lunedì 20 aprile 2015

20. Origini del CRISTIANESIMO (II)


Brevissimo “profilo” della vita di Gesù 

Dalle informazioni precedenti risulta possibile descrivere questa figura di Gesù, reperibile nei suoi tratti essenziali e sostenuta dalla maggioranza degli studiosi.
Gesù nacque probabilmente a Nazaret, verso il 6-4 a.C., da Maria e Giuseppe (padre soltanto putativo secondo il I cap. di Mt e Lc). Verosimilmente trascorse circa 30 anni a Nazaret svolgendo l’attività di carpentiere di suo padre. Non si dice che fosse sposato. Verso il 28 d.C. Gesù uscì da Nazaret e seguì il “profeta escatologico” Giovanni Battista facendosi anche battezzare da lui. Ben presto passò autonomamente a predicare e ad operare per le vie della Palestina, seguito da uno stretto gruppo di discepoli scelti. Divenne una figura carismatica e autorevole agli occhi di molti.
 Il centro del suo messaggio era l’avvento del regno di Dio, del Dio d’Israele, evento di salvezza e giudizio per gli uomini: si rifaceva alla concezione ebraica del suo tempo sul regno, ma non senza imprimervi qualcosa di personale e grandioso: il regno era presente e già iniziato entro il suo ministero anche se solo in futuro ci sarebbe stata la sua piena realizzazione, sulla terra rinnovata o in una dimensione trascendente.
Il Dio al centro di questo regno non era prima di tutto un Dio giudice, un re terribile, lontano e onnipotente, bensì soprattutto un padre amorevole, che si preoccupa e si prende cura degli uomini, si rallegra nel recuperare i suoi figli perduti. Questo messaggio di un Dio amorevole fu attuato dallo stesso Gesù, nella sua ricerca e compassione degli ultimi, dei più poveri ed emarginati, di peccatori e ammalati, e non da ultimo operando guarigioni ed esorcismi in loro favore, segni della benevolenza di Dio e della presenza della sua signoria.
            Alla luce del giudizio e dell’offerta gratuita di salvezza e perdono da parte di Dio che verrà, Gesù indicò come avrebbero dovuto vivere coloro che avevano fatto esperienza della conversione. Egli non si contrappose alla torah quanto piuttosto la trascese, con la sua radicalizzazione delle norme etiche (sopratutto il comandamento dell'amore, e dell’amore per i nemici) e la relativizzazione delle norme rituali (soprattutto i precetti sul sabato e sulla purità) in nome dell’autenticità interiore dell’uomo. Gesù mise così al centro della sua etica l’amore senza restrizioni per Dio e per il prossimo, come si vede dai suoi detti che trattano di misericordia, perdono e doveri simili verso gli altri.
            Con la dottrina e la vita Gesù suscitò attenzione da un lato e contraddizioni dall’altro. Verso l’anno 30 d.C. si recò a Gerusalemme, dove profetizzò la distruzione del tempio e compì i suoi gesti di “purificazione” dello stesso. Qualche giorno dopo fu arrestato e processato. Perché? Dovettero esserci state diverse cause concomitanti: di carattere religioso - manifestazione della sua autorità nell’interpretare la torah in modo personale tale da indurlo in conflitto coi maestri giudei? rivendicazione di una pretesa di rappresentanza/uguaglianza di/con Dio? la sua contestazione al tempio (che qualunque fosse il suo esatto significato, mirava in ogni caso a relativizzarne il ruolo, per assolutizzare invece il suo annuncio e la sua pretesa di rendere presente la signoria di Dio)? - che portavano anche a rischi politici, come la minaccia al potere dei sadducei e ai loro interessi economici, e a problemi di ordine pubblico (gli studiosi divergono sull’importanza delle motivazioni teologiche e/o politiche per l’arresto e la condanna di Gesù). In ogni caso, le autorità giudaiche lo fecero arrestare. Esclusivi motivi politici dovettero essere invece quelli che indussero Pilato a procedere contro Gesù: visto lo scalpore che avrebbe potuto sollevare in Galilea, e quindi per evitare insurrezioni e destabilizzazioni del suo potere, Pilato lo condannò a morte. Fu crocifisso e sepolto.
            Ma, secondo il NT, non tutto finì. Dopo non molto tempo i suoi discepoli si misero a predicare a Gerusalemme la sua risurrezione, dicendo che era loro apparso la domenica dopo la sua morte, a Pietro, a Maria Maddalena e quindi a molti discepoli riuniti insieme (e successivamente sarebbe apparso anche a Paolo). Erano convinti che Gesù fosse vivo, che Dio l’avesse risuscitato e che fosse il messia, Signore e Salvatore. 

I fondamenti della cristologia 

            Ora, riguardo la cruciale questione dell’identità di Gesù, quali sono le principali ragioni che vengono addotte per sostenere che fu un personaggio unico, anzi talmente straordinario da persuadere molti di essere stato incaricato da Dio per la salvezza degli uomini, e di essere addirittura divino lui stesso?
Tale convinzione circa l’identità di Gesù è rinvenibile attraverso vari aspetti della sua predicazione e prassi, dalle profezie anticotestamentarie su di lui, e soprattutto dalle testimonianze sulla sua risurrezione dopo la sua morte. 

Ruolo che assume Gesù nell’instaurazione definitiva del regno

Egli era convinto che il regno di Dio, che doveva venire, fosse già inizialmente presente attraverso la sua persona e la sua opera, e ha invitato gli altri ebrei ad abbandonare visioni alternative del regno dei cieli per unirsi alla sua. Questa sua pretesa di salvezza definitiva si fà palese nella sua ricerca e accoglimento dei più emarginati e ‘peccatori’ ai quali offriva il regno senza richiedere che questi impiegassero il normale meccanismo di pentimento e di sacrificio giudaici, cosa che lo metteva in costante stato di impurità rituale agli occhi degli stretti osservanti della legge. In altre parole, la salvezza era legata alla sua persona.
Rimangono tuttavia diverse questioni insolute, circa la natura e il quando dell’avvento di questo regno. Si è detto che il regno è qui adesso e si compirà meglio in futuro, ma rimane imprecisato dove, se sulla terra rinnovata (mutata dall’avvento escatologico) o in una dimensione trascendente (un altro mondo, “celeste”). Nei vangeli si parla infatti di un regno politico-sociale dove si mangia e beve, i dodici apostoli avrebbero giudicato le dodici tribù di Israele, localizzato in Palestina, dove accorrono anche i pagani; al contempo però si va anche oltre, per toccare quell’ambito al di là dei confini della morte e del mondo terreno: i patriarchi defunti in esso sono vivi e con essi gli altri risorti si siederanno a mensa; lo stato di vita dei risorti sarà simile a quello degli angeli,  e inoltre si parla dell’opposizione tra regno e geena. Il banchetto gioioso è l’unica espressione usata da Gesù per descrivere la vita nel regno, probabilmente segno di vita gioiosa realizzata attraverso la comunione con Dio e con gli uomini. Rimane indefinito anche quando gli uomini entreranno nel regno dei cieli: tenendo conto delle principali concezioni dell’aldilà conosciute dagli ebrei ai tempi di Gesù, e cioè quella dell’immortalità dell’anima e quella più diffusa della risurrezione dei corpi, ci sarebbero tre possibilità: o con la morte le anime entrano nel regno dei cieli; oppure moriranno e attenderanno poi la risurrezione del corpo; o Dio impianterà il suo regno (sulla terra?) prima che muoiano. Appariva ragionevole accettare una combinazione di queste possibilità: quando gli uomini muoiono, le loro anime vanno in cielo; in futuro Dio instaurerà il suo regno (sulla terra?) e in quel momento giudicherà i vivi e i morti (i cui corpi risusciteranno).
Rimane anche irrisolta la questione di stabilire quando Gesù intendesse la venuta del regno (e con questo il suo ritorno dopo la sua morte, la cosidetta parusia), visto che in alcuni passi (Mc 13,30; Mt 10,23; Mc 9,1) si dichiara la sua venuta imminente, entro quella generazione e prima della morte dei suoi uditori: secondo alcuni studiosi i passi sono chiari e bisogna ammettere che Gesù, e con lui i primi cristiani (è evidente l’eco di tale convinzione nel NT, soprattutto in Pietro e Paolo), si sarebbero sbagliati e la  fine non era affatto vicina come loro pensavano; altri interpretano quei passi come linguaggio simbolico o comunque non riferibili al Gesù storico ma alla chiesa primitiva, e si rifanno a Mc 13,32 dove Gesù ammette di non conoscere la data dell’avvenimento.  

Autorità nell’insegnamento

Si tratta della sicurezza con cui Gesù si poneva davanti ai problemi dei suoi interlocutori, l’inappellabilità del suo giudizio sulla legge, a cui, se non si contrapponeva, quantomeno la trascendeva e la completava con la sua dottrina. A volte approfondiva semplicemente o ampliava la spinta della legge (es. l’equazione delle parole di collera con l’omicidio o dei pensieri impuri con l’adulterio), a volte arrivava al punto da annullare la lettera della legge (la proibizione del divorzio, del giuramento, forse persino l’annullamento delle leggi sul cibo). Ciò che è notevole è che Gesù non fondava i suoi sorprendenti comandamenti e il suo insegnamento rifacendosi all’autenticazione dei profeti dell’AT (“La parola del Signore è giunta a me, dicendo..”) o sul ricorso di rabbi o su argomentazioni contorte tratte da una serie di testi della scrittura, ma affermava di conoscere direttamente, intuitivamente e senza i consueti organi che mediano l’autorità, quale fosse la volontà di Dio in ogni data situazione, rivendicazione espressa da un “amen”che precedeva i suoi insegnamenti (finora non si è trovato alcun altro uso simile nella documentazione storica), come se li avesse ricevuti direttamente da Dio.
Tuttavia è anche vero che per tanti aspetti gli insegnamenti etici di Gesù possono trovare paralelli nella cultura ebraica e anche fuori di essa; peraltro già al tempo di Gesù esistevano diverse interpretazioni riguardo la torah (più o meno rigide), ed è generalmente ammesso anche che le discussioni intorno ai precetti della legge (soprattutto coi farisei) hanno subito dei condizionamenti dai confronti successivi alla pasqua (quando la prima comunità cristiana entrò in polemica coi farisei). 

Immediatezza del rapporto di Gesù con Dio

Egli lo considera Padre e la sua relazione intima con lui trova espressione nella formula non consueta di rivolgersi a Dio come Abba. L’eccezionalità della frequenza e l’uso di questo termine fattone da Gesù all’interno dell’ebraismo, termine che indica intimità di rapporto e il cui significato eccezionale emerge quando Gesù distingue tra “il mio Padre” e “il vostro Padre”, ne fanno un forte indicatore della speciale relazione che Gesù doveva avere con Dio Padre. Tuttavia occorre anche considerare che in altri passi Gesù al suo rapporto di immediatezza con il Padre intende introdurre anche gli altri (non è limitato a lui soltanto) e parla anche di “figli di Dio” al plurale (per es. nel discorso della montagna). Bisogna anche liberarsi dall’idea che Gesù sia stato il primo nella storia delle religioni a nominare Dio come padre ed abbia per primo centrato il suo messaggio sull’idea della figliolanza divina di tutti gli uomini. Il pensiero della paternità della divinità ricorre in forma diverse in molte religioni: per es. nella religione mitica greca padre era Zeus e nella religiosità stoica la divinità era padre del cosmo e gli uomini suoi figli. Anche nell’Antico Testamento si fa talvolta uso di questo termine anche se prevale la dimensione regale di Dio. L’uso di abba è riferibile anche a carismatici giudei dei tempi di Gesù come Hanina ben Dosa e Hanan nipote di Honi. Se quindi si può pensare ad uno sviluppo che ha avuto l’immagine di Dio come Padre dalla Bibbia ai rabbini, ossia dal livello collettivo di Creatore/Generatore del popolo ebraico in direzione dell’immagine di padre celeste provvidenziale nell’ambiente hassidico-carismatico, allora l’insegnamento di Gesù su Dio padre può rispecchiare le idee dell’ebraismo biblico, soprattutto nello sviluppo che ha avuto nella sua epoca, anche se insieme evidenzia tratti individuali particolari. 

Promessa di perdonare i peccati

Questo è un fatto che, di norma, era richiesto e atteso solo da Dio, mentre Gesù due volte, nella guarigione del paralitico (Mc 2,1-12) e nell’incontro con la peccatrice (Lc 7,36-50) se ne attribuisce la competenza. Questo suscita scandalo perché generalmente il perdono viene effettuato nell’ambito del tempio e del suo culto e viene riferito al potere di Dio.
Tuttavia bisogna considerare che in Mc 2,5 il perdono dei peccati, con l’uso del passivum divinum (.. “ti sono rimessi”…) viene attribuita a Dio e non a Gesù stesso; inoltre anche nel giudaismo è documentato una volta la promessa da una persona umana di perdonare i peccati: nella preghiera di Nabonide, un giudeo anonimo (forse Daniele) guarisce il re di Babilonia perdonandogli i peccati (4QprNab). 

Convinzione che Dio operasse miracoli attraverso di lui

 Tali opere straordinarie di Gesù, specialmente gli esorcismi e le guarigioni, non sono mai state negate neanche dai suoi nemici (ma semmai attribuite al demonio). È difficile considerare tali racconti inventati dagli evangelisti: niente è più certo nella tradizione evangelica del fatto che dai suoi contemporanei Gesù venisse considerato un esorcista e guaritore.
Gesù e i suoi discepoli naturalmente attribuivano questo suo potere allo spirito di Dio; oggi si è più critici e sospettosi di fronte a tali fenomeni e si deve certamente ammettere che è difficile stabilire la realtà soprannaturale dei singoli miracoli (vedi post sui “miracoli”). Peraltro è ampiamente documentato che altri individui del suo ambiente, prima durante e dopo di lui, e anche in altre culture, si dice compissero miracoli, senza togliere che i miracoli di Gesù avessero caratteristiche peculiari (nella loro modalità e nella loro contestualizzazione dell’avvento del regno dei cieli). 

Convinzione che In Gesù si sarebbero realizzate le antiche profezie dell’AT

È un fatto che il cristianesimo ha cercato di dimostrare che la figura e il destino di Gesù fossero stati previsti dalle antiche scritture ebraiche (o AT cristiano), soprattutto riguardo la identificazione di Gesù con il messia sofferente, e questo argomento è stato proposto dagli apologeti cristiani fino a tempi recenti (anzi qualcuno ancora oggi lo presenta), per dimostrare la missione divina di Gesù. E tuttavia quando nel NT si rimanda alle scritture per dimostrare che Gesù era stato predetto come messia sofferente-glorioso, la questione è aperta riguardo a cosa si faccia riferimento. Paolo in 1Cor 15 dice che “Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le scritture” e che “ è stato risuscitato il terzo giorno secondo le scritture”: il “morire per i nostri peccati” fa pensare ad Is 53,5s ma in questo testo, che a volte si presuppone come profetico messianico, in realtà le predizioni sulla sofferenza nel loro senso letterale sono riferite ai popoli; inoltre questo passo viene utilizzato con riferimento esplicito alla morte vicaria di Gesù soltanto in Pt 2,24. Il “terzo giorno” invece si spiega verosimilmente partendo da Osea 6,2 (“il terzo giorno risorgeremo”): ma questo testo si riferisce esplicitamente alla risurrezione di Gesù soltanto in Tertulliano.
Nei vangeli si trovano predizioni sul figlio dell’uomo che dovrà soffrire, morire e risuscitare (es. Mc 8,31; 9,31; 10,33), ma queste non hanno corrispondenze nelle scritture apocalittiche. Alcuni detti dell’AT parlano solo delle sofferenze del figlio dell’uomo ma non della sua futura venuta. Negli Atti degli apostoli si dice che Gesù era il messia in forza della sua passione, ma la tesi che Pietro presenta ai giudei di Gerusalemme è solo affermata senza corredo di prove bibliche: “Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come anche i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunciato per bocca di tutti i profeti, ossia che il suo Cristo avrebbe sofferto” (At 3,17-18). Per dimostrare ai giudei di Tessalonica e al re Agrippa II che la passione del Cristo era necessaria, Paolo si rifà alla scrittura, ma senza addurre citazioni concrete (cfr. At 17,3;26,23). Anche la risurrezione di Cristo sarebbe stata preordinata secondo Paolo, e le scritture ne parlerebbero, ma non cita testi concreti (At 17,3; 26,22). Questo non vuol dire che non ci fossero presenti nella tradizione dell’AT concetti che rimandavano in modo generico e indiretto all’idea di un messia sofferente e glorioso. Tuttavia queste limitate osservazioni ci dicono le ambiguità presenti in questo argomento dell’adempimento delle profezie dell’AT nel NT: come diceva il noto esegeta G. Bornkamm “non vi può essere alcun dubbio che la prova fondata sulle profezie, qualunque importanza le venga attribuita, non è solo un’aggiunta della meditazione e dell’interpretazione successiva, ma ha agito essa stessa come creatrice di storia”. Insomma, i testi dell’AT si prestano ad essere variamente interpretati nella loro enunciazione, e a far sospettare sulla possibile forzatura nella descrizione dei fatti nel NT in funzione della loro realizzazione. 

Le straordinarie testimonianze riguardo la sua risurrezione dalla morte

La risurrezione di Gesù, certo non disgiunta dalla sua vita, costituisce il tema centrale e il fondamento della predicazione e della fede cristiana. Infatti è stata compresa sia come conferma della “missione” di Gesù da parte di Dio sia come segno e anticipazione, promessa e garanzia per la risurrezione di tutti gli uomini. Tale convinzione del cristiano pertanto richiede una più ampia trattazione rispetto agli altri aspetti finora esaminati.
Dopo la sua morte in croce, sia le tradizioni più antiche cristiane - le lettere paoline, alcune delle quali riflettono credenze posteriori di pochi anni dalla crocifissione - sia le tradizioni narrative più tardive - i vangeli e gli Atti degli apostoli - affermano che Gesù fu risuscitato dai morti. Riferiscono infatti che dopo la sua morte egli apparve dapprima ai discepoli e discepole e poi a numerose altre persone; nei vangeli si riporta anche che la tomba dov’era stato sepolto fu trovata vuota. Ma in quale contesto di credenze sull’aldilà si situano i racconti sulla risurrezione di Gesù? Come vengono riportate le testimonianze in merito? Cosa si può dire della natura delle apparizioni di Gesù, e della tradizione della tomba vuota? In altri termini, che cosa possiamo accertare storicamente riguardo tale fondamentale convinzione del cristianesimo?
Al tempo di Gesù la maggioranza degli ebrei credeva verosimilmente in una vita dopo la morte, e questa si configurava per i più, anche se non per tutti, come una risurrezione corporea dei giusti alla fine dei tempi (sulla terra rinnovata). Ma questa credenza nella risurrezione non è presente da sempre nel popolo ebraico: tutti i patriarchi di Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e i Giudici, i re e i profeti, Isaia, Geremia e Ezechiele non hanno creduto in una resurrezione dei morti, e tuttavia sono vissuti e hanno agito in virtù di una fede incrollabile in Dio. La fede ebraica corrente considerava infatti certa la ricompensa dei giusti sulla terra, e ai morti era riservato solo lo scheol. Affermazioni sulla risurrezione dei morti nell’AT se ne trovano solo in epoca tardiva, dal II/III sec a.C. e solo marginalmente. Questo accadeva anche se nelle popolazioni e religioni circostanti erano certamente già diffuse idee e aspirazioni sull’aldilà. Questo “ritardo” può essere forse dovuto al fatto che gli ebrei potevano vedere negli spiriti dei morti esseri divini che avrebbero potuto intaccare il loro monoteismo, oppure come conseguenza della loro visione di Dio, un Dio della storia, dei vivi e non dei morti. Tuttavia in seguito, per superare e riscattare esperienze umane sociali ed esistenziali avverse (vedi i martiri maccabei) sono approdati alla fiducia nella potenza e nella giustizia di Dio, e quindi alla convinzione di una eterna comunione con Lui. È chiaro peraltro che l’idea della risurrezione non è una prerogativa della Bibbia, anche se poi è andata acquisendo un’immagine specifica segnata dalla religiosità e dalla storia del popolo ebraico, in un continuo scambio con le religioni del suo ambiente (la risurrezione sembra mutuata soprattutto dalla religione iranica).
Nel NT le testimonianze sulla risurrezione di Gesù si trovano in due tipologie di tradizioni, quella formulare di Paolo e quella narrativa dei vangeli. Le fonti formulari sono molto antiche, sono state scritte negli anni 45-50 d.C. ma riportano tradizioni prepaoline che possono risalire anche a una decina d’anni dopo gli eventi. 1Cor 15,3-8 ha un’importanza centrale: si tratta di una testimonianza credibile, di un testimone che parla in prima persona e che racconta l’esperienza di cui è stato sopraffatto. Le fonti narative invece sono più recenti (70-100), è possibile o probabile che derivino da una rielaborazione e sviluppo della tradizione precedente, presentano differenze al loro interno, cioè tra gli stessi vangeli (interpretate diversamente dagli studiosi, o a favore della loro autenticità piuttosto che finzione, o come segni della finalità apologetica e non storica dei racconti) e la loro storicità è intrisa di interpretazione teologica; non è comunque detto che non abbiano un nucleo storico indipendente dalla tradizione formulare, ma in ogni caso ribadiscono e confermano il dato di fatto della affermazione della risurrezione di Gesù comune alla tradizione formulare che la precede.
In nessuna fonte (a parte il vangelo apocrifo di Pietro con un racconto fantastico) nessun testimone ha raccontato l’atto del risorgere di Gesù: l’affermazione sulla risurrezione non deriva da una testimonianza diretta sulla risurrezione in sé ma dalle apparizioni che avrebbero avuto alcuni discepoli di Gesù. Questa circostanza, cioè il fatto che le apparizioni sarebbero avvenute ai soli credenti, ha fatto sospettare molti della loro veridicità, che chiederebbero al contrario una testimonianza pubblica, visto anche che si tratta di un fatto – un morto che risorge – contrario alla esperienza ordinaria di tutti e quindi implicante il diritto-dovere di dubitarne. Ma è anche stato suggerito che le apparizioni ai soli seguaci di Gesù (a parte quella successiva a Paolo) fa parte delle caratteristiche interne della fede/riconoscimento: non si tratta di un miracolo spettacolare che impone di credere, ma di un percorso di accettazione della missione e della straordinaria identità di una persona affidabile già conosciuta  stimata e seguita in vita, tant’è vero che, nei testi, anche i discepoli non riconoscono immediatamente Gesù.
Lo storico non può più verificare la risurrezione di Gesù, anche perché essa è assunzione di Gesù in una dimensione metastorica; sono verificabili solo: prima della pasqua la fede germinale dei discepoli, e dopo l’arresto e la morte, la loro fuga e ritorno a Gerusalemme; dopo la pasqua, il ritorno dopo poco tempo alla Gerusalemme rischiosa, il raduno, l’affermazione della risurrezione ed elevazione di Gesù, e l’inizio della missione. Deve essere successo qualcosa di straordinario e potente che spieghi questo cambiamento di stato d’animo dei discepoli. Cosa ha provocato questa trasformazione?
Per rispondere è necessario considerare i presupposti giudaici, ellenistici e quelli riguardo a Gesù, per valutare se e quanto questi abbiano influito sulla affermazione della risurrezione di Gesù.
Sappiamo che nella Bibbia si è fatta strada la convinzione del potere divino sulla morte e quindi della risurrezione dei giusti alla fine dei tempi; nella Bibbia si racconta anche della esaltazione, rapimento individuale del profeta/martire/figlio dell’uomo (Enoc, Elia). Questi presupposti però non sembrano bastare per far derivare da essi la risurrezione di Gesù. L’idea del rapimento /ascensione in cielo dei profeti passati avrebbe riservato a Gesù un destino individuale, invece con Gesù siamo davanti ad un fatto nuovo, cioè alla novità della risurrezione già avvenuta (prima della fine), singolare di Gesù, e con essa l’affermazione dell’inizio del tempo finale, con valenza escatologica universale. E poi non si sa se e in che senso Gesù si sia identificato con il “figlio dell’uomo”. Tuttavia queste differenze, se rendono impossibile una trasposizione diretta delle idee già presenti alla persona di Gesù, potrebbero aver suggerito una derivazione combinata (martirio più idea dal giusto sofferente) e adattata alla persona e all’esperienza di e con Gesù. Infatti non c’erano idee fisse e dogmatiche sulla risurrezione o sul messia, ma diverse e variabili: anche le altre storie di “risurrezioni” d’altronde si distinguevano per qualche aspetto. Inoltre bisogna considerare che le apparizioni teofaniche dell’Antico Testamento hanno verosimilmente fornito una tradizione e una forma (o forse non solo?) ai racconti del  NT; ad es. la forma del verbo “è stato visto” riferito a Gesù si ispira alle antiche teofanie ad Abramo ed altri profeti. Il NT ci riporta anche l’idea (pur discussa nei dettagli) che Gesù potesse essere Giovanni Battista o altro profeta morto redivivo: era possibile pensare a un personaggio morto già “risuscitato” prima della fine dei tempi.
Ai tempi di Gesù si conoscevano anche storie pagane di dèi e semidei che morivano e risorgevano (es. Osiride, Asclepio, Dioniso), o personaggi eroici che apparivano dopo la loro morte o scomparsa (Apollonio di Tiana, Romolo, Aristea di Proconneso, Pellegrino Proteo). Questi racconti offrono motivi comuni con la risurrezione di Gesù, ma rimangono anche nette differenze, come quella del contrasto tra un figlio di Dio e la sua morte in croce, e quella che considera le apparizioni di Gesù come “nuovo” escatologico e definitivo. Permane l’incertezza nell’ipotizzare influssi e dipendenze tra i suddetti racconti e quello di Gesù (chi ha preso da chi) e veri e propri parallelismi non esistono, ma anche qui non sembra decisiva la scoperta di derivazioni dirette della fonti del NT da quelle pagane, bensì che l’ambiente storico culturale di quel tempo permettesse simili concezioni e rappresentazioni di dèi e personaggi eroici. Indicano che si trattava di archetipi presenti in varie culture. Poi ci possono essere stati adattamenti e combinazioni in base a diverse esigenze, circostanze storiche, avvenimenti. Nemmeno quegli dèi o personaggi erano uguali uno all’altro.
Infine si discute tra gli studiosi se i presupposti prepasquali riguardo a Gesù siano stati sufficienti o insufficienti a far proseguire la fede in Gesù nonostante la sua morte in croce. La stima nei suoi confronti, il coinvolgimento nella sua “causa”, le esperienze forti con lui, la credenza in lui come al messia, la convinzione della morte espiatrice di Gesù, sono tutti elementi di cui è difficile misurare la portata psicologica ed esistenziale sui discepoli, perché non possiamo conoscere la loro situazione interiore. Se Gesù avesse prefigurato ai discepoli la sua fine e insieme la sua convinzione della sua morte vicaria espiatrice o nella sua risurrezione, allora si potrebbe dire che la fede pasquale sarebbe precedente alle apparizioni. D’altra parte, non sembra che la sua figura di profeta martire o servo sofferente sia stata recepita dai discepoli, forse più convinti del suo ruolo di messia davidico vista la loro fuga e i loro dubbi sui racconti delle apparizioni alle donne. 
Davanti allo scandalo della croce e al suo impatto sui discepoli gli studiosi si dividono: c’è chi enfatizza l’evento della morte di Gesù come fallimento, interruzione, rottura e di conseguenza si richiederebbe una iniziativa dall’“alto” per spiegare la ripresa nuova e vittoriosa dei discepoli (tesi appoggiata, tra gli altri, da teologi come Kessler, Pannenberg, Wrigth),  e chi invece privilegia l’elemento della “continuità”: la crisi della croce apparirebbe come un oscuramento temporaneo non come un fallimento totale e sembrerebbe superabile a partire dai presupposti prepasquali del giudaismo, di Gesù e del suo rapporto coi discepoli (tesi sostenuta, tra gli altri, da teologi come Verweyen, Pesch, Muller).
            Da una parte dunque c’è chi sottolinea che la croce fa apparire ai discepoli l’esito fallimentare della pretesa messianica di Gesù. La croce contrasterebbe in modo totale con la pretesa messianica di Gesù. I discepoli non potevano rifarsi alle antiche scritture per pensare un messia che soffre e muore, per di più in croce, con il carico di maledizione che ciò comporta (Deut. 21,23): non dovevano conoscere un’attesa messianica legata al Servo di Dio sofferente di Is 53, noto invece come raffigurazione collettiva del destino dell’intero popolo e comunque alieno da ogni riferimento alla croce. Uno che avanzava pretese di tipo messianico non poteva venire abbandonato da Dio su una croce. Il messia inviato da Dio che muore sopraffatto dalla violenza umana e dalla maledizione divina: questo paradosso dovette risultare insopportabile per i discepoli. Per sostenere il contrario occorrerebbe una documentazione di senso inverso, che però finora non è stata esibita. Il noto studioso M. Hengel commenta: “Il messia di Israele non avrebbe potuto mai, assolutamente mai, essere nello stesso tempo il maledetto da Dio secondo la parola della Torà. Era forse proprio per questo che i capi del popolo e la loro clientela avevano insistito per giustiziare Gesù sulla croce. La sua pretesa messianica non poteva essere confutata in modo più evidente”. Si deve peraltro considerare che anche dopo l’esperienza pasquale il rinvio alla croce procurava scandalo a cristiani ed ebrei (1 Cor 1,23). Dai vangeli emerge chiaramente lo smarrimento dei discepoli dopo la sua morte (e non si comprende perché la comunità avrebbe inventato la fragilità dei suoi stessi capi): dall’amara constatazione dei discepoli di Emmaus “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24,21) alle proteste di Pietro quando Gesù accenna alla sua possibile fine violenta (Mc 16,22); poi quando all’arresto tutti abbandonandolo fuggirono (Mc 14,50), e quando Pietro lo rinnega tre volte (Mc 14,66 ecc); infine nemmeno viene menzionata la presenza dei discepoli alla croce di Gesù (eccezione Giovanni) e alla deposizione del cadavere. E al tempo di Gesù altri profeti e sedicenti “messia” sono stati uccisi, ma i loro movimenti finirono nell’oblio o si trasformarono in un nuovo movimento con un nuovo leader. Il movimento di Gesù, al contrario, poche settimane dopo la sua morte proclamava la sua risurrezione e poi si diffuse ampiamente.
            Dall’altra parte c’è chi ridimensiona l’impatto della croce e si focalizza sulla forza della fede prepasquale dei discepoli. Secondo questi occorre innanzitutto considerare la natura di “drammatizzazione” letteraria dei testi, con taglio apologetico: come avrebbero potuto i suoi discepoli perdere la fede in lui e tradirlo – dopo qualche anno che erano con lui, che avevano abbandonato tutto per seguirlo, che si erano convinti del suo messaggio, che erano stati testimoni dei suoi poteri taumaturgici, della straordinarietà della sua persona e della sua bontà – proprio a causa dell’episodio in cui tutto questo raggiunse il suo culmine, mostrando sino alla fine la grandezza del suo amore? Sarebbero stati dei “mostri” sul piano psicologico e una vergognosa eccezione sul piano storico: ogni  volta che un grande leader muore per fedeltà alla sua causa suscita un rafforzamento dell’adesione a lui (come G. Battista e il suo movimento che continuò anche dopo la sua morte, e oggi Ghandi, Luther King, ecc.). Che i discepoli fuggissero e si nascondessero significa solo che avevano buon senso per non essere uccisi e che sarebbero ritornati in tempi migliori. La nuova concezione del messia, nonostante non direttamente mutuabile dal giudaismo, è comunque fondata col riscorso alle tradizioni giudaiche, non contro di esse: anche se non si conosceva una figura del messia che soffre, muore e risorge è però vero che nella tradizione giudaica si parla della salvezza attraverso il martirio, del servo sofferente, dell’uccisione, risurrezione e ascensione del profeta escatologico o della figura celeste del “figlio dell’uomo”: presupposti che potrebbero essere stati trasferiti e adattati alla persona e alla vicenda di Gesù. Altri studiosi specificano che “Maldetto chi pende dal legno”(Dt 21,23) ha senso solo per chi colpevolmente condannato, per il traditore, non per gli innocenti: ci sono testimonianze per cui venne data sepoltura dignitosa ai giudei crocifissi in Alessandria e lo stesso per un crocifisso ritrovato presso Giv’at haMivtar che venne seppellito con il privilegio di un ossario; peraltro con Gesù i discepoli avevano compreso che la torah (e quindi anche Dt 21,23) non possedeva più un’autorità esclusiva o prioritaria di fronte all’urgenza del regno di Dio. Si può anche interpretare la crocifissione, anziché come fallimento, come catalizzatore per comprendere che quanto è accaduto sulla croce non poteva essere la conclusione, non poteva finire così: si veda nell’AT col Servo sofferente e, al di fuori della Bibbia, il genere letterario della “riabilitazione dell’innocente” da parte di Dio (nell’aldiquà o nell’aldilà). Quindi, al contrario, proprio un assassinio tanto brutale contro colui che si era mostrato come la bontà in persona, poteva far scaturire la convinzione nella sua riabilitazione. Fondamentale, infine, deve essere stata la profonda convinzione dei discepoli nell’imminente avvento del regno di Dio: fu tale fede profonda, trasmessa dall’agire e dal messaggio di Gesù, nell’onnipotenza e nell’intervento di Dio nella storia che consentì ai discepoli di continuare ad attendere il regno prospettato da Gesù, nonostante la sua morte, convinti che Gesù, assunto in gloria presso Dio, lo avrebbe presto instaurato. Se il regno di Dio doveva venire dall’alto, e se tutti i giusti dovevano risuscitare per il regno, perché Gesù – dovettero domandarsi - profeta e instauratore predestinato del regno, non sarebbe potuto risorgere prima di loro, come dovevano presto risorgere anche loro? Sarebbe quindi plausibile che i discepoli non abbiano accettato la fine delle loro speranze, non si siano  rassegnati al corso degli eventi. Avranno vissuto effettivamente la morte di Gesù come crisi o come banco di prova ma non necessariamente come definitiva smentita della sua pretesa.
Controversa rimane anche l’importanza teologica e la storicità della tomba vuota di Gesù. Sul significato teologico della risuscitazione del corpo di Gesù ci sono coloro che sono convinti che la fede nella risurrezione di Gesù implichi la scomparsa del suo cadavere dalla tomba, mentre altri, all’opposto, pensano che per gli ebrei sarebbe stato possibile credere nella risurrezione dai morti di Gesù senza necessariamente credere che succedesse qualcosa al suo cadavere. Da un punto di vista storico non è possibile né dimostrare né negare la tomba vuota, anche se risulta un leggero vantaggio a favore della tomba vuota (Theissen - Merz). Ma anche fosse plausibile la tomba vuota, rimarrebbe comunque un segno polivalente: vuota per furto? sbaglio? traslazione?, in ogni caso un dato poco significativo per confermare la risurrezione.
Le apparizioni rappresentano oggi il maggior punto di aggancio per argomentare sulla risurrezione di Gesù. E insieme rappresentano il maggior scoglio dove si diversificano le interpretazioni degli studiosi, che possiamo sintetizzare in due concezioni, quella soprannaturalistica e quella naturalistica.
1) la prima, è la concezione soprannaturalistica o oggettivistica della risurrezione, in base alla quale i discepoli, nell’evento della pasqua, avrebbero sperimentato “qualcosa” di soprannaturale, causato dall’”esterno”, in ultima analisi da Dio. All’interno di questa concezione si presentano numerose varianti:
a) innanzitutto vi è la posizione più tradizionalista, quella di coloro cioè che considerano affidabili storicamente i testi del NT, anche i racconti evangelici delle apparizioni di Gesù, e li leggono in modo quasi “letteristico”. Sono consapevoli degli elementi mitici nei racconti (angeli) e delle loro contraddizioni (sul numero di angeli, fuori o dentro la tomba, di chi li vede prima o dopo, sulla fisicità o spiritualità del corpo di Gesù risorto) ma rimangono convinti che la descrizione delle apparizioni come nei testi, intese proprio nella maniera realistica come un “mostrarsi” e quindi un “esser visto” da parte di Gesù, proverebbe in maniera chiarissima che i discepoli avrebbero interpretato le esperienze di cui erano protagonisti, come eventi “storici”, cioè reali, oggettivi, seppur di una realtà particolare. Questi autori si rifanno alla probabilità della tomba vuota e al linguaggio usato nel NT per descrivere le apparizioni - nei vangeli si parla di vedere normalmente il corpo fisico di Gesù, in maniera del tutto realistica e oggettiva, di poter toccarlo e che questi addirittura mangia, nonostante si descrivano anche le caratteristiche eccezionali di Gesù di comparire/scomparire, di passare attraverso porte chiuse e di non farsi sempre riconoscere (ad es. Lc 24,16; Mc 16,12) indicative del suo corpo glorioso e trasformato, ossia del modo singolare e straordinario in cui era il fisico di Gesù, e non del suo essere un “fantasma” o dello stato allucinatorio dei discepoli; anche Paolo dice di aver visto il Signore risorto (Gal 1,12.16) e che anche altri l’hanno visto (1Cor 15,5-8), e descrive il corpo dopo la  risurrezione come “corpo spirituale”, ossia come trasformazione del corpo esistente in un nuovo stato di fisicità (1 Cor 15,42-49). Secondo il NT – sottolineano gli autori di questa posizione - la trasformazione dei discepoli dopo la morte di Gesù non è il risultato di una loro elaborazione in base a presupposti in loro insiti, ma il risultato di un incontro inaspettato, l’incontro con Gesù sotto forma di apparizioni.
b) la seconda variante è quella di  chi considera le apparizioni solo delle visioni intrapsichiche procurate da Dio ai discepoli che potrebbe servirsi della nostra struttura naturale psicofisica per rivelare “immagini di sé”. Quindi Gesù non sarebbe stato realmente presente col suo corpo nelle apparizioni ma avrebbe comunque superato la morte e sarebbe vivo presso Dio: le apparizioni sarebbero un segno divino del superamento della morte di Gesù e della sua entrata nella dimensione trascendente divina (e la fine del suo cadavere sarebbe secondaria). Gli autori di questa seconda concezione - quella in cui una macchina fotografica non avrebbe fotografato nulla quando Gesù appariva ai discepoli - si rifanno all’incertezza della tradizione della tomba vuota, alle descrizioni di Gesù nei vangeli, sottolineando il suo aspetto spirituale ed etereo e interpretando lo sviluppo della tradizione verso una maggiore materializzazione della figura del Gesù risorto come tardive rappresentazioni apologetiche della sua risurrezione che richiamano l’attenzione sulla realtà del tutto diversa (né di un’anima immortale né di un corpo fisico-materiale, bensì “corporea” nel senso biblico, cioè nella sua identità e interezza di essere relazionale-spirituale) del risorto; inoltre Paolo descrive la sua esperienza come apparizione che in Atti 9,22 e 26 viene descritta come visione percepibile solo da lui ma non dagli altri che lo accompagnavano, e in 1Cor 15 considera implicitamente la propria esperienza del Cristo risorto simile a quella degli altri apostoli a cui è apparso; inoltre le apparizioni in genere non implicano la presenza di un corpo in carne e ossa, anche se spesso ciò che si vede è proprio una persona fisica in forma corporea.
c) una terza variante è quella di chi interpreta i racconti delle apparizioni come modi metaforici di espressione concettuali e letterarie per descrivere una autentica esperienza mistica dei discepoli, i quali avrebbero “sentito” o “percepito” la presenza di Gesù risorto. Questi autori riconoscono che  i testi del NT descrivono le esperienze col risorto come la reale visione della sua persona, ma questo non significa necessariamente che debbano essere presi alla lettera. Bisogna tener conto del carattere delle fonti, che presentano un contesto mitologico, riprendono teofanie dell’AT, hanno funzioni parenetiche ed apologetiche, presentano differenze e contraddizioni tra loro. Non sarebbe una forzatura non leggerle letteristicamente, ma sarebbe necessario per capire ciò che potrebbero aver voluto realmente esprimere, al di là del rivestimento letterario e culturale dell’epoca. I seguaci di Gesù con quei racconti possono aver semplicemente descritto la loro esperienza di Gesù anche dopo la sua morte che, mediante la potenza della grazia o Spirito di Dio, continuava ad essere presente in mezzo a loro ma in maniera diversa, visto che era entrato nella dimensione trascendente di Dio. Oppure l’esperienza della pasqua potrebbe essere stata vissuta dai discepoli come esperienza di riconversione effettuata da Dio e rappresentata successivamente con i mezzi di racconti ebraici di conversione.
2) la seconda concezione è quella naturalistica o soggettivistica che considera i testi ed i racconti delle apparizioni del NT o come modi metaforici per esprimere una illusoria esperienza religiosa, o per descrivere delle visioni mentali dei discepoli dovute nient’altro che ad una proiezione immaginaria.
Questi autori sostengono innanzitutto che sicuramente oggi non si può più sapere cosa sia realmente accaduto in quella che viene chiamata “esperienza pasquale”. Ma quello che sappiamo porterebbe ad affermare che l’origine della fede pasquale nei discepoli sarebbe ampiamente spiegabile senza neppure toccare l’ipotesi del soprannaturale o del miracoloso. In base ai presupposti giudaici e riguardo Gesù la fede che i discepoli avevano in Gesù e nel suo messaggio sarebbe potuta continuare diventando fede nella sua risurrezione: credere che Gesù fosse risorto significò per loro credere che ciò che egli aveva spiritualmente donato loro fosse ancora operante, e che la missione da lui e da loro intrapresa non fosse stata interrotta dalla sua morte. Ma anche avessero veramente visto Gesù dopo la sua morte nell’ambito delle esperienze di crisi (religiosa) nel gruppo dei seguaci, questo non vorrebbe dire che Gesù ci fosse veramente: i veggenti o visionari sono convinti di vedere qualcuno che c’è, ma questo non implica che l’oggetto visto esista realmente al di fuori della loro mente; e sostenere, come fanno alcuni teologi, che anche solo l’immagine mentale potrebbe avere una spiegazione soprannaturale, introduce un elemento di carattere teologico arbitrario e gratuito perché basterebbe l’interpretazione prettamente naturalistica per spiegare simili fenomeni. Infatti se si tiene conto del caratteristico contesto in cui queste si sarebbero prodotte sarebbe in ogni caso più realistico considerarle di natura soggettiva, psicologica. Erano presenti profeti e visionari all’interno della prima comunità cristiana (compreso Paolo); nelle stesse sacre scritture ebraiche si faceva uso di racconti di apparizioni/rivelazioni divine ovviamente conosciuti dagli scrittori del NT; si deve ricordare che nell’AT si pervenne all’idea della risurrezione non per un miracolo ma per esperienze come il martirio e convinzioni come la fedeltà di Dio: qualcosa di simile potrebbe essere accaduto per la risurrezione di Gesù. Sempre nell’AT si incontra in forma di rivelazione, come improvviso episodio epifanico, che coglie di sorpresa e afferra in maniera irresistibile (cfr. Amos 3,8; Ger 20,7; 23,29) ciò che nella prospettiva moderna viene pensato come produzione della coscienza umana. Si deve anche considerare la mentalità prescientifica e mitologica di quegli autori. Infine si dovrebbero considerare i fenomeni estatico-visionari riportati dalla storia delle religioni che contemplano apparizioni dei più diversi personaggi “divini”: è razionalmente ingiustificabile che si dia valore fondante ai racconti delle apparizioni di Gesù e semplicemente si ignorino quelli di tutti gli altri, da quelli del filosofo-guaritore Apollonio di Tiana del I sec. d.C. che sarebbe apparso ai suoi seguaci dopo la sua morte, così come il già citato mistico Al-Hallaj che, crocifisso e suppliziato in presenza di una grande folla, secondo i suoi seguaci non avrebbe realmente sofferto e Dio l’avrebbe tratto a sé in cielo vivente, per apparire il giorno dopo del supplizio; per non parlare delle apparizioni dell’angelo Gabriele che sarebbe apparso al profeta Maometto intorno all’anno 610 (e anni successivi) rivelandogli il Corano, alle visioni di Krishna ai fedeli indù, ecc.. Secondo  questi autori, in definitiva, è indubitabile che se qualcuno narra qualcosa su una presunta realtà soprannaturale, ciò non costituisce ancora di per se stesso alcuna garanzia sulla sua verità: prova ne è che esistono tante narrazioni del genere diverse e contraddittorie, e sarebbe ampiamente dimostrato che le testimonianze disponibili del NT sarebbero insufficienti per provare il presunto accadimento di un evento cosi incredibile, come l’apparizione reale di una persona morta, contrario alla nostra esperienza ordinaria.
Da queste osservazioni sembra difficile stabilire quale di queste due concezioni sulla natura delle apparizioni - oggettiva o soggettiva - sia quella vera. Che la risurrezione di Gesù sia avvenuta o meno, resta quindi un enigma insoluto storicamente, diversamente interpretabile.

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1 commento:

  1. queste la mie ricerche su Gesu' nazareno:
    http://www.mednat.org/religione/gesu_nazareno.htm

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