentemente, Sir James Frazer (1854-1941). Con uno schema che ricorda il positivismo di A. Comte, si partirebbe dalla magia come prima manifestazione dello spirito umano, per giungere poi alla religione ed infine alla scienza.
Nell’ipotesi di Tylor l’anima è concepita come la causa stessa della vita; essa inoltre è considerata come una sorte di “doppio” dell’individuo  in cui alberga. Un “doppio” dotato anche di un proprio grado di autonomia, in quanto può staccarsi temporaneamente dal corpo dell’individuo cui è legato per insinuarsi nella dimensione dei sogni, in cui si manifesta come essenza a sè stante. L’anima inoltre sopravvive alla morte fisica del soggetto umano: questa forma di credenza trae origine dal fatto che i fantasmi dei morti continuano ad essere visti nei sogni. A partire da questo presupposto si compie un passo ulteriore che porta alla credenza negli spiriti: ciò accade, in concreto, allorché le anime di determinati antenati sono concepite come entità sovrumane, elevate al rango di spiriti personali. Infine, tra i tanti spiriti che sarebbero sorti (anche quelli della natura) ad un certo punto della storia primitiva ne sarebbe emerso uno cui si sarebbe attribuito il titolo di Essere supremo. Le critiche all’evoluzionismo di Tylor sottolineano che la sua ricostruzione si fonda su ipotesi astratte più che su ricostruzioni storicamente attendibili. Inoltre è problematico l’utilizzo della nozione di “anima” maturata attraverso la nostra cultura occidentale moderna come un universale umano, posseduto in principio come forma rozza e ingenua (dai primitivi) e da ultimo nei modi più colti e consapevoli che si sono via via elaborati nell’occidente moderno.
Secondo Frazer all’inizio dell’umanità non è presente la religione bensì la magia, e la religione farebbe la sua comparsa in una stadio più progredito dell’umanità. Frazer considera la magia una falsa scienza, un tentativo per agire sulle realtà naturale per scongiurare un male o rendere meno dura la vita. La prerogativa essenziale del re-mago è quella di esercitare, a vantaggio della collettività umana, potere sulla pioggia, sul sole, sul vento. Per religione invece Frazer intende “il propiziarsi e il conciliarsi le potenze superiori all’uomo, supposte dirigere e controllare il corso della natura e della vita umana. Così definita la religione consiste di due elementi, uno teoretico e uno pratico, e cioè una credenza in potenze superiori all’uomo e un tentativo di propiziarsele o di piacere loro”. La magia sarebbe la coercizione diretta delle forze naturali da parte dell’uomo, mentre la religione sarebbe l’atto di propiziazione delle divinità da parte del credente. Frazer è convinto che tanto la magia quanto la religione rispondano in modi inadeguati ai medesimi interrogativi della scienza, ma che solo con l’avvento di questa, in seguito allo sviluppo del pensiero umano che nel tempo è avanzato, si sarebbe giunti alla spiegazione reale dei fenomeni naturali.
Malinowski ha criticato Frazer specificando la differenza tra magia e religione: la magia gira attorno a problemi concreti, specifici, mentre la religione guarda alle questioni fondamentali dell’esistenza, è più una visione del mondo; inoltre ha cercato di far vedere che magia, scienza e religione non sono separabili, ma operano anche contemporaneamente. 

Approccio sociologico

Nell'approccio “sociologico” di Emile Durkheim (1858-1917) la religione è una proiezione della società, un’emanazione della coscienza collettiva. È la società stessa che creerebbe il sacro, distinguendolo dal profano e indicandolo istituzionalmente nel Totem. L’approccio è condiviso da Marcel Mauss (1873-1950), Henri Hubert (1872-1927) e, in parte, da Lucien Lévy-Bruh1 (1875-1939).
       In particolare, in Durkheim si ha una certa rivalutazione delle religioni primitive: queste non sono false, ma sono vere nella loro maniera: rispondono in modi differenti a determinate condizioni umane. Inoltre esse rappresentano le basi della struttura scientifica e razionale futura: è infatti nelle rappresentazioni collettive di carattere religioso che nascono le categorie mentali di spazio, tempo, di genere, di numero, ecc.. Per lui tra magia e religione non c’è una netta linea di demarcazione; unica differenza è che la religione è un fatto sociale mentre la magia è più privato. E’ a partire dalla coscienza collettiva che nascono le idee. Per lui, tutte le credenze religiose presuppongono una classificazione delle cose, reali o ideali, in due generi contrapposti: il sacro e il profano. E’ osservando il comportamento sociale che Durkeim definisce il comportamento religioso. Causa obiettiva ed universale delle esperienze religiose è la società. La sua genesi sarebbe così spiegata: secondo lui la religione più primitiva è il totemismo, religione del clan nell’ambito del quale il totem rappresenta il sacro per eccellenza. Si tratta di una religione fondata su una forza anonima e impersonale presente in ogni membro del clan senza però confondersi con lui: è il mana. “Tale è la materia prima con la quale sono costruiti gli esseri di ogni tipo che le relioni di ogni tempo hanno sacralizzato e adorato. Gli spiriti, i demoni, gli dei di ogni grado non sono che le forme concrete assunte da questa energia”. E’ qui che bisogna cercare anche l’origine degli dei del cielo, del culto dei morti, dei riti e della loro efficacia. Poiché il totem esprime e simbolizza il mana, poiché il dio totem è anche il dio del clan, dobbiamo vedere nel totem l’ipostasi del clan, concludendone che all’origine del sacro c’è il clan. Per il nostro studioso la società è in grado di suscitare la senzazione del divino; essa è infatti per i suoi membri ciò che, parallelamente, è un dio per i fedeli.
A Durkheim si può obiettare che non tutti gli etnologi condividono il fatto che il totemismo sia una categoria religiosa: ora se questo fosse vero, cadrebbe il presupposto più importante su cui si basa la sua teoria. Poi si può osservare che la società ideale presuppone la religione piuttosto che spiegarla. Forse che la società è in grado di offrire realizzati valori come giustizia, amore, felicità così come essi sono realizzati in Dio per il credente? Il mito che la società crea di se stessa  si rivela un mito troppo fragile per resistere a lungo e per soddisfare  le esigenze profonde dell’uomo.
Il metodo di Levy-Bruhl si richiama a un radicale relativismo culturale: nega che ci sia una forma logica unitaria tra pensiero primitivo e quello occidentale moderno: diverso è il rapporto soggetto umano/mondo, naturale/soprannaturale, ecc. Il mondo primitivo non si sarebbe basato sul principio di “non contraddizione” quanto su quello di “partecipazione”: il mondo sensibile e l’altro mondo formerebbero una cosa sola, gli esseri invisibili sarebbero stati presenti tanto quanto gli invisibili. Siamo in presenza di una religiosità di tipo mistico, con una proiezione dell’uomo verso l’alterità non umana. Oggi tale posizione è ritenuta infondata e si preferisce piuttosto parlare di due “mentalità” che conviverebbero nell’uomo, a qualunque età o popolo appartenga, e per così dire si bilancerebbero variamente. 

Funzionalismo

Il “funzionalismo” di Bronislaw Malinowski (1884-1942) cerca il significato della religione nell'ambito della sua “funzione” all’interno di una determinata civiltà, in relazione cioè ai bisogni fondamentali di quel gruppo sociale. Esisterebbe allora, con R. Thurnwald (1866-1954), una certa correlazione tra le espressioni della religione e le diverse forme economico-sociali. Dalla credenza generale nella sacralità degli animali (teriomorfismo) durante il periodo dei popoli predatori, si passerebbe al totemismo delle culture dei cacciatori, alla personificazione animistica della divinità nelle culture agricole; la credenza in dèi supremi sarebbe invece specifica dei popoli dediti all’allevamento.
 In particolare, Malinowski contrappone alla successione temporale di magia, religione, mito, la loro contemporaneità, perché secondo lui una certa concezione scientifica è da estendere anche all’uomo primitivo. Il nostro autore assegna a magia, religione e scienza un ambito a ciascuna peculiare, in riferimento alla specificità della funzione che a ciascuna compete. La cultura nasce per soddisfare i bisogni umani: infatti lo specifico dell’uomo consiste nella sua peculiare prerogativa di soddisfare in modo culturale i bisogni fondamentali. Così la magia entra in funzione quando ci si scontra coi limiti della scienza (cioè nel dominio del caso, dell’imprevisto, inesplicabile), tanto nelle società primitive che in quelle progredite. In tal senso Malinowski riconduce la religione al bisogno umano di fronteggiare le numerose situazioni di crisi sparse lungo l’arco dell’esistenza umana, individuale e collettiva. “Ogni crisi importante della vita umana comporta un forte sconvolgimento emotivo, un conflitto mentale e una possibile disintegrazione. […] La credenza religiosa consiste nella standardizzazione tradizionale dell’aspetto positivo del conflitto interiore” soddisfacendo sia un bisogno individuale sia, gestendo pubblicamente queste crisi (con standardizzazioni e sanzioni soprannaturali), rafforzando i vincoli di coesione tra gli uomini. Tra le crisi, la più inquietante è quella connessa con la morte, con il suo potenziale potere di distruzione: la religione aiuta a gestire questa crisi (con ripercussioni individuali e sociali) elaborando teorie come quella dell’immortalità.  

Metodo etnologico

 Il metodo “etnologico” di Andrew Lang (1844-1912), contro l'animismo di Tylor e la mitologia naturistica di Max Müller (che vedeva l'origine della religione nei fenomeni della natura), pose la credenza in un Dio superiore agli inizi della religione, analogamente con quanto egli osservava presso popoli molto primitivi, come gli Australiani e gli Andamanesi. L’idea fu ripresa da Wilhelm Schmidt (1868-1954) che sostenne, sulla base di tradizioni orali raccolte presso gruppi primitivi dell'America, dell'Africa e dell'Australia, che la prima forma di religione fosse il monoteismo, cioè la credenza nell'Essere supremo, da ricollegarsi a una rivelazione primitiva. Questa teoria è stata però criticata dallo storico delle religioni italiano Raffaele Pettazzoni (1877-1955), che ha studiato la comparsa e lo sviluppo della religione con un metodo “storico”, comparando i dati offerti dalle religioni classiche dei Greci, dei Romani, dei Germani, degli Slavi, e che si è occupato in particolare del monoteismo, a partire dal mondo dei popoli primitivi. Secondo Pettazzoni l'idea che la credenza in un Essere supremo (generalmente uranico) si sia formata in un dato punto presso una famiglia umana e si sia poi diffusa sulla terra, come sostenuto da Schmidt, non sarebbe verosimile. I popoli primitivi attuali che possiedono questa credenza appartengono a una grande varietà di aree culturali e rappresentano formazioni distinte maturatesi attraverso processi di durata considerevole. Diversamente dall’idea di un monoteismo primitivo, l’immagine di un Essere celeste superiore non avrebbe subito un lento degrado storico, ma avrebbe immediatamente assunto colorazioni religiose diverse, a seconda dei vari ambienti culturali in cui sorse. Per Pettazzoni il monoteismo non è pensabile senza il politeismo che lo preceda, e può essere inteso in un certo senso solo come critica ad esso.

Approccio fenomenologico

Altri studiosi hanno criticato gli approcci evoluzionistico, sociologico e funzionalistico – che tutti fanno derivare la religione da qualcosa di esterno ad essa – per rivendicare l’autonomia dell’aspetto religioso dell’uomo. L’approccio “fenomenologico” al problema delle origini delle religioni è quello operato da Nathan Söderblom (1866-1931), Rudolf Otto (1869-1937) e Gerardus van der Leeuw (1890-1950). Per questi autori la parola chiave della religione sarebbe il «sacro», ancor più del concetto di «Dio». Una religione può realmente esistere senza una concezione precisa della divinità, ma non esiste alcuna religione senza la distinzione tra sacro e profano. Viene così superata la distinzione fra stadio magico e stadio religioso. Per Otto l'idea del sacro affonda le sue radici nelle profondità dell'animo umano, in una sorta di “rivelazione interiore” che porta ad apprezzare il valore del numinoso, del mistero tremendum et fascinans, che si manifesta in fatti e avvenimenti. Secondo Otto l’uomo religioso scopre un elemento “dalla qualità assolutamente speciale che si sottrae a tutto ciò che abbiamo chiamato razionale, è completamente inaccessibile alla comprensione concettuale e, in quanto tale, costituisce qualcosa di ineffabile”. Questo elemento è il sacro, che appare “come un principio vivente in tutte le religioni. Né costituisce la parte più intima e, in sua assenza, esse non sarebbero più forme della religione”. Questo elemento primordiale viene chiamato da Otto “numinoso”. Otto descrive la strada per cui l’uomo scopre e coglie il numinoso. Si presentano quattro tappe.
 La prima è quella del sentimento dello stato di creatura e si tratta della reazione provocata nella coscienza dall’oggetto numinoso. Questa esperienza fa nascere nell’uomo un vivo e profondo sentimento di dipendenza.
La seconda tappa della conquista del luminoso è la tappa del tremendum, del terrore mistico. Nell’inacessibilità assoluta del numinoso si trovano la potenza, il misticismo della maestà. E’ questa emozione che fa nascere anche la tensione e l’energia dell’ascesi, gli atti di una vita eroica.
 La terza è quella del misterium: l’oggetto numinoso si presenta come il trascendente, il totalmente altro.
 La quarta tappa è quella del valore soggettivo, beatifico per l’uomo: è il fascinans che seduce, rapisce, da cui né discendono l’amore, la compassione, la benignità. E’ sul piano di questa tappa che Otto colloca ciò che le religioni chiamano la salvezza: le esperienze di grazia, il nirvana dei buddisti, l’estasi nell’induismo delle Upanishad e la visione beatifica nella  religione cristiana.
Secondo Otto la categoria “sacro” è un fattore primario che si trova all’origine di una rivelazione interiore, ma in maniera indipendente da ogni riflessione mentale: è l’a priori religioso. E’ in questa rivelazione interiore del divino che bisogna cercare secondo lui l’origine della religione. Grazie a questa disposizione naturale dello spirito a cogliere il numinoso,  a interpretarlo, a valutarlo, l’uomo diviene beneficiario di una rivelazione interiore, ineffabile, mistica, che gli permette di accostarsi al “tutt’altro”. Tale spiegazione si contrappone alle teorie evoluzionistiche e permette di respingere tre tesi che hanno avuto il loro momento di gloria: la mitologia naturista  della scuola di M. Muller che cercava l’origine della religione nei fenomeni della natura; l’animismo di Spencer e di Tylor che collocava alle origini religiose dell’umanità il culto degli spiriti ancestrali; e infine la dottrina del mana preconizzata dai sociali. All’origine della religione, gli evoluzionisti collocavano una cosa o un avvenimento, a partire dai quali si sarebbe sviluppata una prima forma di pensiero religioso. Per Otto, il punto di partenza si trova nella ragion pura: il numinoso scaturisce dalla fonte nascosta nelle profondità dell’anima umana. Al postulato durkheimiano della coscienza collettiva, egli sostituisce il postulato  di una rivelazione interiore, e cioè, in altri termini, il sacro viene considerato come categoria a priori dello spirito.
Otto spiega la differenza tra la religione “primitiva” e quella “compiuta” in base al fatto che nella prima gli uomini esperivano solo l’aspetto tremendum del sacro, mentre quella compiuta prevede la completezza dei due aspetti paradossali, fascinum e tremendum; inoltre nella religione compiuta si ha una maggiore elaborazione razionale e morale che è assente allo stato “grezzo” della religione. Accanto alla rivelazione personale del sacro all’uomo religioso, esiste una manifestazione del sacro nella storia. Questa manifestazione storica, espressa per mezzo di segni, viene riconosciuta da lettori del sacro che possiedono la facoltà della divinazione: si tratta, da una parte, dei profeti, geni religiosi, fondatori delle grandi religioni  e dei culti; dall’altra, del Figlio, Gesù Cristo, che manifesta il regno di Dio: da cui deriverebbe la trascendenza assoluta del cristianesimo. 

Approccio fenomenologico-ermeneutico

Uno sviluppo  dell’approccio di Otto, definito di tipo “fenomenologico-ermeneutico”, è quello di Mircea Eliade (1907-1986). Introducendo il concetto di «ierofania», cioè di «manifestazione del sacro» ed utilizzando gli studi comparativi di Georges Dumézil su concetti, miti, riti e divinità del mondo indoeuropeo, egli propone un metodo integrale: storico, fenomenologico ed ermeneutico. Storico, perché ogni fenomeno religioso è prima di tutto un fenomeno storico in quanto ogni esperienza religiosa avviene in un contesto storico-culturale ben determinato. Fenomenologico, perché ogni fenomeno religioso dev’essere colto nella sua modalità specifica - e non verrà compreso nella sua totalità che superandone gli aspetti storici e socio-culturali - che è quello di esperienza sui generis provocata dall’incontro dell’uomo con il sacro. Ermeneutico, perché, a partire da documenti chiaramente definiti grazie alla ricerca storica e correttamente interpretati  dallo studio fenomenologico, è importante procedere a un lavoro di comparazione, perchiarire il messaggio contenuto in questi documenti e per farlo conoscere.
Ogni fenomeno religioso è una “ierofania”, cioè un atto di manifestazione del sacro. L’atto di manifestazione del sacro è sempre un atto misterioso: “la manifestazione  di qualcosa di totalmente altro, di una realtà che non appartiene al nostro mondo ‘naturale’ e ‘profano’”. Tuttavia, se il sacro si manifesta come una realtà che dipende da un ordine diverso da quello naturale, il sacro non si presenta mai in se stesso allo stato puro. “L’atto dialettico resta lo stesso: la manifestazione del sacro attraverso qualcosa di diverso da esso; esso appare in oggetti, miti o simboli, ma mai nella sua interezza e in maniera immediata e nella sua totalità”.  Così, accanto all’omogeneità di natura, le ierofanie  presentano una eterogeneità di forme alquanto sconcertante: riti, miti, forme divine, oggetti, simboli, uomini, animali, piante, luoghi. “L’homo religiosus crede sempre che esista una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo, ma che vi si manifesta e, in questo modo, lo santifica e lo rende reale”. Il sacro per Eliade è un elemento di una “struttura della coscienza”, non un momento della “storia della coscienza”. Questa realtà, comunque si manifesti o sia percepita come oggetto, è il «Totalmente Altro», che trascende il mondo. La storia delle religioni non è che un accumulo di ierofanie, di cui occorre cercare il significato attraverso un approccio fenomenologico.
I limiti dell’impostazione della fenomenologia della religione sono di seguito riassunti.
La maggior parte dei fenomenologi della religione ed Eliade affermano di usare un approccio empirico, libero da ipotesi e giudizi a priori. Un simile approccio empirico, descritto come “scientifico” e “obiettivo” parte raccogliendo documenti religiosi e poi prosegue col decifrare i fenomeni religiosi descrivendo proprio ciò che rivelano i dati empirici. Affermano che le loro scoperte delle tipologie esenziali e delle strutture universali sono basate su generalizzazioni empiriche e induttive. Ma uno degli attacchi più frequenti rivolti alla fenomenologia della religione è che essa non sia fondata empiricamente e perciò che sia arbitraria, soggettiva e non scientifica. I critici affermano che le strutture e i significati universali non si trovano nei dati empirici e che le scoperte della fenomenologia non possono essere assoggettate alle prove empiriche di verifica.
I fenomenologi hanno criticato ogni riduzione dei dati religiosi operata per inserirli in prospettive non religiose, come quelle della sociologia, della psicologia o dell’economia. Tali riduzionismi - sostengono - distruggono la specificità, la complessità e l’irriducibile intenzionalità dei fenomeni religiosi. Il fenomenologo deve rispettare l’“originale” intenzionalità religiosa esperessa dai dati. Ma molti critici hanno attaccato l’antiriduzionismo della fenomenologia della religione, sostenendo che esso sia metodologicamente confuso e ingiustificato, e che nasca dall’intento teologico di difendere la religione dall’analisi profana. La critica più radicale contro questo antiriduzionismo si fonda sul fatto che tutti gli approcci metodologici sono prospettici, limitanti e necessariamente riduzionistici. L’ipotesi dell’irriducibilità del religioso è essa stessa riduzionista, dato che delimita quali fenomeni saranno esaminati, quali aspetti dei fenomeni saranno descritti e quali significati saranno spiegati. I fenomenologi non possono sostenere che altri approcci riduzionisti siano necessariamente falsi e che solo il loro approccio renda giustizia a tuttte le dimensioni e componenti delle attività e manifestazioni relative al mondo della religione.
È inoltre oggetto di discussione se la descrizione dell’esperienza del sacro proposta da Eliade superi i limiti delle proposta di Otto e rappresenti quindi un efficace modo per definire e descrivere la religione. Sociologi ed antropologi mettono in genere in dubbio la sua verificabilità nella realtà e non condividono l’interpretazione che Eliade fornisce dei dati. Per loro il sacro è una costruzione ideale: non si tratta di una autentica realtà empirica. Linguisti, psicologi e filosofi obiettano, inoltre, che il sacro non è identificabile negli schemi rispettivamente del linguaggio, dell’esperienza  e del pensiero. Per tutti costoro infine, l’esperienza religiosa costituisce un insieme di realtà e di esperienze culturali e non è affatto qualcosa di separabile e di isolabile in sé e per sé. Come dice N. Smart: “Il senso del numinoso è un fatto, ma l’oggetto che si suppone riveli non è necessariamente un fatto”. Anche per l’antropologo francese C. Riviére (1998) “è la credenza che costruisce il sacro e che ne afferma il carattere di rivelazione. Una ierofania non è una manifestazione del sacro in sé, ma la credenza nel fatto che un essere (persona o oggetto) rinvii simbolicamente a un significato altro avente una propria consistenza ontologica. In breve, a partire da una realtà esterna si elabora fantasmaticamente un’esperienza interna, che si crede sia prodotta dall’azione esterna di un’entità a cui l’uomo stesso dà il valore di entità sacra. E’ ancora l’uomo che decide che una potenza superiore è penetrata in un’essere, in un animale, o in un oggetto, il quale funziona come anello di congiunzione tra il profano e il sacro. Il fatto che il sacro sia strutturalmente incorporato nella coscienza dell’homo religiosus non permette di inferirne l’esistenza al di fuori di questa coscienza”. In conclusione “i limiti di quest’impostazione (fenomenologica) si riassumono in un soggettivismo incontrollato in conseguenza del quale il fenomenologo, affidato alla sua capacità divinatrice e artistica, basa la sua indagine su un intuito che sfugge a qualsiasi controllo metodico”(G. Filoramo). E l’intuizione non è affatto libera dalla responsabilità di accertare quale interpretazione di un dato fenomeno sia la più adeguata, né dal provare perché lo sia.  

La scienza cognitiva della religione

Questo ultimo indirizzo contemporaneo è fortemente critico nei confronti di una realtà trascendente della religione. Esso prevede l’utilizzo della teoria dell’evoluzione darwinista combinato coi risultati delle scienze cognitive. In base a questo modello, si tenta di spiegare il fenomeno religioso riconducendolo ad un meccanismo cognitivo di base che serve alla sopravvivenza dell’uomo sia come individuo sia come specie. Il nocciolo dell’argomentazione tende a dimostrare quella che l’antropologo e psicologo cognitivista P.Boyer , uno dei maggiori rappresentanti di questo nuovo indirizzo, ha chiamato la struttura “parassitaria” della religione, considerata essenzialmente come una credenza  in un certo stato di cose soprannaturali che si alimenta di un preciso meccanismo cognitivo avente una funzione ai fini della sopravvivenza dell’uomo (Id., E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione, 2011). L’argomento della dipendenza della religione dai processi cognitivi presuppone che il processo evolutivo abbia prodotto il sorgere della coscienza umana e poi, a partire da funzioni cognitive proprie di quest’ultima, finalizzate alla sopravvivenza, ne siano sorte altre che si rapportano alle prime in modo più o meno parassitario. Come ha affermato il filosofo della mente D. Dennet, nel caso della religione è indifferente che questa funzione derivata coaudiuvi le funzioni cognitive basilari ordinate alla sopravvivenza oppure sia collaterale a esse o addirittura le ostacoli (Id., Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, 2007). In ogni caso il fenomeno religioso, per questo nuovo indirizzo, è un fenomeno derivato, che non possiede una realtà se non quella nella mente degli uomini. Anche autori italiani – per es. V. Girotto, T. Pievani e G. Vallortigara, nel loro libro Nati per credere, 2008 -  sono convinti che la mente umana nell’evoluzione, in virtù della selezione naturale, si sia strutturata in modo da interpretare i processi fisici e biologici in termini di causalità, di obiettivi e di intenzioni. Per poter controllare il proprio comportamento e renderlo adeguato alle mutevoli circostanze della vita, molti animali e certamente gli umani hanno bisogno di rendersi conto delle conseguenze delle azioni e delle scelte da fare per ottenere un determinato risultato. Questa struttura sembra sia già presente fin dalla nascita, in ogni caso sia acquisita fin dai primi mesi della vita. Questa impostazione porta a pensare che tutto esiste per una ragione e che ogni cosa ha una sua funzione oltre che una sua causa. Se tutto esiste per una funzione e tutto ha una causa, viene spontaneo cercare il progettista del mondo. Però in natura ci sono progetti, ma senza progettista, affermano gli autori, perché la loro realizzazione passa attraverso tentativi e mutazioni occasionali.
La critica che si può fare a questo indirizzo è che al massimo sbocca semplicemente nell’ammissione dell’esistenza di una struttura mentale o cognitiva sostanzialmente unitaria nell’uomo come individuo e negli uomini di tutte le culture. Non possiamo certo derivare l’esistenza di Dio dal nostro bisogno, fosse anche innato, di credere. Ma nemmeno il contrario: il fatto che abbiamo delle rappresentazioni mentali “religiose” non vuol dire che la “religione” sia nient’altro che quelle rappresentazioni, che si esaurisca in esse. Che quello che ci rappresentiamo mentalmente rimandi a qualcosa di “esterno” di reale oppure no, non si può dire solo in base a queste rappresentazioni. Le neuroscienze non possono rispondere alla domanda se Dio esista o se sia soltanto un “prodotto del cervello”, ma soltanto rilevare quali regioni del cervello si attivano, con maggiore o minore intensità, in corrispondenza a certe esperienze religiose: “La neurofisiologia non può fare alcuna affermazione decisiva sui contenuti , il significato, la qualità e la verità dell’esperienza religiosa” (U. Eibach).  

Sintesi e conclusioni

Riassumiamo così le conclusioni sull’“origine” e spiegazione della “religione”. 

La religione risale all’origine dell’uomo? Esistono tre risposte alternative fondamentali. La prima sostiene che si sia data una comparsa contemporanea del sacro e del profano; per la seconda il sacro è il risultato di una successiva evoluzione del profano; nella terza si ipotizza un’iniziale pansacralità (da cui non si distingue il magico; il profano si sviluppa progressivamente secondo una primordiale secolarizzazione). Il dibattito resta aperto e non è possibile verificare alcuna teoria sulle origine e sviluppo della religione. Anche se si potesse considerare il postulato della nascita della religione con la nascita dell’uomo come quello più probabilmente corretto, dice lo studioso C. Colpe, non si può sapere se in origine la religione abbracciava per intero l’esistenza o se, al contrario, esisteva una visione profana del mondo accanto a quella religiosa. 

Come si configurava la religione delle origini? È ipotizzabile (estrapolando dai dati archeologici e soprattutto dalle concezioni religiose delle popolazioni etniche attuali) che l’ambito soprannaturale sia stato estremamente esteso, che tutto venisse sacralizzato. I fenomeni naturali venivano interpretati quali manifestazione immediata della divinità. A ciò si aggiungeva la tendenza alla concezione antropomorfizzata delle realtà naturali. Piante, animali, e cose acquistavano tratti umani. Li si venerava e li si temeva come fossero entità personali. Quanto alla concezione che le religioni primitive dovevano avere della divinità sembra probabile la credenza nell’esistenza di un essere supremo, insieme ad altre divinità minori inquadrate nell’ambito dei suoi poteri, che è onnisciente, vede tutto e giudica, generalmente (ma non necessariamente) è creatore e signore dell’universo, padrone delle sorti dell’uomo e della storia e tuttavia ritirato in cielo da cui non segue se non raramente le sorti dell’uomo e del creato (non è sempre considerato trascendente, ma anche identificato con il cielo). 

Come si spiega il sorgere e la natura del fenomeno religioso? Ci si trova davanti a due posizioni contrastanti: una, che vede la religione radicata in una realtà altra, avente una realtà ontologica variamente denominata: qualcosa (il sacro), o qualcuno (esseri sovrumani, dèi, Dio), che trascende la dimensione umana, ponendosi insieme come suo fondamento, e che si manifesta agli uomini in diversi modi (sentimenti di dipendenza e creaturalità di fronte alla natura o fenomeni o oggetti di essa;  comunicativa presenza di Dio attraverso la creazione; comunicazioni primordiali, mediate o dirette, del divino agli uomini, tramite teofanie o ierofanie). L’altra, che vede la religione nient’altro che come risposta culturale agli interrogativi o preoccupazioni degli uomini a proposito di realtà o poteri che l’uomo non riesce facilmente a comprendere e a gestire, come la morte, la vita e il tempo, “proiezione creativa dei nostri bisogni” che non rimanda ad alcunchè di ontologicamente reale; le credenze religiose così create non solo permettono di entrare in relazione con gli aspetti problematici  e vitali della realtà, ma di dominarli, mentalmente (con i miti) e praticamente (con i riti). 
Questa alternativa per me rimane indecidibile razionalmente,  è un conflitto che non può essere risolto perché mancano gli strumenti per la verifica o la falsificazione di entrambe le prospettive. Nemmeno si vede come una possa essere ritenuta oggettivamente più plausibile dell’altra.

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