domenica 26 aprile 2015

25. MODELLI SUPPLEMENTARI DI GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE RELIGIOSA: K. Rahner e H. Urs Von Balthasar


        Via metafisico-trascendentale (K. Rahner)

Nella filosofia trascendentale si trova la presentazione delle condizioni che rendono possibile la conoscenza. Per Kant la conoscenza non si spiega solo in base a conoscenze empiriche, ma in base all’apriorità che individua i fondamenti della conoscenza indipendentemente dall’esperienza. La prima implica il contenuto informativo, la seconda la validità generale e necessaria della conoscenza. Pertanto Kant chiama trascendentale “ogni conoscenza che si occupa, non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto è possibile a priori”.
Il teologo cattolico K. Rahner (1904-1984), servendosi del metodo trascendentale, si interroga sulle condizioni di possibilità presenti nel soggetto umano in vista della comprensione  e dell’eventuale accettazione della proposta della fede cristiana. Rahner ricerca, in altre parole, le strutture antropologiche che rendono possibile all’uomo di accogliere un’eventuale rivelazione divina come massimamente significativa in quanto determinazione storica assoluta (categoriale) della sua esperienza trascendentale. Secondo Rahner l’uomo è l’essere dell’assoluta trascendenza e il cristianesimo ne è la sua suprema determinazione categoriale.
L’uomo, dice Rahner, nella sua opera “Uditori della parola” (or.1941) è spirito: “l’essenza dell’uomo […] è l’assoluta apertura ad ogni essere, ovvero, in una parola, l’uomo è spirito. Questa apertura viene definita da Rahner anche come trascendenza dello spirito umano, ossia come il suo trascendere l’ente in direzione dell’essere. Egli sottolinea innanzitutto “l’autonomia cosciente” dell’uomo, ossia il fatto che l’uomo può distaccarsi dagli oggetti del suo conoscere e rapportarsi a sé. Questa autonomia cosciente si rivela in ogni avvenimento umano, in particolare nel “giudizio”, nell’azione, nella quale essa si manifesta come libertà, e nel pensiero. Ma qual è il fondamento ultimo di questa autonomia cosciente? Egli parte dal “giudizio” e quindi dalla “percezione del singolo oggetto sotto il concetto”; egli si chiede su che cosa si fondi la sua possibilità, ossia “quale condizione sia necessario stabilire a priori e in partenza nel soggetto conoscente perché egli possa avere le singole conoscenze”. Posto così il problema del giudizio, appare chiaro a Rahner che il singolo oggetto viene percepito in una “limitatezza”; è questo e non un altro; è limitato in direzione dell’altro. Ma si può comprendere un limite solo per il fatto di essere già al di là del limite. È necessario affermare “che l’atto che percepisce il singolo oggetto sensibile, coglie già in precedenza qualcosa che lo trascende in quanto tale”. Rahner chiama ciò “percezione previa”; essa fa parte “della  costituzione fondamentale dell’esistenza umana”.
Ma in che direzione va lo sforzo di cogliere proprio di questa “percezione previa”? e che cos’è questo “qualcosa che trascende” a cui essa si indirizza? Rahner risponde che essa si dirige “all’essere in sé nella sua illimitatezza”, o “essere in generale”, “essere in quanto tale”, “puro essere”, “essere assoluto”. E Rahner, pur con qualche cautela, alla fine equipara l’essere assoluto a Dio e sostiene che “con la necessità con cui è posta la percezione previa, è affermato anche Dio come essere assoluto” e che “la percezione previa giunge fino a Dio”. Dunque in ogni pensiero umano è già contenuto secondo Rahner un riconoscimento di Dio. Per mezzo dell’antropologia metafisica si dimostrrebbe pertanto che l’uomo esiste sub specie Dei, in quanto “egli si muove stabilmente in una vastità che può essere colmata solo dalla pienezza dell’essere assoluto di Dio”. “L’uomo, in quanto spirito, è sempre orientato, a motivo della sua natura, all’essere assoluto di Dio; egli tende a Dio”. “Egli è uomo solo perché è sempre in cammino verso Dio”.
Ma Rahner non si ferma alla fondazione dell’esistenza di Dio, ma vuole anche “dimostrare la possibilità di una rivelazione all’uomo”, che egli intende come “una libera apertura di Dio, essere personale e libero”. E se Dio è libero egli ha la possibilità di nascondersi come di rivelarsi. Da questo punto di vista Rahner definisce l’uomo “colui che sta in ascolto di una possibile rivelazione di Dio”. Ma rimane da determinare “il punto preciso in cui l’atto libero e possibile della rivelazione divina può incontrare l’uomo, perché questi lo possa riconoscere liberamente”. Poiché l’uomo non può trovare nella propria essenza il contenuto di una rivelazione divina finchè non parteciperà della visione immediata di Dio, non gli resta che conoscerla attraverso la parola,e quindi l’uomo non ha altra risorsa che quella “di essere un uditore della parola di Dio”. Ed essendo l’essenza dell’uomo, secondo Rahner, definita mediante la storicità, ne conseguirebbe che “il luogo di una possibile rivelazione è sempre e necessariamente la storia dell’uomo”. Egli vuole ora dedurre dalla storicità dell’esistenza umana la necessità del volgersi dell’uomo alla storia. Questo passaggio si realizza riguardo al concetto di fenomeno. infatti “l’essere in generale è aperto all’uomo solo nel fenomeno”; esso deve “manifestarsi nel fenomeno”. Ma un essere sopramondano può essere conosciuto nella sua concretezza attraverso il fenomeno? Non secondo le modalità proprie di un fenomeno immediato ma, secondo Rahner, tramite un modo per cosi dire indiretto di manifestarsi, ossia “mediante la negazione” ossia, “mediante la negazione del limite della potenza dell’essere determinato, immediatamente accessibile, e mediante l’abolizione di questo limite verso l’alto in direzione del puro essere”, solo in questo modo l’uomo potrebbe “cogliere un ente determinato trascendente il mondo”. Rahner afferma inoltre che “una negazione, in quanto tale, ha la sua unica, possibile sede nella parola” e quindi “un ente trascendente il mondo” può “essere dato allo spirito finito attraverso la parola”. A questo punto, considerando l’essenza dell’uomo come essere storico, “la rivelazione libera può giungere soltanto in una forma ben puntualizzata nell’ambito della singola esistenza umana”. Ma l’uomo deve “tener conto della possibilità che tale rivelazione non si verifichi in modo puntuale nella singola storia di ogni uomo, ma solo in quella di determinati uomini”. Così essa “dev’essere attesa come un evento fissato nello spazio e nel tempo di tutto il complesso della storia umana”. A partire da ciò rahner definisce il compito dell’uomo. Egli afferma che questi è “ in generale tenuto a priori, in forza della sua essenza, a consultare di fatto la storia circa una rivelazione eventualmente avvenuta”. 

Le critiche che sono state fatte a Rahner  (soprattutto da W. Weischedel) sono numerose e circostanziate; noi annoteremo solo le più generali e importanti.
Innanzitutto esaminiamo la parte relativa alla fondazione dell’esistenza di Dio.
Weischedel osserva che, il fatto che Rahner, a partire dall’essere infinito quale orizzonte della percezione previa, finisca con l’ammettere Dio come realtà è altamente problematico. Per due motivi. Primo. Si deve concedere che la percezione previa, che è incontestabilmente una condizione che rende possibile la conoscenza finita, non si ponga da sé alcun limite, e che quindi essa, considerata al suo tendere, si spinge sino all’infinito. Ma che questo infinito, a cui essa tende, esista anche di fatto come realtà particolare è altamente problematico e non risulta chiaro perlomeno a partire dal fenomeno della concezione previa.
Secondo, l’essere infinito quale orizzonte entro cui viene percepito ogni essere finito, potrebbe al massimo essere la totalità del mondo pensabile come infinita (e come detto solo come a ciò a cui si tende e non come afferrabile nella sua realtà). Volendo introdurre Dio quindi Rahner dovrebbe per essere coerente identificarlo con la totalità, a cui si tende, nel mondo. Come ammette anche C. Greco “ l’infinito intenzionato nella coscienza rimane ambiguo: può essere interpretato come fondamento panteistico della realtà, o come espressione della suprema assurdità dell’esistenza, o infine in senso teistico. Ognuna di queste interpretazioni suppone un’ opzione”. Anche per questa via non è pertanto possibile giungere ad una conoscenza sicura di Dio.
Per quanto concerne la dimostrazione della possibilità di una rivelazione all’uomo, Rahner, secondo Weischedel, si avvale di una serie di presupposti indimostrati filosoficamente o problematici nella loro giustificazione: le attribuzioni a Dio di libertà e personalità; Dio inteso come colui che rivela, e l’uomo inteso come l’essere sospeso ad una rivelazione; o riguardo il manifestarsi di un essere sopramondano mediante la negazione: negando ogni finitezza, si può senz’altro pervenire alla nozione di un essere infinito, ma solo nel concetto, non nella realtà: in tal modo non viene ancora dimostrato che questo ente pensato come infinito esiste anche realemnte e si manifesta nel fenomeno e nella parola. 
La necessità, affermata da Rahner, di stare in ascolto di una rivelazione eventualmente avvenuta nella storia non deriva tuttavia , come egli ritiene, dalla necessità di volgersi alla storia in generale. Il fatto che l’uomo si comprenda sempre a partire dalla sua storia non rientra tra gli elementi costitutivi, giustificabili filosoficamente, dell’esistenza umana. Con questa nozione, per contro, non è stato ancora detto nulla circa la necessità di volgersi all’incontro con una possibile rivelazione. 

2. Via estetica (H. Urs Von Balthasar)

Secondo il teologo cattolico H. Urs Von Balthasar (1905-1988) allo scopo di rendere credibile il messaggio cristiano agli uomini sono state seguite finora due vie principali: la via cosmologica e quella antropologica, ma entrambe sono riduzionismi: di fronte alla impraticabilità odierna della prima (critiche alla metafisica) e i gravi rischi a cui è esposta la seconda (proiezione) egli propone una terza via chiamata “estetica”.
Il progetto di una “estetica teologica” sgorga dalla persuasione secondo cui il modo di darsi di Dio nella rivelazione ha gli stessi caratteri del modo di darsi della bellezza (autoevidenza, disinteresse, gratuità, ecc.). Infatti analogamente al bello, il quale porta con sé un’evidenza che brilla e s’impone immediatamente, Cristo possiede in sé un’evidenza intrinseca paragonabile alle opere d’arte e ai principi matematici. Inoltre, analogamente alla bellezza che è senza scopo e senza interesse, la rivelazione di Dio in Cristo avviene all’insegna di un atto libero e disinteressato che non ha altri fini all’infuori di sé.
Dio può essere riconosciuto unicamente dalla sua “gloria”, cioè “Dio viene primariamente non come maestro per noi (“vero”), non come redentore con tanti scopi per noi (“buono”), ma per mostrare e irradiare se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella “assenza di interesse” che il vero amore ha in comune con la bellezza. Alla gloria di Dio è stato creato il mondo con la sua propria gloria  e alla gloria di Dio sarà anche salvato. E solo chi, colpito da un raggio di questa gloria, avrà un sentimento incoativo per ciò che è l’amore che non ha scopo, potrà giungere ad avvertire la presenza dell’amore divino di Gesù Cristo”.
Appurato che l’incontro con Dio possiede le stesse note dell’incontro con la bellezza, la conoscenza umana della rivelazione assumerà anch’essa la fisionomia di una percezione della ‘figura ‘ o ‘forma’”. Il bello, scrive Balthasar, parlando della bellezza in generale, “è in primo luogo una forma e la luce non cade su questa forma dall’alto o dall’esterno, ma irrompe dal suo intimo.[…] La forma visibile non ‘rinvia’ soltanto ad un mistero invisibile della profondità, ma ne è l’apparizione, lo rivela proprio mentre nello stesso tempo lo nasconde e lo vela. […] Il contenuto non giace dietro la forma ma in essa. Chi non riesce a vedere e a leggere la forma, non può cogliere nemmeno il contenuto. A colui al quale la forma non dà luce, rimarrà invisible anche la luce del contenuto”. Nell’ambito proprio della rivelazione la Forma-figura per eccellenza è rappresentata da Cristo, apparizione splendente, anche se velata nella carne, del Mistero trinitario”. Nella figura di Cristo si ha infatti l’apparizione definitiva dell’Essere nell’esistente, ossia il vertice e il fine dell’automanifestazione gloriosa di Dio nel mondo. La croce è il vertice dell’autorivelazione divina: qui, nella figura del servo, irrompe nel mondo la gloria del Figlio e l’amore divino raggiunge in tal modo il suo punto estremo. Il centro della rivelazione della gloria di Dio è quindi il mistero della Pasqua.
Da queste considerazioni scaturisce anche una precisa visione dell’uomo: egli è colui che accoglie la figura della gloria divina, se ne lascia rapire, diventando esistenza riconoscente che rende grazie. Di fronte alla comunicazione della gloria divina, alla sua bellezza e alla profondità che in essa brilla, l’uomo è chiamato innanzitutto a percepire con tutte la sue facoltà, a vedere la gloria divina nella figura di Cristo. In seguito l’uomo è chiamato al rapimento, inteso come movimento di tutto l’essere dell’uomo che esce da se stesso per buttarsi in Dio.
Il processo che porta alla fede implica precisamente che si percepisca la forma di Cristo e se ne resti soggiogati. A partire da questa sua concezione, Balthasar giunge a parlare di una “evidenza oggettiva della forma della rivelazione”, per cui “la luce ha origine dall’oggetto che si rivela al soggetto e lo attira al di là di se stesso…nella sfera dell’oggetto”. Ribadisce più volte che la figura dev’essere compresa mediante se stessa, come autointerpretantesi, con l’esclusione di ragioni esterne. Se infatti Dio decide di rivelarsi la sua rivelazione storica non può non portare i tratti di una singolarità assoluta, divina. Essa dovrà possedere una sua speciale evidenza per cui si potrà dire che Dio è riconoscibile solo attraverso Dio stesso. L’autoevidenza dell’amore che appare nella figura cristologica che lo esprime è quindi il presupposto fondamentale in Balthasar. Egli cosi descrive il concetto di “evidenza oggettiva “ attribuito alla forma della rivelazione: “si tratta di una evidenza che emana e si impone a partire dal fenomeno stesso e che non viene stabilita a motivo del bisogno di soddisfacimento del soggetto. La forma che ci incontra storicamente è convincente in se stessa perché la luce, mediante cui essa brilla, emana da se stessa e si dimostra in modo evidente come tale, in quanto luce che emana dalla cosa”. Alla rivelazione così intesa corrisponde dal punto di vista antropologico, la struttura originaria dell’uomo come “stupore”, come “estasi” in cui lo spirito umano si apre ricettivamente all’essere nella meraviglia in lui suscitata da ogni singolo esistente.
Balthasar ha voluto mettere in chiaro come l’estetica rappresenti l’unica via possibile per chi intenda accostarsi a qualcosa (Dio e la rivelazione) che non è costruito dalla sua mente e dalle sue mani, ma che gli è offerto dall’alto nello splendore di un’automanifestazione evidente – di fronte alla quale l’unico atteggiamento legittimo è l’accettazione consenziente della fede: “Questo lasciar valere ciò che vale si chiama fede”.
In sintesi, la natura “estetica” della rivelazione, intesa alla maniera di Balthasar, consiste nel fatto che in essa Dio si autoesibisce nello splendore evidente della sua gloria, manifestando tramite Cristo il suo amore disinteressato per il mondo e suscitando, da parte dell’uomo, un atteggiamento di amore consenziente. 

Tuttavia anche questo “modello” di giustificazione della fede presenta dei limiti.
Che l’amore disinteressato di Gesù affascini, seduca e incanti non c’è motivo di metterlo in dubbio. Si può condividere quanto scrive E. Bianchi: “Il Cristo che muore sulla croce, che abita il luogo della disperazione, dell’abbandono umano e di Dio, dell’annichilimento della dignità dell’uomo e che vive questo con amore e perdonando i suoi aguzzini mi rivela qualcosa che forse non mi convince razionalmente, ma certamente mi vince. E ancor più mi avvince. Opporre il bene al male, perdonare fino a settanta volte sette, compiere gesti unilaterali di carità, di perdono, senza pretendere alcun contraccambio, chinarsi di fronte al nemico personale per servirlo con amore, tutto questo è certamente follia e scandalo ma è anche la diretta rivelazione della sapienza e della potenza di Dio, ed è rivelazione di possibilità radicali dell’uomo.[…] La verità della fede la si misura sulla verità e sulla bellezza della vita che suscita. La narrazione del volto di Dio è delegata ai credenti, chiamati a null’altro se non alla santità, a essere un riflesso della vita di Cristo. Una vita che è stata anche bella, buona e felice, e che ha trovato, e così l’ha anche indicato, il suo senso radicale nella donazione di sé, nella pro-esistenza, nell’amore che ha il suo canone nella dedizione fino alla croce”.
Anche se è peraltro vero che questo dono di sé è paradossale, non immediatamente naturale, tutt’altro che ovvio. Infatti prodigarsi per il bene, e per il bene degli altri, significa anche spesso un danno nei nostri confronti ed esige sacrifici dolorosi che forse, come atteggiamento di vita,  potrebbe non essere condiviso da chi assume una visione naturalistica della vita, in cui viene concepito l’uomo come nato dal caso e dalla necessità, straniero nell’universo, senza un senso assoluto dell’esistenza ma col solo senso eventuale che ognuno vuole assegnargli, senza un fine oltre la morte biologica, che potrebbe stabilire che il significato relativo della vita stia nella ricerca del piacere, o nella lotta per l’esistenza in cui uno può far di tutto per vincere anche senza riguardo dell’altro, a meno che non sia suo amico.
Detto questo, rimane comunque plausibile che la vita nella sua essenza sia relazione, e quindi amore, perché l’amore lega. Quindi quello che noi tutti cerchiamo e desideriamo è di amare ed essere amati. E questo è quello che ha insegnato e soprattutto testimoniato Gesù.
Ma qui sorgono delle domande. Non è quello che hanno insegnato e vissuto anche tanti altri uomini e fondatori di religioni? Come e perché l’amore vissuto da Gesù qualificherebbe la sua identità come divina piuttosto che come semplicemente umana? Tra l’altro i limiti della ricerca storica non consentono nemmeno di renderci certi che la figura di Gesù descritta nei vangeli sia realmente la figura reale di Gesù. Ma non è questo fondamentale, quanto il fatto che si può venire colpiti dallo splendore di Cristo anche senza considerarlo Dio, ma semplicemente una notevole figura d’uomo, che ha vissuto in modo radicale l’essenza dell’uomo come essere amante.
Balthasar parla di rapimento davanti alla figura o “forma” di Gesù. Ma chi si concentra sulla figura deve pure essere in grado di giustificare il suo rapimento, e non è affatto libero dalla responsabilità di accertare che questo suo stato esistenziale sia adeguato di fronte all’oggetto specifico, né dal provare perché lo sia. Altrimenti tale percezione rimane solo qualcosa di soggettivo, che non può convincere tutti.

BIBLIOGRAFIA

Abbagnano N.- Fornero G. (a cura di), Storia della filosofia. La filosofia contemporanea, pgg, 257-     279 (K. Rahner) e 754-773 (H. U. Von Balthasar)
Greco C., Modelli teologici di mediazione della verità della rivelazione, in Id. La rivelazione.    Fenomenologia, dottrina, credibilità, 2000 San Paolo, p. 319-353
Rahner K., Corso fondamentale sulla fede, or. 1976, Edizioni Paoline 1984
Von Balthasar H.U., Solo l’amore è credibile, 1963, Borla 1985
Weischedel W., Il Dio dei filosofi, vol. 3°, or. 1971, Il nuovo Melangolo, 1994
 

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