sabato 25 aprile 2015

24. IL DESTINO DELL'UOMO: VITA OLTRE LA MORTE?


L’angoscia della morte ha condotto i nostri lontani progenitori, centinaia di migliaia di anni fa, a scavare le prime tombe e, nel tempo, ad arricchirle di utensili, doni, ornamenti per accompagnare il defunto nell’altro mondo. Tale pratica indicherebbe la coscienza della finitezza dell’uomo e la speranza che questa non sia definitiva ma superabile in una dimensione trascendente, speranza ancora presente in tanti uomini d’oggi.
E' probabilmente vero che non si è trovato nessun popolo o tribù senza un qualche contrassegno di religione, ma è anche vero che la rappresentazione di una sopravvivenza dopo la morte è forse non sempre presente e comunque variamente e ambiguamente descritta e creduta.
Presento una brevissima carrellata storica.
            Come abbiamo già detto sembra che i popoli primitivi credessero in una qualche sopravvivenza del singolo dopo la morte, e per quanto riguarda alla loro concezione della sopravvivenza, qualcuno ipotizza che non pensavano a più di un sopravvivere spettrale, o ad una sopravvivenza dell’anima (confortata dall’apparizione dei defunti nei sogni) (vedi anche il post “Origine e spiegazione della religione”).
            Nelle popolazioni etnologiche odierne si riscontra un interesse quasi universale nella vita dopo la morte, anche se alcune di esse (per es. i Pigmei baka nella foresta equatoriale dell’Africa) sembrerebbero non aver un’idea dell’aldilà e pertanto crederebbero che con la morte terminerebbe la vita dell’individuo. La vita nell’aldilà in queste popolazioni viene perlopiù concepita sul modello della vita terrena: così le tribù indiane del Nord-America vi percorrono territori di caccia meravigliosamente ricchi di selvaggina, i popoli africani se lo rappresentano come una contrada in cui ci si sposa, si festeggia, in cui si abitano dei villaggi.
            Nell’antico Egitto gli egiziani credevano che il defunto avesse bisogno di un corpo ben conservato e di una tomba in cui lo spirito potesse ritornare per cibarsi. A tal fine le tombe erano fornite di oggetti di uso quotidiano e religioso, secondo la ricchezza dell’individuo. Il culto di Osiride nel Regno medio (ca.1900 a.C.) ottenne una diffusa popolarità perché offriva ai suoi seguaci, indipendentemente dal loro stato sociale, la promessa della resurrezione e di una vita eterna passata a coltivare la terra nei “Campi dei giunchi”, qualora il giudizio fosse risultato positivo.
            Nell’escatologia greca più antica tutte le anime scendevano nell’Ade, il sotterraneo e buio regno dei morti. Successivamente i Misteri e l’Orfismo promisero agli iniziati una vita beata, simile a quella degli dèi. La reincarnazione rimase una credenza marginale. Nel 5° sec. a.C. apparve una credenza nell’immortalità celestiale/astrale, con molte varianti. Tutte queste credenze coesistevano con dubbi sulla vita ultraterrena.
            Nelle popolazioni del Vicino Oriente antico (hittiti, fenici, sumeri), nonostante siano state trovate tombe regali (2500 a.C.) e altre sepolture, la mitologia pervenutaci attraverso le fonti letterarie indica tuttavia una credenza nell’immortalità solo degli dèi, anche se perfino essi potevano morire. L’uomo comune non nutriva alcuna speranza di sopravvivere dopo la morte, oppure scendeva in un buio mondo sotterraneo dove la vita rispecchiava molto pallidamente le gioie della vita terrena.
            Le religioni orientali per lo più credono nella reincarnazione che porterà l’individuo all’estinzione di ogni desiderio, alla liberazione nell’Infinito, al nirvana o alla reintegrazione cosmica.
Nell’Islam si annuncia la fine del mondo presente, la risurrezione dei morti e il giudizio finale con le sue conseguenze. L’inferno è riservato ai non credenti, ai politeisti, ai calunniatori del profeta. Il paradiso si apre ai fedeli che vi abiteranno nella “gioia divina”. È nota la rappresentazione alquanto antropomorfica del “paradiso”: luogo di godimento, come un’oasi senza confini, in cui scorrono fiumi di latte, di miele e dove sono a disposizione del devoto un buon numero di fanciulle vergini, anche se per i teologi islamici più liberali queste descrizioni devono essere intese in senso metaforico.
            Nell’ebraismo, come già detto, non si è creduto per oltre un millennio alla risurrezione ma solo in una permanenza umbratile, in un luogo di tenebra e silenzio, di inedia e di oblio, nel quale gli uomini sono condannati ad un’esistenza spettrale (“scheol”), incapace di incidere su una vita vissuta nell’oggi. L’immortalità era per lui la continuità della generazione del padre nei figli.
E col cristianesimo l’idea della risurrezione viene ribadita con il messaggio della risurrezione di Gesù come garanzia e anticipo della risurrezione di tutti gli uomini.
Quindi da un punto di vista storico, le convinzioni sull’aldilà sono sì generalmente anche se non sempre presenti, colpiscono però le loro varianti piuttosto che per la loro uniformità, e appaiono storicamente condizionate per le loro rappresentazioni.
Ma valutiamo ora su cosa si fondano, che grado di conoscenza possiamo avere noi oggi circa la prospettiva di una eventuale vita oltre la morte.
Nell’uomo esistono in pratica tre grandi maniere di rappresentare la vita eterna: l’immortalità dell’anima, la reincarnazione e la risurrezione.  

1.     L’IMMORTALITÁ DELL’ANIMA 

L’immortalità dell’anima risulta essere la prospettiva e la questione più importante, perché implicata, in maggior o minor misura, anche nelle altre due prospettive indicate (reincarnazione e risurrezione), e pertanto sarà quella più approfondita.
Questa concezione si basa sull’idea che nell’uomo esista un’anima, o comunque un principio spirituale, che sopravviverà alla morte del corpo in quanto non dipenderebbe da esso. 
Il problema fondamentale qui è quello di poter giustificare razionalmente l’esistenza dell’anima e la sua eventuale immortalità.
In termini tradizionali l’anima è stata considerata “il principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali (comunque intese e classificate) in quanto costituente una unità a sé o sostanza” (N. Abbagnano). Quindi l’insieme delle operazioni o di eventi quelli appunto detti “psichici” o “mentali” o “spirituali” costituirebbero le manifestazioni di un principio autonomo, appunto l’anima, irreducibile, per la sua originalità, ad altre realtà, sebbene in rapporto con esse.
La questione dell’esistenza dell’anima è connessa con il così detto problema mente-corpo.

Nel mondo sembrano esservi due tipi di cose del tutto differenti: le cose che appartengono alla realtà fisica, che molte persone differenti possono osservare dall’esterno, e le altre cose che appartengono alla realtà mentale, che ciascuno di noi sperimenta al suo interno. Ora, la realtà mentale deriva dalla realtà fisica o ha un fondamento diverso? In altri termini: la nostra mente è qualcosa di diverso dal nostro cervello, sebbene ad esso connessa, oppure è il nostro cervello? Detto ancora più esplicitamente: il darsi delle realtà mentali richiede l’esistenza dell’anima (o di una “mente”, sussistente come entità indipendente) o deriva semplicemente dal corpo (cioè dal cervello)?
Dalle risposte a queste domande si avranno maggiori o minori possibilità di giustificare l’esistenza dell’anima (la sua natura, e la sua eventuale immortalità). 

Provo dunque ad affrontare tale questione, in modo molto sommario e sintetico, sicuramente incompleto, ma spero sufficiente per avere (e per dare) una prima idea delle possibilità e dei limiti conoscitivi rispetto a questa questione.
Accenno innanzitutto alle diverse concezioni riguardo al rapporto mente/corpo o anima/ corpo: sono molte e le più diverse, ciascuna con i suoi sostenitori e i suoi detrattori, nessuna che non sia controversa, nessuna che oltre alle possibilità che offre non presenti anche dei limiti, che fanno scontrare i rispettivi sostenitori in una interminabile disputa, tuttora molto vivace.
In modo approssimativo, si possono riassumere queste diverse concezioni in tre classi fondamentali, che al loro interno presentano numerose varianti (tali da rendere anche difficile un loro inquadramento): il dualismo, il fisicalismo e il fisicalismo non riduttivo.

1. Il dualismo afferma che deve esservi un’anima “attaccata” al corpo in un certo modo che consente loro di interagire; e allora noi saremmo costituiti da un organismo fisico e da un’anima puramente mentale, a cui si devono le attività “superiori” dell’uomo. Esistono due principali tipi di dualismo (oltre ad altri): il dualismo delle sostanze, il dualismo delle proprietà.
Il dualismo delle sostanze - o dualismo proprio - introduce la nozione di sostanza: la mente non è un insieme di pensieri, ma è ciò che pensa, una sostanza immateriale (distinta da quella materiale). Questa visione è quella che tradizionalmente appartiene alle visioni religiose dell’uomo. L’esistenza di un’anima creata da Dio, immortale, distinta dal corpo, è una verità della fede cattolica e un elemento di credenza ampiamente diffuso anche in ambito cristiano riformato. Nel Catechismo della chiesa cattolica viene affermato come verità di fede che la persona umana “è un essere insieme corporeo e spirituale” (n. 362) e che l’anima “è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte” (n. 366) (poi certo nel cristianesimo si sottolinea anche l’aspetto della risurrezione dei corpi a scapito della sola immortalità dell’anima) .
Il dualismo delle proprietà invece sostiene che esiste un solo tipo di sostanza o di entità, con proprietà fondamentali fisiche e mentali; in altri termini possono esserci enti fisici che posseggono proprietà non fisiche, non riducibili alla fisica: a tale ruolo si candidano, in particolare, le persone e i cervelli.
2. All’opposto si trova il materialismo (monistico) o fisicalismo, la visione secondo cui le persone non sarebbero fatte che di materia fisica, e i loro stati mentali sarebbero stati fisici del loro cervello; insomma, la mente e il cervello alla fine sarebbero la stessa cosa. Non è che questi filosofi neghino la coscienza, i pensieri e la logica; semplicemente sostengono che questi elementi non sarebbero spirituali, e sarebbero invece operazioni sofisticate e complesse del cervello aventi una natura fisica. Anche questa posizione contempla diverse varianti, tra cui l’eliminativismo, quella dell’identità tra mente e cervello, il comportamentismo logico, il funzionalismo, ecc., tutte teorie che vedremo in seguito.
3. In una posizione intermedia, si ammette la possibilità che alcune caratteristiche della vita mentale non siano fisiche, pur considerandole prodotte dal cervello e quindi dipendenti da esso; oppure si sostiene che tutti gli eventi sono eventi fisici, ma alcuni eventi fisici hanno anche proprietà non fisiche, ma mentali. Anche in questa “zona grigia” si possono trovare numerose teorie, tra le quali segnalo qui quella dell’emergentismo, secondo cui quando la natura raggiunge un adeguato livello di complessità, essa dà vita a fenomeni nuovi, imprevedibili e irriducibili a quelli del livello base, ovvero emergono proprietà mentali  eccedenti e (forse) capaci di esercitare un’influenza causale sul fisico.

Ma riprendiamo e approfondiamo la questione.
Il problema mente-corpo riguarda dunque il modo di spiegare come stati, eventi e processi mentali siano in relazione con stati, eventi e processi fisici del corpo; o, alternativamente, come trovare posto alla mente in una concezione naturalistica del mondo che la considera prodotto dell’evoluzione biologica grazie ad un substrato fisico-chimico. I due problemi sono collegati e portano a formulare le due domande principali più frequenti:
se il mentale non è fisico, come possiamo spiegare la sua interazione causale con il fisico?
E se invece il mentale è fisico, come possiamo spiegare i fenomeni della coscienza?  
Ma cos’è il mentale e cosa lo differenzia dal fisico?
C’è sufficiente accordo sul fatto che per attività o stati mentali si intenda il sentire, il percepire, il pensare e l’esser coscienti. In sintesi, il mentale – in opposizione al fisico – si caratterizza per l’unità (il flusso di coscienza e il focus dell’attenzione sono convergenti e indivisibili, anche se la questione non è immune da difficoltà), l’immediatezza (conoscenza introspettiva diretta, non inferenziale, dei nostri stati interni), l’immunità dall’errore rispetto all’ascrizione degli stati (uno stato che ci sembra nostro non può che essere nostro, a differenza, ad esempio, del contenuto di un ricordo) e la fenomenologia (l’effetto che fa essere se stessi o esperire certe sensazioni). Gli stati mentali ci appaiono “in prima persona”, con il carattere della “privatezza”: la prospettiva di prima persona è quella che differenzia la soggettività dall’oggettività scientifica espressa “in terza persona”. L’altra caratteristica fondamentale del mentale è data dall’intenzionalità, cioè da quella capacità della mente per cui gli stati mentali hanno sempre un contenuto, ovvero si riferiscono a un oggetto, vertono a cose, diversi da se stessi; hanno cioè un contenuto, un elemento mentale con proprietà rappresentazionali (non necessariamente  esistente: si può pensare ad un ippogrifo).
Che cosa sia il fisico può sembrare più semplice (anche se forse proprio così non è) e con approssimazione, in contrapposizione al mentale, si fa riferimento al corpo, e al cervello in particolare.  Ma è anche difficile sostenere una discontinuità tra il corpo e la realtà esterna (siamo fatti di atomi come gli oggetti, seppur organizzati diversamente). Comunque oggi nel fisico rientrano gli elementi di base (particelle, campi di forza, energia costante) e le qualità primarie (dimensione, forma, movimento, numero, tessitura). Fare appello alla scienza fisica, inoltre, implica accettare il riduzionismo, in quanto la spiegazione scientifica è intrinsecamente riduzionistica: la complessità viene ridotta alla semplicità, gli interi scomposti in parti.

Detto questo, presento meglio il dualismo e soprattutto gli argomenti più noti atti a giustificarlo. 

IL DUALISMO E GLI ARGOMENTI A SUO FAVORE
La presentazione (e la difesa) più emblematica del dualismo - filosoficamente nato con Platone - è avvenuta nella filosofia moderna ad opera di Cartesio (1596-1650). Lo presento così come viene spiegato da B. Sweetman (2014, p.149-151). Cartesio ha sostenuto che il corpo e la mente sono due entità distinte, ovvero due sostanze (dualismo delle sostanze) . La mente non è una entità fisica e ha una natura spirituale, il cervello è invece una entità fisica. Secondo questa concezione, quindi, la mente è una entità indipendente, non è prodotta dal cervello e non dipende necessariamente da quest’ultimo per la sua esistenza.
Il dualista ritiene che il corpo e la mente abbiano una relazione simile a quella esistente nel motore di un’auto tra l’alternatore e la batteria. Sono entità distinte, ma collegate tra loro; l’una non produce l’altra, e se l’una viene rimossa, l’altra per questo non cessa di esistere. Sebbene non si tratti di un’analogia perfetta, essa ci dà comunque una buona illustrazione della posizione dualistica.
Un punto cruciale di essa è la sua posizione antiriduzionistica nel rapporto tra mente e cervello. Il riduzionismo è il tentativo messo in atto da alcuni filosofi di spiegare una certa serie di fenomeni abitualmente problematici e apparentemente non di natura fisica nei termini di un’altra serie di fenomeni più semplici e più facilmente comprensibili. Di fatto si tratta di spiegare l’entità più complicata, la mente, nei termini di quella più semplice, il cervello. Ora, Cartesio ha sostenuto che il riduzionismo non può riuscire perché la mente è una entità distinta, le cui proprietà non possono essere spiegate in termini scientifici, per cui anche se arrivassimo a comprendere totalmente il funzionamento del cervello, questo non ci consentirebbe di comprendere ancora del tutto la mente.
Cartesio e altri dualisti sostengono un’altra tesi fondamentale, cioè che la mente ha un potere causale sul cervello, il che è una chiara indicazione della sua autonomia metafisica. Come si vedrà poi, questa interazione causale tra mente e cervello, due sostanze del tutto diverse tra loro secondo il dualista, sarà uno dei più grossi problemi che deve affrontare il dualismo e un punto di forza dei fisicalisti. Comunque, un esempio del potere causale della mente sul cervello e viceversa, lo si può brevemente illustrare con l’esempio dei processi fisici e mentali che accompagnano la sensazione della fame.  Lo stomaco manda segnali al cervello e allora si inizia a pensare (come parte dei processi di pensiero consci) al cibo. Si può iniziare a pensare che è ora di pranzo, al luogo in cui si è e a quello in cui si vorrebbe mangiare, a che cosa si potrebbe mangiare, ecc. La tesi dei dualisti è che il cervello stimola la mente a pensare al cibo, ma che quando uno pensa e decide cosa fare, la mente agisce sul cervello mandando quei segnali al corpo che alla fine lo fanno andare al ristorante. La mente interagisce con il corpo e entrambi hanno un potere causale uno sull’altro.
Tornando ad oggi, è senz’altro vero che i resoconti filosofici contemporanei della natura umana, compresa quella della mente, sono in gran parte materialistici; e tuttavia, come dice il filosofo americano C. Taliaferro, “vi è un crescente riconoscimento del problema insito nel progetto materialistico di riduzione o di identificazione degli stati e delle proprietà coscienti agli stati del cervello e al comportamento corporeo. Nessuna delle riduzioni o delle identificazioni delle scienze fisiche ci dà alcun indizio di come la coscienza possa essere identica a uno stato o a un processo fisico”.  Anche il materialista M. Lockwood ammette che “sembra tuttavia evidente che nessuna descrizione di qualche attività cerebrale rilevante, formulata nei linguaggi oggi disponibili della fisica, della fisiologia, dei ruoli funzionali o computazionali, sia lontanamente in grado di catturare ciò che è distintivo della coscienza” (2003).
Insomma, sembra che le neuroscienze non possano sostituire con spiegazioni neurologiche la vasta gamma delle spiegazioni psicologiche ordinarie delle attività umane nei termini di ragioni, intenzioni, scopi, obiettivi, valori, regole e convenzioni (Bennet-Hacker, 2003).
Quindi passo ora a considerare i più importanti argomenti in favore del dualismo. 

Argomento dell’identità e della semplicità personale
Almeno da Butler (1736) e Reid (1785) vi è una lunga tradizione secondo la quale l’identità delle persone nel tempo non è questione di convenzione, ma si configurerebbe come un fatto ultimo, irriducibile e non analizzabile nei termini di fenomeni osservabili o esperibili coi sensi.
R. Swinburne (1984) parte dell’incapacità del materialismo di rendere conto del fatto evidente che noi siamo soggetti unitari e perduranti nel tempo. Secondo lui, la continuità del corpo e dei ricordi ad esso associati sono inessenziali per la continuità del soggetto, della persona, che per questa ragione non può quindi identificarsi con esse. Per Swinburne l’unico modo di dar conto della nostra intuizione di esistere come soggetti perduranti di esperienza è supporre la persistenza di una sostanza immateriale semplice, che sarebbe alla base della nostra identità personale.
Un altro argomento celebre in favore della distinzione tra mente e corpo afferma che essa è ricavabile dalla constatazione che il corpo appare divisibile, in contrapposizione alla mente che invece è intrinsecamente indivisibile: nella “Sesta meditazione” Cartesio afferma che, in quanto cosa pensante, io “non posso distinguere in me parte alcuna, ma concepisco di essere una realtà una e intera”, mentre questo non è affatto vero per il mio corpo. Nè la presenza di differenti facoltà del volere, del sentire, del concepire è un esempio di disunità dell’io, perché comunque sempre una e identica è la mente che vuole, sente e concepisce.
Sempre dell’argomento dell’unità della coscienza aveva parlato anche Leibniz (1720) nel noto passo in cui dice che, se anche potessimo immaginare una macchina che possa pensare, sentire, percepire, e vi potessimo entrare come in un mulino, troveremmo parti meccaniche in funzione e nulla più: per questo “la percezione dovremmo cercarla nella sostanza semplice e non nel composto o macchina”. Ovvero, uno stato complesso di coscienza non può esistere distribuito tra le parti di un oggetto complesso. W. Hasker allora domanda: “chi o cosa è consapevole dello stato cosciente come di un tutto?” perchè  è un fatto che si è consapevoli del proprio stato cosciente come di un dato unitario. Allora al materialista chiediamo: quando sono consapevole di uno stato cosciente complesso, quale entità fisica è consapevole di quello stato? Sono convinto che non ci sia una risposta plausibile. Sembra invece che l’entità cosciente, la cosa che è consapevole dei nostri stati di pensiero e di sensazione, sia qualcosa di diverso dal corpo (in Lavazza, 2008). 

Argomento della conoscenza (o dei qualia)
Per rendere manifesta la peculiarità e l’eccedenza della realtà mentale su quella fisica è stato escogitato un esperimento mentale, diventato emblematico (anche se molto discusso), dal filosofo Jackson (1982).
Mary è una neurofisiologa che sa tutto quello che c’è da sapere sul funzionamento del cervello, sulla sua biochimica, anatomia, fisiologia, patologia, sul modo in cui processa l’informazione, ecc. Mary, però, per un motivo qualsiasi, deve condurre le sue ricerche dall’interno di una stanza in bianco e nero, attraverso monitor anch’essi in bianco e nero. Malgrado questo handicap, Mary diventa una grande specialista della neurofisiologia della visione, giungendo a conoscere tutto di come il cervello elabori la percezione cromatica.
La questione che Jackson pone è: una volta che Mary finalmente uscisse dalla sua stanza e vedesse il mondo a colori, imparerebbe qualcosa di nuovo? Una volta che Mary venisse posta difronte ad un pomodoro maturo, bello rosso, cosa accadrebbe? L’intuizione è che Mary imparerebbe qualcosa di nuovo, che direbbe “ecco cosa si prova a vedere rosso”, e via proseguendo per tutte le altre esperienze. In breve Mary acquisirebbe della conoscenza che non può essere riportata sui libri, proprio perché richiede una esperienza diretta. Tuttavia, se i colori sono proprietà fisiche, come dobbiamo convenire, e non tutti i dati di conoscenza di tali proprietà fisiche sono esplicitabili riportando i puri fatti fisici relativi al colore, ne segue che la conoscenza su queste proprietà non può essere esaurita tramite descrizioni oggettive e intersoggettive. Quindi se ne dovrebbe dedurre che i fatti fisici non sono gli unici fatti che popolano il nostro mondo, e di conseguenza che il fisicalismo sarebbe incompleto o falso (Gozzano 2009).
Questo argomento ci consente di introdurre il concetto di qualia, molto usato per l’argomento della coscienza. Un quale possiamo identificarlo con il carattere fenomenico di un’esperienza di qualsivoglia genere, ma in particolare di quelle di tipo percettivo. È ciò che proviamo quando recepiamo un certo odore (quale olfattivo), o quanto esperiamo quando assaggiamo qualcosa (quale gustativo) o ciò che esperiamo quando osserviamo un determinato colore (quale visivo). Insomma è “cosa si prova”. La coscienza dunque è essenzialmente caratterizzata dal cosa si prova, da che effetto fa essere un determinato organismo. Il carattere soggettivo dell’esperienza, dice T. Nagel, è proprio l’ostacolo principale all’analisi scientifica dei fenomeni coscienti. 

Argomento della concepibilità (o argomenti modale, dello zombie e delle inversioni)
Ci sono degli argomenti che hanno radici nella “Sesta meditazione” di Cartesio, laddove egli con un argomento a priori cerca di mostrare la distinzione di principio tra mente e corpo.
L’idea è semplice: se sono in grado di concepire in modo chiaro e distinto che una cosa esiste indipendentemente da un’altra, allora non vi è dubbio che esse non sono la stessa cosa, poiché è quanto meno possibile che Dio le abbia “poste separatamente”. Di fatto io posso ben concepire la mente come esistente indipendente dal corpo: è impossibile quindi che si tratti della stessa entità.
Ci sono diverse varianti di questo tipo di argomento: H. Robinson (2003), in versione più prettamente modale, lo espone come segue:
“E 'immaginabile che esista una mente senza il corpo, quindi
è concepibile che esista una mente senza il corpo, quindi 
è possibile che esista una mente senza il corpo, quindi
la mente è una entità distinta, diversa dal corpo”.
Un’argomento affine, molto noto e discusso, è quello dell’esperimento mentale dello zombie. Con zombie si intende una entità fisicamente identica ad un essere umano, ma priva degli stati di esperienza soggettiva che si accompagnano alla nostra configurazione fisica. Ora, se ammettiamo la concepibilità del mio gemello zombie, ovvero la possibilità logica di un mondo possibile in cui un individuo identico atomo per atomo a me stesso sia privo di stati di coscienza, allora avremmo provato l’impossibilità di una spiegazione meramente fisica dell’esperienza fenomenica. Io e il mio gemello, infatti, siamo indistinguibili dal punto di vista fisico. Quindi il mio possesso dell’ulteriore proprietà di essere un soggetto di esperienza,  va oltre i limiti della fisica; essa, se esiste, cade al di fuori delle scienze naturali, dato che non esistono differenze fisiche nelle due situazioni.
A sostenere il concetto di zombie ci viene incontro anche una rara malattia psichiatrica, la sindrome di Cotard: i soggetti affetti da tale patologia possono affermare di non avere più determinate parti del corpo, oppure “di non aver sentimenti”, fino a sostenere di non esistere affatto. In sostanza, sembra che essi siano la migliore approssimazione della condizione di uno zombie.
Dunque “il cuore dell’argomentazione è il seguente: possiamo immaginare o concepire un essere fisicamente identico a ciascuno di noi che tuttavia differisce per le proprietà coscienti. Se tale essere è concepibile, allora esso è possibile; da ciò consegue che non possiamo procedere all’identificazione delle proprietà coscienti con quelle fisiche, come vuole il fisicalista, pena, data l’ipotesi dello zombie, la scomparsa delle proprietà coscienti” (Gozzano 2009, p. 93-94).
             Un altro argomento simile è quello delle “inversioni” (o dello “spettro invertito”).
Questo argomento risale a J. Locke (1690), e ci dice che potremmo immaginare che lo stesso oggetto esterno potrebbe produrre idee diverse nella mente di diversi uomini al medesimo tempo. Ad esempio se lo spettro cromatico che io percepisco fosse invertito rispetto al tuo, a parità di addestramento linguistico, ci troveremmo nell’impossibilità di rilevare tale inversione. Posto di fronte a una violetta  io asserisco “è di colore viola”, e davanti all’arancia matura  affermo “è di colore arancio”, ma le mie sensazioni interne sono invertite rispetto a quelle che tu provi quando sei nella mia stessa situazione: io ho la sensazione di viola  in presenza di arance  e quella di arancio in presenza di viole, eppure sono stato addestrato a chiamare “viola” la sensazione che tu chiami “arancio” e viceversa. Poiché quindi l’eventualità dell’inversione dello spettro cromatico è perfettamente intelligibile, ne consegue che abbiamo un argomento a priori – ossia indipendente dall’esperienza e frutto di ragionamenti – per mostrare che a parità di relazione e comportamento fisico abbiamo una inversione di fenomenologia mentale. Possiamo quindi asserire di aver un argomento per marcare la distanza tra il mondo fisico, che tratta i comportamenti fisici, e il mondo della fenomenologia cosciente, che si occupa delle nostre esperienze interne (Gozzano 2009, p. 20). 

Argomento dello iato esplicativo
Oggi l’insieme di problematiche sopra esposte - argomento della conoscenza, dello “spettro invertito” e zombie - è riunito sotto l’espressione di iato esplicativo: tra la spiegazione neurologica e quella fenomenologica, si afferma, esiste un vuoto esplicativo, un salto, che le neuroscienze non sono in grado di colmare. Questo non sembra un problema esclusivamente epistemologico, bensì metafisico: se tutte le proprietà fisiche sono insufficienti a spiegare il fenomeno della coscienza, non dobbiamo allora richiamarci a proprietà speciali per affrontare un simile fenomeno? Non dobbiamo aggiungere queste proprietà al catalogo fondamentale di ciò che c’è nel nostro universo?  

Argomento della libertà
Questo della libertà si tratta di un argomento indiretto, in quanto concerne un aspetto che non è strettamente dipendente dal problema mente-corpo, sebbene ne sia influenzato.
Qui posso solo accennare all’argomento, per cercare di capire che si tratta di una proprietà notevole e complessa dell’essere umano e questo è il motivo per cui molti pensatori credono che l’esistenza del libero arbitrio sia un argomento importante contro ogni teoria materialistica della mente umana.
Seguiamo qui il ragionamento di B. Sweetman: il libero arbitrio può essere definito come l’abilità degli esseri umani a fare una scelta autentica tra alternative, una scelta che non è determinata da leggi scientifiche operanti a livello atomico o molecolare o dalla combinazione di particelle nel cervello. Sebbene sia evidente che il libero arbitrio comporti anche processi di causa ed effetto, vi è in esso un aspetto non causale che è essenziale, altrimenti non sarebbe libero arbitrio.
Pensiamo ad esempio a tutte le dinamiche che si succedono nel nostro corpo e nella nostra mente quando sentiamo fame: da eventi biologici in cui segnali vengono mandati al cervello, al susseguirsi di idee, pensieri, immagini e ragionamenti su dove pranzerò, su che cosa mangerò e quando. Queste decisioni mi consentono di esercitare un potere causale sul mio cervello e sul mio corpo in modo da muovere quest’ultimo verso il ristorante così da andare a pranzare. Le decisioni che ho preso sono scaturite in modo un po’ misterioso dal processo mentale che mi porta a pensare al pranzo: tuttavia ho delle ragioni per esse. Queste ragioni non mi determinano in modo necessario. Diversamente da una macchina che potrebbe essere programmata per fare apparentemente una scelta, io sono realmente libero di prendere una decisione. I sostenitori del dualismo e quelli che parteggiano per la dottrina del libero arbitrio sostengono che non è possibile dare un resoconto scientifico del libero arbitrio perché si tratterebbe di una contraddizione in termini: sarebbe come chiedere una spiegazione scientifico-causale di qualche cosa che non è soggetto  a un certo tipo di spiegazione. Quello che quindi possiamo dire del libero arbitrio è che è reale, ma sta al di là della fisica  e oltre il metodo scientifico.
I dualisti ritengono che la presenza del libero arbitrio infici la validità del materialismo.  Infatti per i materialisti si tratta di un problema spinoso dal momento che, affermando che tutte la nostre azioni si radicano nel cervello o nel sistema nervoso centrale, essi devono anche affermare che tutte le nostre “scelte” sono esplicabili in termini di leggi casuali scientifiche che operano sulla materia. Noi saremmo quindi simili a robot molto sofisticati, le cui azioni sono determinate da sequenze casuali operanti secondo le leggi scientifiche. In breve, non vi è spazio per il libero arbitrio in un universo naturalistico (B. Sweetman 2014, p.156-163).   

Termino la difesa del dualismo (in senso ampio) riassumendo brevemente due prospettive rilevanti, quella dei filosofi D. Chalmers  (Affrontare il problema della coscienza, in Lavazza, 2008, pp.208-239) e W. Hasker (Dualismo emergente: una prospettiva di mediazione sulla natura degli esseri umani, in Lavazza, 2008, pp. 240-255). 

Chalmers afferma che tanti fenomeni della coscienza sono spiegabili, o lo saranno, in termini cognitivi o neurofisiologici. Questi sono i problemi semplici, perché riguardano la spiegazione di capacità e di funzioni cognitive. Ma il problema davvero complesso della coscienza è il problema dell’esperienza (o della coscienza fenomenica o qualia): come dice Nagel fa un certo effetto essere un organismo cosciente, si prova qualcosa. È l’aspetto soggettivo. Perché lo svolgimento di queste funzioni è accompagnato dall’esperienza? La spiegazione semplice delle funzioni lascia aperto questo quesito. Perché tutta l’elaborazione dell’informazione non si svolge al “buio”, libera da ogni sensazione interna?
Ci sono diverse teorie che vorrebbero spiegare la coscienza. La “teoria neurobiologica della coscienza” di Crick e Koch (1990) ipotizza che certe oscillazioni delle scariche neuronali della corteccia cerebrale a 35/75 hertz siano la base della coscienza, ovvero i correlati neuronali dell’esperienza. Ma seppur la si accetta, la domanda esplicativa rimane: perché le oscillazioni delle scariche neuronali danno origine all’esperienza? Il modello del “darwinismo neuronale” di Edelman (1989) prende ad esempio in considerazione le domande sulla consapevolezza percettiva e sul concetto di sé, ma non dice nulla del motivo per cui deve esservi anche l’esperienza. Il modello delle “versioni multiple” di Dennett (1991) è diretto in gran parte a spiegare la riportabilità di certi contenuti mentali. La teoria del “livello intermedio” di Jackendoff (1987) fornisce un resoconto di alcuni processi computazionali che sottostanno alla coscienza, ma egli stesso sottolinea che il modo in cui essi “proiettano” nell’esperienza cosciente rimane misterioso.
La stessa critica in definitiva si applica a qualunque spiegazione puramente fisica della coscienza. Per ogni processo fisico che noi specifichiamo, vi sarà una domanda senza risposta: perché questo processo dovrebbe dare vita all’esperienza? Dato uno qualunque di questi processi, è concettualmente coerente che esso possa venire instanziato in assenza dell’esperienza. Ne segue che nessuna spiegazione dei processi fisici ci dirà perché sorge l’esperienza. L’emergere dell’esperienza va oltre ciò che può essere derivato da una teoria fisica. L’esperienza può sorgere dal fisico, ma non è implicata dal fisico.
Allora dato che la spiegazione riduzionistica fallisce - ne deduce Chalmers - la scelta più ovvia cade sulla spiegazione non riduzionistica.
Chalmers suggerisce che una teoria della coscienza debba considerare l’esperienza come fondamentale, ovvero come qualcosa che non può essere spiegato con nulla di più semplice, che sono basilari (come la massa e lo spazio-tempo). Una teoria della coscienza richiederà l’aggiunta di qualcosa di fondamentale alla nostra ontologia. Dove esiste una proprietà fondamentale, vi sono anche leggi fondamentali. Una teoria non riduzionistica dell’esperienza aggiungerà nuovi principi alla dotazione delle leggi di base della natura. In particolare, questa teoria specificherà i principi base che ci dicono il modo in cui l’esperienza dipende da elementi fisici del mondo. Questi principi psico-fisici non interferiranno con le leggi fisiche (sembra infatti che le leggi fisiche formino già un sistema chiuso). Piuttosto, saranno un elemento aggiuntivo a una teoria fisica. Una teoria fisica fornisce una teoria dei processi fisici, e una teoria psico-fisica ci dice il modo in cui questi processi danno origine all’esperienza. (Ovviamente, considerando l’esperienza come fondamentale, vi è un senso in cui tale approccio non ci dirà perché l’esperienza esiste, ma lo stesso accade per qualunque teoria fondamentale: niente in fisica ci dice perché primariamente esiste la materia, ma non lo consideriamo un fatto che ostacoli teorie della materia).
Questa posizione si qualifica come una varietà di dualismo, dato che postula proprietà basilari al di là delle proprietà invocate dalla fisica. Ma è una versione innocente di dualismo, totalmente compatibile con una visione scientifica del mondo. Nulla in questo approcciò contraddice alcuna teoria fisica, occorre solo aggiungere ulteriori principi ponte per spiegare il modo in cui l’esperienza sorge dai processi fisici. Non vi è nulla di particolarmente spirituale o mistico in questa teoria; la sua forma complessiva è simile a quella di una teoria fisica.  Si potrebbe chiamare dualismo naturalistico. Infine Chalmers cerca di abbozzare la sua teoria, che definisce alla fine speculativa (e più un’idea che una teoria), ma sempre meglio, dice, che negare il fenomeno, o spiegare qualcos’altro o innalzare il problema a mistero eterno, come fanno la maggior parte delle teorie esistenti sulla coscienza. 

W. Hasker ripropone invece l’idea dell’emergentismo: quando elementi di un certo tipo sono assemblati nel modo giusto, qualcosa di nuovo viene in essere, qualcosa che non vi era in precedenza. Si supponga che da certe molecole chimiche, in quantità appropriata e disposte in modo particolare, si ottenga qualcosa di nuovo, una cellula vivente. E si supponga che dato un numero sufficiente di cellule del tipo giusto, organizzate in modo appropriato, sorga il prodigio della consapevolezza, che implica sensazione, emozione e pensiero razionale. Se si guardano questi fenomeni alla luce dell’emergenza non si penserà al nuovo elemento come a qualcosa di “aggiunto dall’esterno”, piuttosto come a qualcosa che sorge in qualche modo dai costituenti originali.
Ora si consideri la seguente possibilità: un cervello animale o umano sono fatti di atomi o molecole ordinari, soggetti alle leggi della fisica e della chimica. Si supponga però che data la particolare disposizione di questi atomi e di queste molecole nel cervello, entrino in gioco nuove leggi, nuovi sistemi di interazione tra atomi, ecc. Queste nuove leggi inoltre svolgono un ruolo fondamentale in attività mentali peculiari, quali il pensiero razionale e l’assunzione di decisioni. Le nuove leggi tuttavia non sono individuabili in qualche configurazione più semplice, anche in loro presenza il comportamento degli atomi e delle molecole è spiegato dalle leggi ordinarie della fisica e della chimica. Si tratta allora di leggi emenrgenti e i poteri che il cervello ha in virtù di esse possono dirsi poteri causali emergenti (certo questo è controverso, molti si oppongono a tale ipotesi partendo dal successo delle ordinarie spiegazione fisico-chimiche; e tuttavia numerosi filosofi si sentono spinti ad affermare l’esistenza di poteri casuali emergenti: sostengono che i fatti più importanti della nostra vita mentale non possono venire spiegati in altro modo).
Si supponga infine che, come esito della struttura e del funzionamento del cervello, appaia anche una nuova entità, la mente, che non consiste di atomi e molecole, o di qualunque altro costituente fisico. Se così fosse, avremmo un individuo emergente, un individuo che viene all’esistenza come risultato di una certa configurazione del cervello e del sistema nervoso, ma che non è composto della materia che costituisce quel sistema nervoso. Tale teoria sarebbe una varietà del dualismo, un dualismo emergente: l’idea è che come conseguenza di una certa configurazione e di un certo funzionamento del cervello e del sistema nervoso, una nuova entità venga in essere, e cioè la mente o l’anima; questa sarebbe una “sostanza”, dipende dal cervello sia per la sua origine che per la sua continuità,  ma non è fatta della materia del cervello. Si potrebbe fare questa analogia: come il magnete genera il suo campo magnetico, così un organismo genera il suo campo cosciente. Un suo punto forte è che stabilisce una stretta connessione tra mente-anima e organismo biologico, una connessione che risulta molto più debole in altre forme di dualismo (evita per esempio la divisione della persona in due entità distinte). La mente–anima è sia generata sia sostenuta dall’organismo biologico, mentre le sue attività sono subordinate al funzionamento dell’organismo e rese possibili da esso.
Altro merito è che si concilia meglio con l’evoluzione biologica di quanto facciano sia dualismo tradizionale che il materialismo riduzionistico (perché la coscienza diventa “invisibile” alla selezione evolutiva che opera solo su strutture e comportamenti fisici, mentre secondo il dualismo emergente la coscienza co-evolve insieme all’organismo che la genera e la sostiene).
Dato che la mente è generata e sostenuta dall’organismo biologico, il dualismo emergente rimane coerente con la prospettiva secondo cui, con la morte dell’organismo anche la mente si estingue. Ma poiché la mente-anima è un individuo ontologicamente distinto dall’organismo biologico, la sua esistenza separata dal corpo è almeno logicamente possibile (per tornare ancora all’analogia mente/campo magnetico, è stato dimostrato a livello teorico che un campo magnetico sufficientemente intenso può mantenersi unito grazie alla gravità quand’anche venga rimosso il magnete che l’ha generato (Thorne, 1994)). Un’altra possibilità è che la mente-anima sia tenuta in vita non per facoltà proprie ma da un Dio. 

In effetti, e per concludere, se invece di partire dalla prospettiva materialistica del cosmo oggi ampiamente diffusa, si abbraccia la visione teistica alternativa,
aumentano le prospettive del dualismo: se il teismo ha ragione, la coscienza è sì emersa, ma è emersa  da un universo di processi fisici e chimici e da una potente realtà cosciente precedente, Dio, che vuole che vi sia un cosmo in cui è importante  e prezioso  essere coscienti. 

CRITICHE AL DUALISMO
Bisogna ammettere che il dualismo oggi (soprattutto quello cartesiano, ma non solo) non ha vita facile. “Il dualismo – filosoficamente fondato da Platone ed espresso nella forma moderna da Cartesio – pur andando raffinandosi nel confronto con lo sviluppo dell’ontologia, della logica, della fisica e delle neuroscienze, è diventato certamente minoritario” ammette lo stesso studioso dualista A. Lavazza, che prosegue comunque dicendo che “ in realtà, le persistenti aporie del riduzionismo fisicalistico riguardo la mente e i suoi aspetti fenomenologici ne giustificano tuttora la considerazione…” (Lavazza 2008, p. 3).
In diverse introduzioni alla filosofia della mente ad opera di autorevoli autori italiani contemporanei, il dualismo viene rifiutato. “Il dualismo appare oggi inverosimile alla grande maggioranza degli studiosi principalmente perché mal si accorda con alcuni capisaldi dell’immagine scientifica del mondo” (Paternoster, 2002, p.6); “ben difficilmente oggigiorno si potrà trovare qualcuno – filosofo, psicologo o neuroscienziato – che non sia disposto a sottoscrivere la tesi secondo cui i processi cognitivi umani sono riconducibili a processi neurocerebrali” (Marraffa, 2002, p 18); “mai come oggi nella storia dell’umanità è sembrato plausibile che come si può, dopo Darwin, fare a meno di Dio per spiegare la vita, così si può fare a meno dell’anima per spiegare l’intelligenza”( Nannini, 2002, p 207).
“Malgrado le notevolissime differenze tra i vari punti d vista, quasi tutti gli studiosi che si occupano della questione sembrano condividere l’adesione a quello che viene definito l’approccio naturalistico”, afferma Di Francesco (2002), e quindi mi appresto a considerare tale prospettiva, e con questa, le critiche ai diversi argomenti sopra esposti che difendevano il dualismo. 

Critiche agli argomenti dell’identità e della semplicità personale
Anche prima degli sviluppi recenti delle neuroscienze, il concetto di anima (e della sua immortalità) era entrato in crisi. Tradizionalmente si diceva che la caratteristica principale dell’anima, ossia il suo essere sostanza, cioè realtà nel senso forte del termine, essenza autonomamente esistente, era quella che la rendeva immortale. Infatti “ciò che ha l’essere per sé non può essere generato e corrotto” perché “l’essere per sé è proprio della forma in quanto è atto” (S. Tommaso); inoltre corollario della tesi della sostanzialità dell’anima era la sua semplicità, per cui l’anima non potrebbe corrompersi perché la corruzione implica composizione. Ma la critica radicale di questo argomento fu fatta da Kant nella sua “Critica della ragion pura” che dimostrò il carattere sofistico dell’affermazione della sostanzialità dell’anima, in quanto tale affermazione non fa che trasformare surrettiziamente in sostanza il semplice rapporto funzionale che il soggetto pensante ha con se stesso, cioè l’Io penso. Inoltre anche una sostanza “semplice”, che non può essere scomposta nelle sue parti costituenti, potrebbe sempre diminuire gradualmente fino a sparire del tutto.
Anche il concetto di “io unitario” (oltre che indivisibile) cui sembra fare appello il dualismo (e che ci verrebbe rivelato dall’introspezione) non sembra oggi particolarmente adatto a sostenere il peso del dualismo e, al contrario, ne rappresenta uno dei principali punti di debolezza (Di Francesco, 2002, p 50).
Accenno solo a qualche problema.
Molto nota è la tesi di Hume secondo cui non esiste affatto una percezione che rimanga costante per tuto il resto della vita di un individuo e che posa giustificare l’io cartesiano: “non riesco mai a trovare me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione” e da ciò la nota conclusione che “noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità in un continuo flusso e movimento”. Da ciò ne segue la metafora humeana della mente come “una specie di teatro, dove le diverse rappresentazioni si susseguono…”. 
Altrettanto presente alla consapevolezza odierna è la teoria psicanalitica di Freud, che sembra ipotizzare vaste “regioni” della mente precluse alla coscienza che appaiono in conflitto tra loro.
Ma soprattutto le neuroscienze e la scienza cognitiva hanno raccolto una ricca messe di dati empirici che mettono in discussione l’intuizione dell’unità dell’“io” e dell’indivisibilità della mente.  Anche trascurando la problematica discussione dei controversi casi di “personalità multipla”, lo studio del comportamento di soggetti sottoposti a commessurotomia  (la separazione chirurgica dei due emisferi  di cui si compone il cervello), i cosidetti “cervelli divisi”, sono inquietanti. Tali ricerche hanno non solo mostrato la lateralizzazione (ovvero la specializzazione dei due emisferi) rispetto a molte funzioni cerebrali, ma nel caso dei pazienti in cui i contatti con i due emisferi venivano interrotti, sono emerse numerose e sorprendenti dissociazioni nelle prestazioni cognitive che hanno addirittura fatto pensare alla presenza di due differenti flussi di coscienza nello stesso individuo. Altri studi di carattere neurobiologico, relativi a disturbi della coscienza, sembrerebbero rafforzare tali considerazioni e suggerire una natura modulare di quest’ultima.  Dennet (1991) ha elaborato certi argomenti contro la tesi di un centro della coscienza, affermando che l’illusione dell’esistenza di un centro del sé sorge in modo naturale a partire da un cattivo modello di noi stessi, che deve essere sostituito da un modello migliore e più rispettoso dell’effettivo funzionamento del cervello.
Al di là delle critiche e diverse interpretazioni che si possono portare in merito, la tensione tra “l’ordinaria e semplice idea di una persona singola” (Nagel) e i sorprendenti risultati della ricerca scientifica è una delle problematiche filosofiche più rilevanti nell’odierna filosofia della mente (Di Francesco, 2002) 

Critiche agli argomenti della concepibilità
Senza entrare nella disputa specialistica sulle critiche e controcritiche agli argomenti della concepibilità (soprattutto sulla versione modale) dico solo che l’obiezione generale fondamentale a questi argomenti è naturalmente quella sulla legittimità del passaggio tra la concepibilità (e prima ancora l’immaginabilità) e la possibilità (logica prima e reale poi), per non parlare del passaggio dalla possibilità (anche reale) alla realtà di fatto.
Come ammette anche lo studioso dualista A. Lavazza (2008, p. 41,42) “derivare direttamente considerazioni ontologiche (ciò che è possibile) da considerazioni epistemiche (ciò che è concepibile) è controverso dal punto di vista logico e filosofico generale”.
La critica all’argomento a priori di Cartesio venne già formulata fin dalla sua apparizione. Una di queste è quella di A. Arnauld (1612-1694) che afferma che il ragionamento di Cartesio dimostra solamente che io posso acquisire una certa conoscenza di me stesso senza presupporre una conoscenza del corpo, ma questo non implica che la natura corporea non possa esser parte della mia essenza, senza che io lo sappia.
Passando all’argomento dello zombie, il suo punto più critico è quello di determinare quanto sia realistico questo esempio che contempla la figura di quello che chiamiamo zombie. L’argomento dice che, dato che è possibile immaginare  o concepire un simile individuo, allora il fisicalismo è falso. Chiaramente la difficoltà è che si fissa un’implicazione dal concepibile al possibile, sta nel valutare l’effettiva concepibilità e possibilità degli zombie. Va infatti osservato che un soggetto con la sindrome di Cotard non è fisicamente identico a me, e quindi non costituisce ipso facto un esempio effettivo di zombie nel senso richiesto dall’argomento (Gozzano).
Oltre a questo problema principale, ci sarebbero anche altri problemi, come quello del cosidetto “problema della altre menti” e al problema se gli stati coscienti siano efficaci o no sul nostro comportamento (corpo).
Solo per accennare: come sappiamo che le altre persone hanno una mente? Ciò su cui ci basiamo sono le risposte verbali e comportamentali, non certo la possibilità di esperire ciò che gli altri provano in un determinato istante. E ciò potrebbe andare incontro all’obiezione che il significato di zombie non può essere controllato in alcun modo, come quello di quale applicato ad un individuo diverso da me (naturalmente ci possono essere critiche a ciò).
E l’altro problema: gli stati coscienti sono casualmente efficaci o si tratta di epifenomeni, cioè di stati o proprietà mentali che non hanno però alcuna causazione sul corpo? Perché se si accetta l’eventualità dello zombie, che è ricordiamolo un individuo che ha il mio stesso comportamento esterno, allora ne segue che per far ciò che faccio, scrivere di coscienza, parlare, esprimere emozioni (esprimerle, non averle) e via dicendo, non è affatto necessario avere degli stati qualitativi e di coscienza. E quindi l’ipotesi che esistano gli zombi è implicata o compatibile con l’idea che gli stati coscienti non abbiano alcun effetto sui nostri comportamenti fisici e i nostri stati cerebrali. Infatti, se avessero un qualche effetto causale allora il mio gemello zombie mostrerebbe, prima o poi, un comportamento divergente da mio. E allora i difensori dell’importanza dei qualia starebbero rendendo plausibile l’epifenomenismo (che non è certo un punto a favore per chi difende l’importanza della coscienza).
Possiamo accennare anche a qualche critica all’argomento delle inversioni. L‘originario esperimento di pensiero di Locke che suggeriva l’impossibilità di distinguere un soggetto le cui sensazioni cromatiche fossero invertite rispetto alle nostre, concludeva al problema della compatibilità di una eventuale inversione qualitativa con la tesi naturalistica sulla coscienza. Come per il caso degli zombie, due individui che presentassero inversione qualitativa pur avendo le medesime proprietà fisiche o biologiche, dunque naturali, mostrerebbero l’insufficienza  delle spiegazioni naturalistiche a cogliere le differenze fenomenologiche della coscienza.
Ora, per esempio, A. Byrne (2008) nota che i tentativi di interpretare in termini empirici un’inversione cromatica debbono essere però considerati fallimentari: non esiste un perfetto isomorfismo nella rappresentazione qualitativa di una scena cromatica  quando si opera una qualsivoglia inversione, tra le varie possibili, della medesima scena. Come hanno anche messo in evidenza Hilbert e Kalderon (2000) qualsiasi spettro è  qualitativamente asimmetrico, rendendo impossibile una inversione perfetta. Essi infatti notano che le tre proprietà sulle quali si definisce ciascun singolo colore – luminanza, saturazione e tonalità –possono essere invertite in modi diversi, nessuno dei quali produce i risultati auspicati dall’esempio (Gozzano, 2009, p. 97-98). 

Critiche all’argomento della conoscenza (e allo iato esplicativo)
Quali sono gli argomenti contrari ai qualia, alla coscienza fenomenica?
Ci sono studiosi che addirittura negano l’esistenza dei qualia, mentre altri li interpretano in senso fisicalistico.
L’accesso privilegiato ai nostri stati mentali è rigettato da vari studiosi. Un primo modo di criticarlo è indiretto e consiste nella delegittimazione del concetto di coscienza come vago, confuso ed eterogeneo. Tutta la tradizione psicologica, da Freud in poi, mostra come i giudizi introspettivi siano spesso prodotti da confabulazioni. È la critica mossa anche da Dennett, secondo il quale, molte volte, le persone inventano letteralmente i propri stati mentali per spiegare il proprio comportamento in modi attesi o accettabili, quindi tutti i resoconti in prima persona possono essere trattati come utili finzioni.
Ma approfondiamo (sinteticamente, rifacendoci a Di Francesco 2002, p. 215-217) le critiche del noto filosofo della mente Dennett. Egli ha scritto sui qualia: “Nego che tali proprietà esistano. Ma […] concedo di tutto cuore che sembra che i qualia esistano” (1991). Dennett ha oscillato tra l’eliminativismo (che nega l’esistenza dei qualia) e una posizione che, non negando la legittimità di parlare di stati di coscienza (che sono realizzati da complesse attività cerebrali) nega però che tali stati possiedano un carattere qualitativo, inteso come il possesso di qualità intrinseche e non rappresentazionali. La sua idea è di smettere di tentare di spiegare i qualia e di limitarsi a farli fuori, non riducendoli a qualcosa d’altro, ma trattandoli come vere e proprie illusioni. La negazione dei qualia è del resto essenziale per la teoria funzionalistica di Dennett, che afferma che il nostro io fenomenologico di fatto è solo un’astrazione cui non corrisponde nulla di reale (in seguito, quando parlerò del problema dell’interazione anima-corpo, tratterò della teoria funzionalistica). Secondo Dennett chi postula i qualia si basa sull’idea che gli stati qualitativi devono essere qualcosa, ma ritenendo che la scienza abbia mostrato che essi non possono essere oggetti esterni (non vi sono colori nel mondo, ma solo radiazioni elettromagnetiche), allora ne deduce che siano oggetti interni, entità non fisiche albergate nella nostra mente.
L’attacco di Dennett ai qualia si basa su una sapiente misura di delegittimazione dei resoconti introspettivi, critica delle concezioni ingenue di cosa siano i colori, i suoni, ecc., spiegazione (spesso in termini evoluzionistici) dell’apparente “ineffabilità” e refrattarietà alle definizioni delle qualità secondarie, messe in ridicolo dall’esistenza di cose come il modo in cui una cantata inedita di Bach sarebbe stata vissuta dagli abitanti di Lipsia nel 1725; ma soprattutto si incentra sulla critica alla possibilità di un riferimento a opera del soggetto a un suo stato qualitativo privato e incomunicabile.
Per Dennett i qualia non hanno altro ruolo che quello di segnalare “un complesso di disposizioni”. Secondo questa impostazione, cerca di mostrare come una serie di esperimenti mentali volti a dimostrare la differenza tra stati qualitativi ed eventi cerebrali si basino su “differenze impossibili da rilevare”, implichino l’impossibilità di una “comparazione intersoggettiva dei qualia”.
Ovviamente la visione del linguaggio a cui fa appello, per quanto autorevole, non è l’unica possibile. Comunque si voglia valutare la strategia di Dennett, il suo esito è quello del riduzionismo eliminativo rispetto ai qualia .
Anche sullo specifico “esperimento mentale di Mary” si sono fatte diverse critiche.
Esso, nelle intenzioni di Jackson, mirerebbe a mostrare come esistano delle “cose”, degli aspetti dell’esperienza, che non sono descrivibili in termini fisici. La condanna del fisicalismo è radicale: la somma totale di tutto quello che può dirsi del cervello (funzionamento, evoluzione, natura) non potrà evitare di trascurare (e quindi lasciare inspiegati) la pruriginosità del prurito, le fitte di gelosia, il gusto del limone, l’odore di una rosa.
L’argomentazione di Jackson è molto efficace sul piano intuitivo, ma può essere criticata.
Dennett (1991) la definisce un cattivo esperimento mentale, generato dalla sindrome dei filosofi: scambiare una carenza dell’immaginazione per l’intuizione di una necessità. Per lui immaginare il possesso da parte di Mary di tutte le informazioni fisiche rilevanti è un progetto così ridicolmente immenso che nemmeno ci si può provare. Se Mary sapesse davvero tutto sulla neurofisiologia, allora saprebbe anche quali sarebbero le proprie reazioni nel caso di ogni particolare configurazione fisica assunta dal suo cervello in presenza di un dato odore.
            Una delle varie strategie dei fisicalisti è quella di affermare che la soggettività dell’esperienza cosciente non sarebbe altro che una manifestazione del fatto che ciascuno vi si riferisce con il pronome personale “io” (Lycan, 1996; Tye, 1995). Se gli altri possono parlare di me, come del mio comportamento e dei miei pensieri, nessuno però è in grado di comprendere ciò che sto facendo o pensando quando dico: “Sto scrivendo queste frasi”. Ciò è inaccessibile a tutti ad eccezione del soggetto, ma non si tratta di nulla di misterioso: è solo il modo in cui opera il concetto di “io”; costituisce un dato di fatto che ogni soggetto rappresenti la propria esperienza in modo privato.
Oppure i fisicalisti ribattono che Mary, uscendo dalla stanza in bianco e nero, acquisisce soltanto un nuovo modo di comprendere qualcosa che già conosceva.
Recentemente, anche il suo proponente Jackson ha ritirato il sostegno all’argomento. Jackson (2003) ritiene che Mary non apprenda nuove verità; verrebbe qui utilizzato un concetto erroneo di esperienza sensoriale, da sostituire con il rappresentazionalismo, la posizione per cui gli stati fenomenici sono stati rappresentazionali.
Le teorie rappresentazionali, di stampo naturalistico, riconoscono che i fenomeni coscienti altro non sono che stati rappresentazionali: le teorie rappresentazionali del “primo ordine” ritengono che si tratti di rappresentazioni che possiamo usare direttamente nell’azione e che non comportano forme elaborate di pensiero, mentre quelle di “secondo ordine” asseriscono che tali fenomeni presuppongono un sofisticato apparato di riflessioni sui propri stati interiori, che come tale non può che presentarsi in esseri dai pensieri altrettanto sofisticati (per qui e il seguito riassumo Gozzano, 2009, p 100-114).
Nella sua risposta fisicalista, Loar (1990) ragiona come segue: assumiamo che gli stati fenomenici siano in effetti stati fisici. Questi ultimi, tuttavia, possono essere concettualizzati non solo il classico formato proposizionale, tipicamente rappresentato da ciò che è scritto nei libri di Mary, ma anche attraverso forme di esperienza diretta. Avere o fare esperienza, prosegue Loar, comporta una concettualizzazione del tutto particolare, ossia l’uso di specifici “concetti fenomenici”, come li chiama, i quali si riferiscono al carattere qualitativo dell’esperienza e la cui acquisizione implica necessariamente un punto di vista. Tali concetti fenomenici sono quindi di tipo riconoscitivo e operano tramite espressioni indicali (ho provato questa sensazione; vedo quel giallo senape) palesi o implicite. Tuttavia, pur essendo riconoscitivi, si tratta pur sempre di concetti, perché, per loro tramite, possiamo compiere inferenze e ragionamenti di vario genere. Ad esempio possiamo affermare, o insegnare, che se il pesce odora così allora è marcio, se la cartina di tornasole diventa di questo colore allora è stata a contatto con una sostanza basica, e via dicendo.
L’aspetto cruciale della risposta di Loar è che i concetti fenomenici e quelli classici di tipo proposizionale vanno a cogliere la medesima proprietà del mondo, ovvero hanno il medesimo referente, ad esempio il giallo senape, ma lo fanno sotto diversi “modi di presentazione” e quindi del tutto indipendentemente gli uni dagli altri. Quindi Loar riesce sia a dimostrare che il caso di Mary non introduce nessuna nuova proprietà essenzialmente non riducibile alle proprietà fisiche, sia a chiarire che in effetti Mary acquisisce qualcosa di nuovo, ossia un concetto fenomenico legato a un’esperienza, che non potrebbe acquisire se non trovandosi in quella particolare condizione soggettiva nella quale si trova quando esce dalla stanza in bianco e nero. Loar quindi restringe il caso di Mary al solo piano epistemologico anestetizzando qualsivoglia conseguenza ontologica.
Così Loar giudica il gap esplicativo: “Il problema del gap esplicativo origina da un’illusione. Esso è generato dal mancato riconoscimento che possono esserci due modi indipendenti di “cogliere direttamente” una sola essenza. Vale a dire, afferrare l’essenza dimostrativamente esperendola e afferrarla in termini teorici. L’illusione è quella della trasparenza attesa: afferrare direttamente una proprietà dovrebbe metterci in contatto diretto con la sua costituzione fisica e se ciò non avviene allora non c’è costituzione fisica. L’errore sta nel pensare che afferrare direttamente un’essenza sia trasparente, dopotutto un’aspettativa naturale” (Loar 1990, p. 609, cit. in Gozzano 2009, p.108).
[Gozzano presenterebbe ora altre critiche del rappresentazionalismo (soprattutto di ordine superiore) che a giudizio di alcuni autori (Carruther 2000, Shoemaker 1996 e 2003) consentirebbero una risposta diretta ad efficace alle obiezioni di Chalmers sulla compatibilità tra l’approccio fisicista e l’accettazione dei fenomeni coscienti, ma la trattazione diventa troppo tecnica e specialistica e quindi troppo difficile per il sottoscritto, che si limita a rimandare al libro per chi volesse approfondire: Gozzano 2009, pp. 112-114] .
Comunque si valutino queste critiche agli “argomenti della conoscenza” nella direzione del gap esplicativo tra visione fisicistica e gli aspetti fenomenici della coscienza, altri importanti autori – per esempio, Nagel, Searle, McGinn - rimangono convinti che non possiamo ora dare spiegazioni complete, e forse (o probabilmente), non potremmo mai farlo. Nagel e Searle, ritengono che il gap rimarrà tale per via del fatto che, sebbene la natura degli stati qualitativi sia fisica, essi nondimeno, dato il loro carattere soggettivo, non saranno mai afferrabili entro i canoni scientifici dell’oggettività.
Si noti però che l’appello al mistero non implica per Nagel e per altri antiriduzionisti dei qualia, alcun connotato mistico: esso sarebbe anzi compatibile con l’immagine scientifica del mondo, la quale riconosce e prevede che qualunque specie naturale abbia delle capacità e dei limiti cognitivi intrinseci: dice Nagel che noi uomini “rimaniamo parti del mondo, con un accesso limitato alla natura reale del resto di esso e di noi stessi” e “non c’è modo di dire quanta realtà si estenda oltre la portata dell’oggettività presente e futura, o di qualsiasi altra forma di comprensione umana” (1986). Secondo McGinn (1991), convinto che sulla coscienza ignoramus et ignorabimus, sebbene la natura del gap sia solo epistemologica, per colmarla occorrerebbe una rivoluzione concettuale la cui portata è al di là delle nostre portate cognitive. Quindi il mistero della coscienza è destinato a rimanere tale sebbene in ultima analisi non si tratti che di proprietà fisiche.  

La possibile illusione del libero arbitrio
Non espongo qui tutte le critiche che un materialista opporrebbe alla convinzione del libero arbitrio. Dico solo che il determinista ritiene che la mente abbia una natura totalmente fisica, che operi in accordo con le leggi causali che regolano la materia fisica, e così questo significa che ogni stato attuale del cervello è causato da stati anteriori. In questo modo la mente opera come ogni altro organo del corpo, come il cuore per esempio. Il determinista ritiene che le azioni dell’uomo non siano veramente libere, ovvero che esista un processo causale che porti necessariamente a fare certe azioni, con il risultato che la credenza e la sensazione che abbiamo di essere liberi sono un’illusione e un errore.  Quando, per esempio, pensiamo a che cosa mangiare per pranzo, il determinista ritiene che la nostra “scelta” tra il pollo e il vitello sia di fatto causata, con il risultato che quello che noi facciamo è il termine di un processo causale. Possiamo pensare di fare una scelta libera e ovviamente crediamo di essere liberi, ma in realtà non lo siamo. Il determinista non pretende di sapere come funziona questo processo che è enormemente sofisticato e complesso, ma scoprire questo funzionamento diviene per lui un programma di ricerca futuro.  

La difficoltà dell’interazione mente-corpo
Come afferma Di Francesco “oggi pochi filosofi si definirebbero dualisti in questo senso così forte [cartesiano]. E con solide ragioni. La principale, com’è noto, è la difficoltà di ipotizzare una qualche interrelazione tra sostanze ontologicamente differenti come la res cogitans e la res extensa […]”(prefazione a Lavazza 2008, p. IX). Secondo il dualismo proprio, nell’esistenza mortale la persona è composta di due sostanze strettamente collegate. Il problema deriva dal modo di questa “unità”, e massimamente, dalle modalità di interazione tra mente e corpo. Secondo Cartesio, si tratta di un’esperienza quotidiana, una semplice constatazione, “come quando, dal solo fatto che vogliamo camminare, segue che le nostre gambe si muovano”.  Invece si tratterebbe di un’aporia difficilmente colmabile.
Già a Cartesio era stato chiesto da Elisabetta di Boemia “come l’anima dell’uomo può determinare gli spiriti del corpo per le azioni volontarie”, dato che sembrano necessari contatto ed estensione per propagare il moto; e si potrebbe aggiungere, come può la mente ricevere sensazioni corporee? Cartesio aveva risposto che non è dimostrabile l’impossibilità dell’azione reciproca tra sostanze distinte e che esiste una “terza nozione” primitiva di unione tra esse, tale da consentirne la congiunzione e l’interazione, quella della ghiandola pineale (l’epifisi), che, posta al centro del cervello, per le caratteristiche di mollezza e di facilità ad essere “inclinata”, può disporre gli spiriti animali (cioè gli elementi che portano informazione e movimento nei canali del sistema nervoso) ad andare in una direzione piuttosto che in un’altra.
 Ma già Hobbes obietterà che il moto non può provenire che dal moto e postulare leggi psico-fisiche non chiarisce il mistero.
Il problema dell’interazionismo consiste nello spiegare in che senso gli stati mentali (cedenze, desideri, intenzioni) risultino efficaci casualmente, ovvero siano in grado di “fare la differenza” anche nel mondo fisico. Si può infatti sostenere che ciò che non ha potere causale non serva ad alcuno scopo o che addirittura non sia reale.
Cerchiamo di approfondire la questione (rifacendomi ampiamente a Ferber, 2009). Questa interazione di corpo e coscienza, di soma e psiche è una vecchia esperienza dell’umanità e accessibile a ognuno. Un piede slogato per esempio può causare dolore. Il dolore è qualcosa di psichico. Allo stesso modo la coscienza dell’uomo può essere alterata a causa di un’azione esterna, come medicine, droghe o lesioni al cervello. Ma anche la coscienza può agire sul corpo. Abbiamo percezioni psichiche, come percezioni di dolore, di fame, di sete, che mi possono indurre ad andare dal dentista, o a mangiare un pezzo di pane, o a bere un sorso d’acqua. Già la mia volontà di piegare o distendere un mignolo può piegarlo o distenderlo. Inoltre, come è noto, molte malattie sono causate dalla psiche o sono di natura psicosomatica.
Il problema è capire come questo accade se supponiamo che corpo e anima siano due sostanze diverse.
Come può infatti la mia volontà fare in modo che io mi muova  e faccia quindi un lavoro fisico e abbia energia cinetica? Poiché l’atto di volontà stesso è un fenomeno della coscienza e perciò per Cartesio ha dimensione ed energia zero, questa energia non può provenire dall’atto di volontà. L’energia non può essere né generata né annullata all’improvviso, ma può essere soltanto trasferita da una forma all’altra, per esempio dal moto al calore. Ora però non si può attribuire alla coscienza né moto né calore, cioè appunto energia: infatti come potrebbe avere energia la mia coscienza inestesa?
Come un puro spirito, per esempio, un angelo, non può guidare un’auto, così un fenomeno non-fisico non può comportarsi come causa di un fenomeno fisico. Anzi, l’ambito delle azioni fisiche è chiuso dal punto di vista causale. Vale a dire che nessun effetto fisico può avere una causa che non sia essa stessa fisica. Si tratta del problema della causalità mentale: la natura e la possibilità della causa mentale, cioè la possibilità degli stati mentali di essere considerati cause genuine del comportamento degli agenti cognitivi e dei soggetti umani in particolare. Il problema nasce dalla difficoltà di conciliare l’efficacia causale degli stati mentali con la visione del mondo elaborata a partire dalla scienza moderna, secondo cui soltanto le leggi della fisica sono responsabili dei mutamenti che avvengono nell’ordine naturale. Il problema della causalità mentale deriva dal fatto che, essendo gli agenti cognitivi parti del mondo naturale, secondo la tesi della chiusura causale, le cause del loro comportamento devono essere descritte in termini fisici.
Tuttavia a quanto pare anche dei fenomeni non-fisici, cioè psichici, come la mia volontà, possono agire sul mio corpo e sul mio comportamento e perciò produrre un cambiamento nel mondo fisico.
Ma allora: come si può spiegare l’interazione tra lo psichico e il fisico nonostante la chiusura del mondo fisico dal punto di vista causale? O ancora, detto con un’immagine: come può un angelo guidare un’auto?
Come già detto, Cartesio aveva indicato nell’epifisi il luogo dove la coscienza o l’anima poteva agire sul corpo: immaginava che ci fossero degli “spiriti animali” che si muovevano atrraverso la ghiandola. E che facessero da tramite tra anima e corpo. Ma rimarrebbe il mistero di come la volontà immateriale possa influire sugli spiriti animali materiali, affinchè questi si muovano: la coscienza non può dare un urto alla ghiandola pineale per muovere con esso gli “spiriti”.
Un tentativo odierno di interazionismo è del neurofisiologo J. Eccles (1903-1997), dualista e interazionista, cioè sostiene sia il dualismo di cervello e coscienza sia la loro interazione. Eccles considera la mente analoga o identica a un “campo probabilistico” della fisica, cioè quel concetto definito dalla distribuzione di una certa quantità fisica, come la temperatura, la densità della massa, l’energia potenziale su diversi punti dello spazio. Ora, (tralasciando tutta la descrizione tecnica), se la mente umana è analoga al campo probabilistico, come può essa produrre i cambiamenti di probabilità nei processi del cervello? E se invece la mente umana fosse il campo probabilstico, come può possedere la prospettiva in prima persona e l’intenzionalità?
Non si può non rimproverare a Cartesio e ad Eccles che da una parte introducono la mente come una causa immateriale, dall’altra però, spiegano il movimento del corpo umano con cause materiali o fisiche, cioè gli “spiriti animali”  da un lato, o il “campo probabilistico” dall’altro.
Lasciano ancora senza risposta la questione di come la mente possa influenzare il corpo, e viceversa.
Per le posizioni materialistiche invece non ci sono questi problemi (o sono più ridotti).
Se partiamo dal materialismo classico, dobbiamo menzionare innanzitutto Democrito, secondo cui l’uomo è nient’altro che un’aggregazione di atomi, e quindi neanche l’anima o la mente sono qualcosa di immateriale, ma di materiale. Nell’età moderna ricordiamo La Mettrie (1709-51) secondo cui l’uomo consiste soltanto di materia e il pensiero, o la coscienza, sembra essere una proprietà della materia. A differenza di Cartesio, dal fatto che la coscienza dipende dal corpo egli non solo trae la conclusione che il corpo esercita un’azione sulla coscienza, ma anche che la coscienza è una proprietà del corpo. Il suo è un materialismo riduzionista e monista. Per lui “l’uomo è una macchina, e in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente modificata”: la materia si trova in forma inanimata, animata e cosciente.
In epoca attuale hanno riproposto questo materialismo riduzionista i fondatori del materialismo australiano J.J. Smart (1920) e U.T. Place (1924-2000). Come il fulmine è una scarica elettrica, così, secondo Smart, un processo di coscienza consiste in un processo cerebrale. Secondo lui l’uomo si compone “di un’enorme organizzazione di particelle fisiche”, ma non ci sono “oltre a ciò anche sensazioni o stati di coscienza”. Anche il filosofo D. Lewis (1941-2001) è dell’idea che “il mondo è come la fisica dice che è, e non c’è nient’altro da dire”, ovvero non c’è nient’altro da aggiungere a quel che dice la fisica sull’uomo. Anche il materialismo biologico di Searle sostiene un’ipotesi affine, che però coinvolge esplicitamente la biologia: “La coscienza è una proprietà di sistema causalmente emergente. In particolare, è un a ‘proprietà emergente’ di determinati sistemi di neuroni nello stesso senso in cui solidità e liquidità sono ‘proprietà emergenti’ dei sistemi di certe molecole” (1994). Per questi materialismi non compare il problema dell’interazione anima – corpo, perché la coscienza stessa è qualcosa di materiale o una proprietà della materia. Tuttavia neanche il materialismo può spiegare quale parte del cervello sia la portatrice della “materia della coscienza”: Searle dice che “Il senso del mistero deriva piuttosto dal fatto che, attualmente, non soltanto non sappiamo come il cervello funziona, ma non abbiamo nemmeno una idea chiara  di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza” (1998). Un angelo potrebbe dunque guidare un’auto, perché egli stesso non è un essere spirituale, anche se oggi non comprendiamo ancora i “particolari” dell’interazione.
Una nuova versione del materialismo è il comportamentismo logico o filosofico, di cui uno dei principali esponenti è stato G. Ryle (1900- 76). Per Ryle dal concetto cartesiano di spirito si è fatto un mito che si è consolidato in un dogma, “il dogma dello spettro nella macchina”. Dall’attività di fenomeni psichici inferiamo dunque erroneamente l’esistenza di uno spirito nella nostra “macchina”, allo stesso modo che il contadino, a causa del chiasso nella sua camera, di cui non conosce le cause, suppone l’esistenza di un fantasma. Perciò, secondo Ryle, sarebbe un errore categoriale dire che la coscienza sia una cosa, anche se questa non fosse una cosa estesa, ma una cosa pensante: “parlare della mente di qualcuno è come parlare delle sue abilità, tendenze  e inclinazioni a fare o subire certi tipi di azioni”. Quindi le frasi su fatti psichici non trattano di cose presenti in un luogo, per esempio di “cose nella testa”, ma si possono tradurre in frasi su disposizioni, cioè inclinazioni o tendenze. Se conosciamo perfettamente una lingua straniera, per esempio il francese, non vuol dire anche che parleremo sempre il francese. Significa solo che, ove sia necessario, possiamo parlare francese. Perciò le frasi sugli stati di coscienza, a un’analisi logica, si rivelano come frasi che non affermano singoli fatti, ma indicano certe tendenze del comportamento del corpo umano. Ora, secondo Ryle, il comportamentismo logico risolve il problema corpo-anima: se il problema corpo-anima si può interpretare come distinzione di tipi tra disposizioni e attività, allora scompare il mitico conflitto. Un angelo, cioè per Ryle, uno spettro, può dunque guidare un’auto, perché, secondo l’analisi logica delle frasi nelle quali parliamo di lui, egli non è un essere spirituale non osservabile, ma la disposizione di un auto a viaggiare.
Altra versione del materialismo è il materialismo funzionalistico o funzionalismo.  Fu fondato dai filosofi W. Sellars (1912-89) e H. Putnam (1926). Per il funzionalismo gli stati di coscienza non sono qualcosa di immediatamente dato. Il loro darsi immediato è piuttosto un mito, il “mito del dato”. Gli stati di coscienza nascono solo per il fatto che oggettiviamo i significati  delle parole con le quali esprimiamo le impressioni sensoriali, e poi diamo a questi significati oggettivati il nome di “stati di coscienza”. Perciò per il funzionalismo gli stati di coscienza non hanno una esistenza reale ma solo semantica: sono cioè i significati oggettivati delle parole con le quali designiamo i nostri stati di coscienza. La nostra coscienza non consiste in nient’altro che nel calcolare con i significati di simboli linguistici. Al tempo stesso attribuiamo a questi significati un ruolo funzionale. A partire dal saggio di Putnam, Menti e macchine (1960), il funzionalismo impiega volentieri anche il paragone con un calcolatore. Gli stati di coscienza sarebbero quindi il software o il programma, mentre gli stati fisici sarebbero l’hardware con cui il programma viene fisicamente realizzato. Ora, come l’hardware di un calcolatore mette in moto il software col trasferimento di energia fisica, così il corpo produce gli stati di coscienza col trasferimento di energia fisica. Inoltre come il software di un calcolatore può essere realizzato in un hardware diverso (per esempio in uno meccanico o uno elettrico), così noi, riguardo alla nostra “composizione” siamo plastici, potremmo anche consistere di un “materiale” totalmente diverso, perché per il funzionalismo, la nostra coscienza rappresenta soltanto una determinata forma che non è legata ad alcuna materia specifica , similmente ad Aristotele. Per Aristotele l’anima non è una sostanza ontologicamente separata dal corpo, ma né è la forma, ciò che permette alla materia del corpo vivente di esercitare quei caratteri che lo rendono tale, rendono animato un corpo. Avere un’anima significa essere un organismo biologico in grado di svolgere le proprie funzioni vitali. Contro Platone con la sua idea di anima e corpo separati, Aristotele dice che l’anima è impossibile che preesista a o sopravviva al corpo; essa non è il genere di cosa che esiste indipendentemente: come potrebbero sopravvivermi le mie abilità, il mio temperamento, il mio carattere? La posizione di Aristotele concepisce la mente in termini di capacità piuttosto che di entità.
Così il funzionalismo risponde alla domanda decisiva del problema corpo-anima sull’interazione tra il mondo psichico e il mondo fisico. Gli stati di coscienza infatti non sono nient’altro che un software realizzato fisicamente in un hardware, per cui non si pone il problema di come sia possibile una causazione mentale, poiché si tratta di una trasmissione di energia fisica. La coscienza e i suoi qualia non sono né identici agli stati cerebrali, né possono ridursi a una disposizione del corpo. Essi hanno piuttosto una propria specie di esistenza, sebbene non reale, ma semantica. Un angelo dunque può guidare un’auto, perché egli può essere concepito come un “oggetto” semantico o come un “programma-software” che guida un’auto.
Anche per il monismo anomalo del filosofo americano di D. Davidson i fenomeni fisici sono identici a quelli fisici, anche se le parole che usiamo per descrivere i fenomeni psichici non sono riducibili al vocabolario della neurofisiologia o della fisica.
Se diciamo che i fenomeni psichici stanno in interazione con quelli fisici, allora devono esserci leggi rigorose che collegano tra di loro i fenomeni psichici e fisici, leggi che riferiscono l’uno all’altro come causa ed effetto i due fenomeni. Ora da tali leggi si devono poter trarre precise previsioni in modo che i fenomeni psichici si possano esattamente prevedere mediante quelli fisici. Ma per Davidson, non vi sono leggi psicofisiche rigorose, cioè leggi che descrivano precisamente, esplicitamente e il più possibile senza eccezioni l’interazione tra fenomeni psichici e fisici. Parimenti non c’è una legge per cui un certo dolore psichico comporta sempre una certe specie di emicrania  o viceversa. Soltanto le leggi fisiche possono valere precisamente, esplicitamente e in tutti i punti spaziali e temporali, anche se queste leggi, come nella meccanica quantistica, sono di natura statistica. I fenomeni psichici, come per esempio i dolori, non appartengono alle specie naturali le cui proprietà, come le proprietà di tali specie, per esempio il colore verde degli smeraldi, possono proiettarsi nel futuro. Ma senza tali progetti proiettabili non si possono formulare precisi enunciati di legge, ma solo vaghi enunciati di regolarità. Perciò l’affermata interazione tra fenomeni fisici e psichici non può essere descritta precisamente mediante leggi psicofisiche, ma soltanto mediante leggi fisiche. Ciò significa che noi descriviamo fisicamente i fenomeni psichici. Ne consegue per Davidson che il fenomeno psichico diventa fisico.
Davidson sostiene un monismo, ma non un monismo sostanziale, quanto piuttosto un monismo della spiegazione, secondo cui il mondo è spiegabile soltanto con le leggi fisiche. Questo monismo però è un monismo anomalo, in quanto contrariamente al monismo materialistico, contesta la possibilità di leggi psicofisiche rigorose.  I fenomeni psichici sono certamente identici a quelli fisici, però visti alla luce di un’altra descrizione. Per comprendere il loro carattere anomalo Davidson ha coniato il concetto della sopravvenienza dello psichico sul fisico: “sebbene neghi l’esistenza di leggi psicofisiche, […] le caratteristiche mentali sono in un certo senso dipendenti dalle, o sopravvenienti alle, caratteristiche fisiche. Questa sopravvenienza può essere così intesa: non ci possono essere due eventi simili sotto tutti gli aspetti, ma differenti per qualche aspetto mentale; oppure: un oggetto non può cambiare in qualche aspetto mentale senza cambiare in qualche aspetto fisico. Questa specie di dipendenza o sopravvenienza non comporta la riducibilità mediante una legge o una definizione”.
In altre parole ciò significa: poiché non ci sono leggi psicofisiche rigorose, non c’è neppure una scienza esatta della mente. Il concetto di sopravvenienza dei fenomeni psichici su quelli fisici esprime sia la dipendenza dei fenomeni psichici da quelli fisici, che la loro eccedenza rispetto ad essi (eccedenza concettuale a quelli fisici, poiché non si possono ricondurre a quelli fisici). Nonostante l’identità o l’unità dello psichico con il fisico per i monisti anomali lo psichico viene concepito in modo inevitabilmente diverso dal fisico. Secondo il monismo anomalo, dunque, un angelo è identico a un essere fisico e come essere fisico può anche guidare un auto. Però il nostro linguaggio mentalistico descrive l’angelo in un modo che è “eccedente” rispetto al linguaggio fisico e neurofisiologico.
In conclusione, è vero che sono stati compiuti tentativi da parte dei dualisti di risolvere o, meglio, ridimensionare il problema dell’interazione anima-corpo – per esempio dicendo che è anche vero che non comprendiamo nemmeno come i processi casuali operino tra oggetti fisici, o chiedendo perché non potrebbero interagire cose che si trovano in regni metafisicamente diversi, oppure facendo ricorso alla teoria quantistica contemporanea (che ha svelato un mondo in cui si hanno azioni a distanza e altre connessioni causali apparentemente “devianti”), ecc. – ma tale problema rimane ed è una delle pietre d’inciampo per il dualismo. Anche il noto dualista Swinburne non fa che confermare tale problematicità quando afferma che “l’interazionismo è un fatto evidente, che accade continuamente, ma noi non siamo onniscienti e non sappiamo spiegarlo” (in A. Lavazza 2008, p. 56). 

Il problema della (in)dipendenza della mente(anima) dal cervello
Oltre al problema dell’interazione mente-cervello c’è anche il problema della dipendenza della mente dal cervello e dai suoi stati. La mente ha bisogno del cervello per l’informazione sul mondo fisico nonché come canale per agire sul corpo e quindi sulla realtà esterna. La ricerca neuroscientifica mette in evidenza con sempre maggior precisione la correlazione empirica tra stati cerebrali e funzioni mentali. Droghe e farmaci, il sonno, patologie e lesioni, manipolazioni di vario tipo (ipnosi e stimolazione magnetica transcranica) alterano sia la fenomenologia del soggetto sia le sue manifestazioni esteriori. E una serie di evidenze cliniche indica in modo sempre più dettagliato le perdite parziali o gli apparenti mutamenti di identità personale che discendono da malfunzionamenti di specifiche aree cerebrali. Una volta che tale dipendenza di mente-cervello viene precisata minuziosamente, diventa sempre più difficile mantenere l’indipendenza della mente dal cervello e dal corpo, indipendenza che costituisce l’elemento distintivo della posizione cartesiana. La mente è “la cosa che pensa”, e forse è così, ma sembra che lo sia soltanto quando è sostenuta in modo assai complesso dai processi cerebrali.
Naturalmente il dualista dirà che il cervello è necessario ma non sufficiente affinchè si dia un soggetto con le proprietà mentali-fenomeniche peculiari della coscienza. Ma la sfida del naturalismo è proprio di eliminare la differenza tra il piano empirico e quello filosofico.
Si dice che, se il dualismo è vero, l’anima dovrebbe essere in grado di esistere per conto suo e avere una vita mentale senza l’aiuto del corpo. Tuttavia, come dice il filosofo T. Nagel, una vita dopo la morte potrebbe essere possibile se il dualismo fosse vero, perché potrebbe anche non essere possibile, poichè la sopravvivenza dell’anima, e il permanere della sua coscienza, potrebbero dipendere interamente dal sostegno e dalla stimolazione che essa ricava dal corpo in cui è alloggiata. Quindi, anche se l’anima esistesse, non è detto che sia immortale, e potrebbe perire con la morte del corpo.  

Il problema del rapporto tra evoluzione e anima
Un’ulteriore punto controverso riguarda il rapporto tra l’evoluzione biologica e il concetto di anima. Se si accetta che l’uomo, in quanto essere vivente, proviene da un unico progenitore unicellulare, dal quale si è differenziato grazie al processo biologico darwiniano di mutazione e adattamento, si pone l’interrogativo sul modo in cui l’elemento mentale ha fatto la sua comparsa nella storia evolutiva della specie homo sapiens sapiens. Solo l’emergenza della proprietà mentale sembra immediatamente compatibile con la storia naturale, mentre il dualismo cartesiano deve fare i conti con il problema della differente origine delle diverse sostanze.
Resta infatti un enigma il modo in cui le anime create in forma speciale (e individuale) dovrebbero adattarsi alla storia evoluzionistica. Dopo che un organismo di nuovo tipo si è evoluto, Dio crea per esso un’anima con facoltà potenziate in modo da pareggiare lo sviluppo fisico dell’organismo? O le anime di nuovo modello vengono prima e svolgono un ruolo nello sviluppo fisico dell’organismo? Nessuna prospettiva sembra particolarmente attraente o plausibile.
E poi il problema per i dualisti è anche quella di specificare quali tra le altre creature oltre l’uomo, se ve ne sono, da quelle più “basse” a quelle più “alte” nella progressione dell’evoluzione – dai batteri, agli insetti, alle piovre, ai cani, alle scimmie – possiederebbero anime immateriali. Sfortunatamente sembra che qualunque risposta suoni implausibile o imbarazzante. Per Cartesio solo gli uomini avevano l’anima, non gli animali, perché non vi sarebbe ragione di crederlo per qualche animale piuttosto che per tutti. Ma tale ipotesi oggi ha pochi difensori. Ma anche attribuire le anime solo agli animali “superiori” – diciamo i mammiferi e gli uccelli – suona arbitrario.  D’altra parte, più si scende lungo la scala degli esseri viventi, e meno il quadro diventa credibile (si dovrebbe pensare che Dio crei anime individuali per vermi e parassiti intestinali). 

CONCLUSIONI SUL DUALISMO
Considerate le diversissime opinioni degli esperti sulla questione dell’esistenza indipendente dell’anima-mente (o coscienza) non è facile trarre delle conclusioni ponderate su questo argomento.
Si può senz’altro dire che finora, tutti i tentativi di spiegare la coscienza, con le sue caratteristiche peculiari (privatezza, soggettività, qualia, ecc.) in termini scientifici, lasciano insoddisfatti, non sono completi. D’altra parte, anche una concezione dell’anima-coscienza come indipendente dal corpo (cervello) va incontro a numerosi problemi.
Forse in futuro sapremo spiegare in modo più completo la coscienza (in termini scientifici o comunque razionali), ma per ora siamo lontani da questo traguardo. Per ora la coscienza rimane ancora un mistero, che potrà essere risolto dall’uomo o forse no, e risolto in senso naturalistico oppure spirituale. Quale sia l’ipotesi più plausibile, per un profano come il sottoscritto, non è dato saperlo. Mi limito a concludere che rimane ancora possibile, anche se certamente problematica, una spiegazione metafisica o spirituale dell’anima. 

Quindi se pensiamo che “io sopravviverò alla  morte se e solo se la mia anima sopravviverà alla morte”(A), questa convinzione dipenderà dalla verità o meno del dualismo. Se il dualismo è vero, l’anima potrebbe essere in grado di esistere per conto suo e avere una vita mentale senza l’aiuto del corpo. Ma se il dualismo non è vero, e i processi mentali si verificano nel cervello e sono interamente dipendenti dal funzionamento biologico del cervello e del resto dell’organismo, allora la vita dopo la morte del corpo non è possibile, oppure richiederebbe la restaurazione della vita fisica (come avverrebbe nella risurrezione).
            Ma c’è un’altra possibilità. Alcuni filosofi hanno rifiutato di pensare alla sopravvivenza solo in termini di sopravvivenza dell’”anima”, perché secondo loro la mia sopravvivenza consiste, in ultima analisi, nella sopravvivenza di “informazione”, piuttosto che nella sopravvivenza dell’anima in cui quell’informazione è immagazzinata. Questi filosofi fanno riferimento alla sopravvivenza del mio software, anziché alla sopravvivenza del mio hardware (materiale o immateriale che sia). Questi direbbero alternativamente ad A: “sopravviverò alla morte se i miei stati mentali ante-mortem sono continui con gli stati mentali di una persona esistente dopo la mia morte” (B). Il filosofo J. Hick parla di trasferimento di informazione. Se la sopravvivenza dell’informazione immagazzinata nel mio cervello basta per la mia sopravvivenza, che ragione c’è per supporre che Dio non farà in modo che io sopravviva alla mia morte, mediante la ricollocazione di quella informazione in un altro cervello o in un altro “supporto” (materiale o immateriale)? Anche il teologo C. Molari ritiene che se la nostra identità corrisponde ad una determinata struttura cerebrale, la rete di connessioni sinaptiche, essa potrebbe essere “registrata” o trasferita su un supporto non umano e consegnate all’eternità: si avrebbe così una vera e propria immortalità dell’“io”.
Un altro problema sull’immortalità dell’anima, e quindi sull’esistenza indipendente dell’anima, è quello di sapere che tipo di vita sarebbe quella di un’anima senza sostrato fisico.
Come possiamo immaginarci una esistenza incorporea?
J. Hospers ci invita ad immaginare un’esistenza solo mentale, eliminando del tutto il corpo. Una notte andate a dormire, alcune ore dopo vi svegliate, vedete il sole penetrare dalla finestra, l’orologio fa le otto, c’è lo specchio dall’altra parte della stanza, e vi domandate cosa farete oggi. Ancora a letto, guardate in basso per vedere dov’è il vostro corpo, ma non c’è più. Coperte e lenzuola sono lì, ma sotto non c’è alcun corpo. Sbigottiti, guardate lo specchio e vedete riflessi il letto, i cuscini, le coperte, ma non il vostro viso, il vostro corpo. Cercate di toccarvi, ma non c’è niente da toccare. Una persona che entrasse in camera non sarebbe in grado di vedervi o toccarvi. Cercate di andare verso lo specchio, ma non avete piedi. Siete in grado di avere le esperienze visive che avreste avvicinandovi allo specchio, ma ovviamente non avendo un corpo, non potete camminare. Siamo così riusciti ad immaginare un’esistenza senza corpo? Non del tutto. Ci sono riferimenti nascosti al corpo anche in questa descrizione. Dite di vedere…con gli occhi? Ma non avete occhi. Guardate verso i piedi del letto… ma come potete guardare in una direzione e poi in un’altra se non avete la testa? Non potete toccare il vostro corpo perché non c’è, e del resto, con cosa lo tocchereste? Avete allungato le dita? Ma ovviamente non avete dita… né mani, né braccia, nient’altro. Vi muovete, o sembrate muovervi, verso lo specchio…ma cos’è ciò che si muove o pare muoversi? Non il vostro corpo, che non avete. Vi avvicinate alle cose, ma con cosa? Con i piedi? Non avete piedi. Insomma, noi ci muoviamo nel mondo usando i cinque sensi, ma se non li abbiamo, cosa possiamo fare o sperimentare o percepire? Resta qualcosa del concetto di esistenza incorporea?
Cartesio credeva di essere una mente, un “nucleo cosciente”. Il corpo è soltanto un rivestimento esterno, sosteneva Agostino, che viene eliminato con la morte. Esistono pensieri, e siccome i pensieri non possono esistere senza un essere pensante, allora esiste un essere pensante. E che cos’è un essere pensante, e come può lui/lei/esso essere distinto da ogni altra cosa? Si può cercare di immaginarlo all’interno, poniamo, di una comunità di altre menti o spiriti? Ma privo di un corpo, come potrebbe tale spirito avere anche la più elementare delle interazioni con il mondo? (Come sarebbe possibile anche solo distinguere lui o lei da esso?). E come potrebbero fare qualcosa queste menti incorporee?
Il problema consiste soltanto nel fatto che siamo abituati a pensarci come aventi un corpo, e non siamo in grado di superare quest’abitudine? È dovuto solo alla nostra scarsa immaginazione a pensare ad alternative forme di vita, magari superiori alla nostra attuale - per esempio come immagini nei sogni, telepaticamente interagenti? Oppure si tratta di problemi concettuali, o logici? Queste domande restano.
Inoltre, c’è il problema se questo tipo di vita incorporea sarebbe o no in continuità con la nostra identità, visto che finchè eravamo in vita c’era un’intima relazione tra i nostri stati mentali e le condizioni corporee. Non pare infatti sia solo una circostanza accidentale della nostra esistenza il fatto che siamo creature dotate di un corpo e un sesso, che usano il linguaggio, leggono, sentono e interagiscono con gli altri. Una vita di anime disincarnate sarebbe un tipo di vita molto diversa da quella che abbiamo ora e non è chiaro come una tale vita potrebbe essere una continuazione di quella che stiamo vivendo. In altre parole, quell’anima incorporea sarò ancora io? Esistono diverse ipotesi speculative per superare tale problema, nessuna del tutto convincente, ma nemmeno del tutto confutabile, pertanto la questione rimane ancora aperta.
Infine, tale eventuale esistenza, sarà significativa per noi? Per esempio B. Croce diceva che noi non abbiamo bisogno di Dio e della trascendenza, perché desideriamo soltanto le cose che abbiamo vissuto in questa vita. Quindi, se subiamo qualche grave lutto e proviamo un dolore pungente, ad esempio, per il bambino o la sposa che abbiamo perduto, in realtà non desideriamo ritrovare il bambino angelicato, o baciare labbra che non baciano. Noi vogliamo il bambino in carne ed ossa, che faceva il birichino con noi; vogliamo la donna che abbiamo amato, ma non la vogliamo trasfigurata o “spirituale” o impercettibile.
Nondimeno, in tutte queste considerazioni sulle presunte caratteristiche di una esistenza incorporea, dobbiamo stare attenti a non trasporre i nostri schemi spazio-temporali umani in un’altra dimensione, trascendente. Certi giudizi sulla vita eterna (dell’anima o del nostro io) sono ingenui e fuorvianti (come, per esempio, la noia che ne deriverebbe), e tradiscono la nostra limitata umana prospettiva spazio temporale. È chiaro che per noi una eventuale vita incorporea (o come vedremo poi, anche corporea) post mortem, rimane qualcosa di irrappresentabile, inafferrabile, indeterminabile, inconoscibile. Lascia quindi aperte tante possibilità, ma anche tante incertezze.  

Un argomento recente per l’immortalità dell’anima è quello proposto dal teologo V. Mancuso (“L’anima e il suo destino”, 2007). Mancuso, partendo dal presupposto che tutto il reale sia energia, e che tutto il cosmo tenda ad una maggior ordine e complessificazione, intende l’anima spirituale dell’uomo come il livello più elevato di ordine dell’energia che noi siamo. Inoltre ritiene che sulla base dell’intrinseca tendenza all’ordine - ordine garantito in ultima analisi da Dio che agisce nel mondo all’interno della natura solo mediante un impersonale principio ordinatore che procede da lui e che a partire dal puntino cosmico del big bang ha portato alla vastità della materia, da questa alla vita, da questa alla complessità dell’intelligenza, e da questa alla vita morale come bene e giustizia – non sia implausibile pensare che l’ultimo e più perfetto degli stadi raggiunti dal cammino cosmico, cioè la vita morale e spirituale che a volte appare negli uomini, possa produrre un’ulteriore forma di vita, in uno stadio superiore dell’essere a noi ignoto, la quale, dopo la morte del corpo, continui a prescindere dal sostrato fisico che l’ha prodotta.
Il problema in questo approccio è quello inerente la plausibilità o meno dell’argomento teleologico, a cui rinvio per la valutazione. Mancuso infatti presuppone la finalità dell’evoluzione fino a questo punto, cioè fino alla coscienza dell’uomo in grado di darsi al bene e alla spiritualità, cosa che può essere ritenuta più o meno plausibile ma in ogni caso non è dimostrabile. Ammesso dunque che fin qui siamo arrivati non solo per caso e necessità, ma per volontà di un Dio che si è servito di un principio ordinatore, occorre poi postulare un ulteriore salto, e cioè che sia possibile e, se è possibile, che si concretizzi, l’ulteriore evoluzione verso una forma di vita spirituale immortale. 

2.     REINCARNAZIONE 

La dottrina della reincarnazione concerne la rinascita dell’anima o dell’”io” in una serie di reincarnazioni, fisiche o soprannaturali, in genere di natura umana o animale (ma talora anche divina, angelica, demoniaca, vegetale o astronomica, cioè associata a sole, luna, stelle). Quindi presuppone generalmente l’implicita concezione della permanenza dell’anima come sostanza (almeno nell’induismo) o comunque del software che registri le informazioni dell’“io”, con tutte le possibilità e i problemi visti precedentemente.
Questa credenza è presente, in una forma o nell’altra, nelle civiltà a livello etnologico e prive di scrittura di ogni parte del mondo, soprattutto nelle culture indigene dell’Australia centrale e dell’Africa occidentale, dove in genere risulta associata col culto degli antenati. Forse quindi tale credenza sorse contemporaneamente alle origini della stessa cultura umana. Ma la dottrina della reincarnazione ebbe particolare sviluppo nell’India antica e in Grecia. In India tale dottrina è strettamente legata all’insegnamento e alla pratica dell’Induismo e del Buddhismo, del Giainismo e alle dottrine Sikh (una sintesi ibrida di Induismo e di Islamismo, fondata nel XV sec dal guru Nanak) e inoltre dal Sufismo (una corrente mistica dell’islamismo). Nell’antica Grecia, l’idea della reincarnazione è associata soprattutto alle tradizioni filosofiche di Pitagora, Empedocle, Platone e Plotino e nel culto misterico di Orfeo. Tale dottrina si incontra ancora in alcune religioni del Vicino Oriente antico, come ad esempio nel culto dei faraoni dell’antico Egitto, negli insegnamenti del manicheismo, e in tempi moderni, nella Teosofia e nella psicologia di pensatori come C.G. Jung.
Anche oggi la reincarnazione è ormai diventata una alternativa importante alla risurrezione cristiana tra coloro che credono in una vita dopo la morte. È importante distinguere però tra la concezione della reincarnazione dell’India e quella che si trova spesso in Occidente.

Nella tradizione induistica tale dottrina esprime l’esperienza della dolorosa sottomissione dell’uomo alla legge cosmica del divenire e del passare di ogni vita. Da tale legge non sono esentati neppure i morti. Neppure la vita felice nell’aldilà (quale ricompensa per una vita terrena buona) è stabile e pure essa può andar perduta a motivo di una nuova morte. Perciò l’anima o l’io deve di nuovo nascere un’altra volta dopo una nuova morte, e così via. Il fine consiste nel diventare prima o poi colui che “non ritorna più”, cioè nel raggiungimento della definitiva liberazione dal ciclo del morire, nascere, perire di nuovo, nascere di nuovo, ecc.. Indissolubilmente legata a tale dottrina vi è l’idea del karma, del legame e del condizionamento esistenti tra le azioni e le loro conseguenze operanti quasi alla stregua di una legge naturale. In altre parole, secondo questa concezione, è in vigore nel mondo una causalità etica della rimunerazione, in quanto ogni azione produce inevitabilmente i propri effetti (positivi o negativi) determinando per es. il carattere personale, la fortuna o la sfortuna, o lo stato sociale di un individuo. Tale karma fa sentire i suoi effetti anche al di là della morte, non permettendo di pervenire alla pace neppure in quella condizione. Solo dopo aver estinto tutto il karma per la via della conoscenza, o dell’azione spassionata, o dell’amore pieno di dedizione per Dio, l’individuo è finalmente liberato dalla connessione tra il fare e le sue conseguenze esistente nel mondo, e il più delle volte sperimentata come dolorosa, perviene alla pace e trova la sospirata stabilità.
Nella versione occidentale invece viene recuperato l’elemento positivo–attivo, cioè la progressione verso la più alta realizzazione. L’idea fondamentale è che se nell’uomo è insito qualcosa di potenzialmente divino, esso deve svilupparsi sul relativo piano, nel tempo e nello spazio, finchè ha realizzato la sua vera natura. Poiché una sola vita umana è generalmente troppo breve ci vuole a questo scopo una serie di vite. In un certo senso la dottrina della migrazione delle anime completa così la dottrina dell’evoluzione, cui aggiunge una dimensione spirituale. Senza negare la dottrina del karma, questa versione occidentale considera che la “legge” non sia tutto e che la dottrina della reincarnazione non deve guardare solo indietro per spiegare la nostra condizione attuale con quello che si è fatto precedentemente, ma guarda anche e soprattutto avanti, al punto in cui spezziamo tutte le catene e diventiamo una sola cosa con la realtà divina.

Ma su che cosa si fonda, o come si giustifica, tale dottrina, e a quali critiche può essere soggetta? Analizziamo gli argomenti più importanti.

 a. il suo carattere “naturale”: la morte umana viene inserita nel ciclo dei naturali “ritmi di oscillazione del vivente”, essa è solo un polo nell’oscillazione avanti e indietro tra le più diverse polarità della vita (inspirare ed espiare, veglia e sonno, giorno e notte, estate e inverno, fioritura e appassimento, bassa e alta marea) e perciò pure la morte deve continuamente fare spazio all’altro polo, cioè alla rinascita. Quindi anche la vita e la morte degli uomini sarebbero solo un caso particolare della legge universale del ritmo naturale (soprattutto delle piante), fatto di vita, di morte e di vita nuova. In altre parole, la natura e la sua ritmica così costante sono elevate a modello anche dell’interpretazione della vita umana. La critica fatta a questa argomentazione è che la morte e la vita umana è sì parte della natura fisica ma anche se ne differenzia quando si considera la persona come unica ed irripetibile, la sua libertà e la sua storia personale: non si banalizza la persona e non la si riduce a un semplice momento del passaggio in seno al tutto dei ritmi naturali della vita? Può “la vita”, l’avanti e indietro della naturale “corrente della vita” assegnare realmente a un essere personale, che è dotato di autocoscienza e di libertà, un senso ultimo e definitivo al di là della sua morte? Una così fatta visione dell’uomo, pur proponendosi, nella sua visione occidentale, come salvifica per l’uomo, in realtà rinuncerebbe alla dignità unica e interscambiabile dell’uomo per vederlo solo come semplice elemento nel tutto di una energia cosmica.

b. spiega l’ingiustizia e il male del mondo: il male presente nel mondo viene fatto risalire ad azioni compiute in precedenti esistenze terrene causanti appunto simili conseguenze negative.  Si soddisfa così il bisogno di una uguaglianza e giustizia assolute, perché ognuno è nel vero senso dell’espressione “artefice del proprio destino”, è autoresponsabile. Pertanto non ci si dovrebbe più spaventare di fronte alle contingenze della vita e della morte poiché la vita presente sta appunto in un continuità necessaria e garantita con vite precedenti e future e tale connessione procede regolarmente e risolutamente verso un punto culminante assoluto di perfezione umana (nella dottrina occidentale). Per altro coloro che vogliono continuare a credere in un Dio personale tale Dio viene completamente sgravato da ogni responsabilità mediante la spiegazione strutturale e quindi non personale del male presente nel mondo. A questo argomento si può obiettare che la dottrina della reincarnazione semplifica troppo il complesso problema dell’autoreponsabilità dell’uomo  in cui convergono predisposizioni ereditarie, necessità ambientali, ecc. facendo risalire in modo monocausale tutti gli eventi attuali alle azioni compiute dai singoli in precedenti esistenze. Si fa peraltro dipendere troppo il destino dell’uomo dalla sua precedente  responsabilità e se ne sottovaluta l’attuale per il decorso della cose e il loro possibile diverso andamento. Inoltre spiegare certe malattie o deformazioni di adulti e soprattutto di bambini in termine di remunerazione per le sue azioni passate sembra una esagerazione ingiustificata. Da ultimo, anche avessimo vissuto una vita o più vite precedenti, non sappiamo se e quanto male avremmo eventualmente commesso ma neanche se e quanto bene avremmo eventualmente commesso, magari da pareggiare il male o addirittura da essere in esubero, tanto da trovarci ora  in credito e poter quindi pretendere, non solo di non dover soffrire, ma anche di essere felici. Quindi il ricorso ad una ipotetica vita precedente non sarebbe per nulla esplicativo riguardo il nostro stato in questa vita.

c. raggiungimento dell’identità: la dottrina della reincarnazione vorrebbe garantire il raggiungimento della nostra identità di fronte alle innumerevoli possibilità di fare esperienze e condurre la nostra vita, possibilità che possono essere sfruttate solo in piccolissima parte. Nella nostra vita dobbiamo continuamente scegliere, cioè anche escludere opportunità per mancanza di tempo o possibilità, ma se noi vivessimo altre vite potremmo allora sfruttare tutte le auspicabili possibilità umane di vita e integrarle così in noi. L’identità dell’uomo, o meglio della sua natura spirituale-eterna, si costituirebbe perciò soltanto nel corso di un processo eterno di esperienze e di apprendimento. Ma anche tale argomento si presta a critiche: se le precedenti forme di esistenza della persona sono del tutto inconsce, come possono servire al ritrovamento della mia identità, che è sempre il risultato di un processo fatto  identificazioni nuove e consapevoli che l’io umano compie qui ed ora di fronte agli stadi passati o anche futuri del suo sviluppo? Solo una apparente eccezione costituiscono quelli che nel corso di una terapia della reincarnazione (vedi punto seguente) devono essere ricondotti in vite precedenti, ma è un fatto problematico se si tratti realmente di vite precedenti quelle di cui si ricorda.

d. sarebbe dimostrabile da dati parapsicologici e terapeutici: i numerosi fenomeni straordinari come per es. il dèjà-vu (“questo l’ho già visto un’altra volta”) o il “ricordo” di tempi remoti o di luoghi lontanissimi, in cui la persona interessata non è mai stata durante la sua vita, o la conoscenza (verificantesi tuttavia raramente) di lingue straniere mai imparate (xenoglossia), o le esperienze della “terapia di riconduzione”, in cui gli individui vengono ricondotti a conoscenze acquisite prima della propria nascita e del concepimento, tutto ciò risulterebbe spiegabile nella maniera più logica, secondo i reincarnazionisti, con la teoria della reincarnazione. Tuttavia questi fenomeni sembrano spiegabili anche in altri modi. Infatti se per es. nella cosidetta terapia della reincarnazione possono essere ripetutamente evocati, mediante la suggestione, determinati racconti e impressioni, e li si possono con successo impiegare come mezzi terapeutici, tuttavia la spiegazione data di queste esternazioni mediante la teoria della reincarnazione (che vede esse come “ricordo” di esistenze prenatali) è un passo ulteriore, che supera chiaramente il campo dell’empiricamente sperimentabile e dimostrabile. Pure i rappresentanti seri di una terapia della reincarnazione  (per es. T. Dethlefsen e B. Weiss) o della ricerca psicologica di ricordi spontanei dei bambini (ad es. I. Stevenson) sono molto prudenti  quando si tratta di affermare che i loro risultati proverebbero in misura sufficiente la dottrina della reincarnazione (cui pur essi aderiscono). Ad es. per la maggior parte dei ricordi affioranti nella terapia o nel caso dei ricordi spontanei dei bambini studiati non è più storicamente verificabile il grado di veridicità. Oppure gli autori stessi adducono altri plausibili modelli di spiegazione dei fenomeni enigmatici, per es. la criptomnesia (ricordo inconscio di esperienze fatte, ma dimenticate) o l’ipotesi della fantasia  e la “confabulazione”, o la combinazione di una percezione extrasensoriale (telepatia, chiaroveggenza, facoltà di percezioni uditive, ecc.) e la personificazione con un’altra persona, a proposito della quale sono state acquisiti informazioni mediante percezioni extrasensoriali, o l’ipotesi della fissazione (una coscienza viva viene temporaneamente “occupata” da determinati elementi della coscienza, ancora in qualche modo telepaticamente operanti, di un uomo vissuto in precedenza), ecc. Anche lo psichiatra I. Stevenson ritiene che l’ipotesi della reincarnazione sia l’ipotesi esplicativa più probabile al massimo solo in alcuni dei molti casi studiati. T. Dethlefsen ascrive a tale ipotesi soprattutto il ruolo di una rappresentazione terapeuticamente utile, in quanto essa può servire alla guarigione di individui malati; ma evidentemente questo è ancora ben lungi dal farne un’ipotesi scientificamente dimostrata.  

3.     RISURREZIONE 

Questa credenza va chiaramente distinta sia dalla credenza nell’immortalità dell’anima o dell’”io” che continua a vivere dopo la dissoluzione del corpo, sia da quella della reincarnazione, che implica la ripetuta rinascita dell’anima o dell’“io” in nuovi corpi. Analizziamo innanzitutto la questione da un punto di vista filosofico per poi passare a quello religioso e teologico.
Alcuni filosofi hanno rifiutato A “io sopravviverò alla morte se e solo se la mia anima sopravviverà alla morte” perché secondo loro non fa riferimento a tutto l’hardware necessario per la sopravvivenza. Cioè se solo l’anima sopravviverà, io non sopravviverò, dal momento che sono essenzialmente un essere umano, e ogni essere umano consiste essenzialmente di un (particolare) corpo e una (particolare) anima. Anche nell’ottica tomista la sopravvivenza della mia anima è una condizione necessaria ma non sufficiente per la mia sopravvivenza. Nel XX sec. un numero crescente di filosofi hanno rifiutato A perché ritengono che non faccia riferimento al tipo giusto di hardware. Secondo questi filosofi, sussistono ottime ragioni per credere che la mente (la parte di noi della quale abbiamo proprietà mentali) sia un’entità materiale (il cervello), piuttosto che un’entità immateriale (l’anima). Alcuni filosofi convinti di ciò hanno avvalorato B “sopravviverò alla morte se i miei stati mentali ante-mortem sono continui con gli stati mentali di una persona esistente dopo la mia morte”, mentre altri sono persuasi che anche B presupponga una concezione sbagliata dell’identità personale. Secondo questi siamo animali di un certo tipo, e le nostre condizioni di persistenza sono biologiche (prima che mentali): i filosofi che hanno questa concezione materialista e “animalista” della nostra costituzione e delle nostre condizioni di persistenza propongono C al posto di A o B: “sopravviverò alla mia morte se e solo se la mia vita biologica proseguirà dopo la mia morte (con qualche soluzione di continuità, altrimenti sopravviverei senza morire)”. Questa concezione fisicalista-animalista dell’identità personale, e delle condizioni per la sopravvivenza dopo la morte, sembra lasciare molto meno spazio alla speranza in una vita dopo la morte rispetto al dualismo. Infatti si può pensare che non ha senso sperare in un ritorno del nostro corpo distrutto, perché nulla che cessa di esistere può tornare all’esistenza.
E se anche il nostro corpo tornasse all’esistenza per un’azione miracolosa di Dio - dicono sempre i critici – di che razza di corpo si tratterebbe? Quando ci si immagina di sopravvivere alla propria morte fisica, in genere ci si vede in possesso di un corpo quasi perfetto, ma ancora abbastanza simile a quello precedente da essere riconoscibile per gli altri. La prospettiva della sopravvivenza nelle vesti di uno spirito invisibile e incorporeo – abbiamo visto – non sembra molto attraente: si desidera infatti tornare insieme ai propri familiari e amici. Ma la cosa non è senza problemi, come ci invita a pensare ancora il filosofo J. Hospers. La donna il cui marito è morto all’improvviso in un incidente stradale suppone di incontrarlo nell’aldilà. Non vede l’ora che ciò accada e di parlargli di nuovo, e senza dubbio crede che sarà in grado di riconoscerlo. Forse non avrà lo stesso aspetto che aveva quaggiù: se era sovrappeso, di certo non lo sarà in paradiso; se nell’incidente ha perso una gamba, ne disporrà di nuovo; se aveva cicatrici sul volto, non saranno più lì.  Avrebbe ancora le stesse abitudini, le stesse preferenze e avversioni, come andarsi a sedere in veranda dopo cena e mangiarsi la sua bistecca al sangue? La cosa sarebbe molto improbabile: potrebbero non esserci situazioni “terrene” in paradiso, e difficilmente sarebbe necessario uccidere animali per nutrirsi. Avrebbe ancora organi digerenti? E vestiti?  E desideri sessuali? Sarebbe arduo, per la moglie, immaginarlo senza, ma nell’aldilà saremmo ancora distinti in maschi e femmine? Se fosse morto all’età di sessant’anni, in paradiso avrebbe il corpo di un sessantenne o, sperabilmente di un trentenne? E conserverebbe per sempre lo stesso aspetto? Mentre riflette su tutto questo, ben poco di quello che era suo marito sembra probabile che sopravviva. Il quadro diventa tanto più oscuro quanto più cerca di immaginarlo.
Possiamo anche immaginare altre domande, come fa J. Hick. L’attuale mio “io” – dice – è un prodotto della civiltà occidentale del XX secolo. Ad esempio, io sarò eternamente un uomo bianco inglese del XX secolo con un particolare corredo genetico, formato dalla mia specifica educazione e dalle altre influenze che mi hanno modellato in questo mondo? Sarebbero appropriati tali attributi in cielo? Le diverse culture ed epoche storiche divideranno ancora per tutta l’eternità gli esseri umani? Riusciremo a sviluppare una lingua comune o continueremo a parlare cento lingue diverse? Oppure, in quanto esseri celesti, ci lasceremmo alle spalle la nostra identità culturale terrena? E se è così, saremo ancora le stesse persone? Inoltre, la nostra identità dipende principalmente dai ricordi. È proprio perché ricordo a sufficienza il mio passato che sono, da un punto di vista soggettivo, sempre la stessa persona; ma potrei io, in un distante futuro, molto tempo dopo la fine di questa vita terrena, riandare indietro col pensiero di milioni, e poi ancora di milioni di anni? Esistono limiti alla capacità mnemonica di un essere finito? O forse è sufficiente riuscire a ricordare un periodo limitato, diciamo, di un secolo circa? Potrei allora essere la stessa persona di ieri o di cinquant’anni fa, anche se non soggettivamente lo stesso di milioni di anni fa.
 Alcuni filosofi della religione contemporanei, che pur avendo una concezione fisicalista-animalista, credono in Dio e nell’aldilà, pensano alla risurrezione nei termini di un computer prima smontato, e poi a distanza di un certo tempo, rimontato. È lo stesso di prima? Molti risponderebbero di sì. Ecco allora che il nostro corpo potrebbe essere scomposto ed in seguito ricomposto, magari dopo alcune centinaia (o migliaia) d’anni e sareste ancora voi.
Un esempio classico è P. Van Inwagen: egli dice che forse, subito dopo la mia morte, Dio (di nascosto) sottrarrà il mio corpo, o una parte del mio corpo (il cervello o una sua parte) sufficiente per la continuazione della mia vita biologica, e lo immagazzinerà in qualche luogo recondito. In un secondo tempo (escatologico), farà in modo che quel corpo (o quella parte di corpo) torni in vita. Benchè ciò sia logicamente possibile, molti stenteranno a prenderlo sul serio (è forse Dio un “rubacorpi”?). Inoltre, sorgono ulteriori problemi seguendo questa strada, perché è molto difficile che tutte le componenti di un corpo dopo la morte rimangano nelle condizioni di essere ricomposte dopo centinaia o migliaia di anni. Queste parti sono nel frattempo divenute componenti di altri corpi, magari di altri corpi umani. Per questo alcuni filosofi hanno sostenuto che non è necessario che la risurrezione del corpo avvenga esattamente con tutti gli stessi pezzi, per la stessa ragione per cui un corpo di un settantenne e quello di un bambino di sette anni possono differire. Quel che è necessario è che il corpo mantenga una certa configurazione, una relazione funzionale tra tutte le sue componenti che sia identica a quella avuta nella sua precedente vita (ma non si potrebbe allora obiettare che l’eventuale corpo ricomposto sia soltanto una copia e non l’originale? ).
Una variante di questa idea è che, come già visto, la persona potrebbe essere composta sia da corpo che da anima, e l’anima potrebbe essere quella forma che informerebbe l’ammasso di materia che è il corpo. La sopravvivenza sarebbe data dalla sopravvivenza della stessa anima che dello stesso corpo. Con la morte il nostro corpo muore, cessando pertanto di esistere, mentre la nostra anima esiste in forma imperfetta. Forse in queste condizioni si è inconsapevoli e al momento della risurrezione la nostra anima (forma) informa nuovamente la materia. La materia plasmata dalla nostra anima-forma al tempo della risurrezione è lo stesso corpo che abbiamo sempre avuto, perché la forma informante è la stessa. Non è necessario che il nostro corpo post mortem sia composto dalle medesime particelle di cui era composto in vita, almeno non più di quanto è necessario che il corpo di un bambino abbia le stesse particelle di un settantenne: quel che conta è che sia informato dalla stessa forma. Quando la nostra anima informa la materia, ne risulta un corpo avente una certa configurazione determinata dalla nostra forma. Così quando siamo risorti, il nostro corpo ha l’aspetto generale e le funzioni che ci permettono di riconoscerlo come nostro (è una variazione della concezione di Tommaso d’Aquino fatta da L. T. Zagzebski).
Comunque si valutino le precedenti critiche e ipotesi su una possibile risurrezione corporale, nondimeno (come si diceva anche riguardo la forma dell’immortalità dell’anima o dell’io) queste sono osservazioni che possiamo fare, ma dobbiamo essere consapevoli dei loro inevitabili limiti. Se ci immaginiamo la sopravvivenza personale (in qualunque forma) ciò avviene con rappresentazioni concettuali ed empiriche di questa vita. In particolare nella risurrezione corporea, essa risulta come una estrapolazione della nostra vita terrestre nello spazio e nel tempo, anche se dopo la morte il tempo è illimitato, il luogo più bello e i problemi che abbiamo qui, là sono risolti. Ma questa rimane appunto solo una nostra estrapolazione umana, che potrebbe essere lontanissima rispetto alla possibile nostra condizione trascendente ultramondana posta da Dio. Si può sempre pensare che ci siano anche altri modi in cui un Essere onnipotente e onnisciente possa realizzare la risurrezione dai morti, modi che non possiamo neanche immaginare, mancandoci le risorse concettuali per farlo. Sarebbe forse preferibile tacere su ciò che non possiamo sapere, ma è anche difficile farlo in ordine ad una possibilità che è molto importante per tanti uomini.   

Da un punto di vista religioso possiamo dire quanto segue.
Se definiamo la risurrezione come il ritorno alla vita del corpo, o meglio dell’intero uomo, dopo un periodo di morte, incontriamo fenomeni che si adattano  a questa definizione soltanto nello Zoroastrismo, nel tardo Ebraismo nel cristianesimo e nell’Islam e qualche elemento di dubbia analogia nel taoismo e nelle antiche religioni dell’India e dell’Egitto. La credenza nella risurrezione può presupporre una concezione monistica dell’uomo, per cui l’uomo, tutto intero, scompare al momento della morte e risuscita poi per una nuova esistenza, oppure una concezione dualistica, secondo la quale il corpo muore, mentre l’anima o lo spirito, continua a vivere per essere più tardi riunita al corpo in un essere rinnovato (quindi non c’è incompatibilità tra la credenza in un’anima immateriale e la dottrina della risurrezione corporea, anzi in genere la combinazione delle due idee è il modo standard di concepire la risurrezione).

Nell’ebraismo si è creduto solo nello sheol per oltre un millennio e solo dal III/II sec a.C. si è cominciato a parlare di risurrezione. L’ortodossia ebraica sull’aldilà tuttavia non è stata definitivamente fissata fino alla fine del I sec d.C., intorno alla sequenza ormai classica: avvento del Messia e annientamento dei nemici di Israele e dei cattivi ebrei; inaugurazione del regno di Dio rinnovato; giudizio finale in cui tutti morti, che si alzeranno col loro corpo dalla tomba, appariranno davanti a Dio e verranno giudicati secondo i loro meriti a seconda di quello che sarà registrato dello loro azioni umane dall’Angelo nel Libro; invio di ognuno per l’eternità seguendo i suoi meriti, sia nei paradisi beati, sia nell’inferno di sofferenze. Poiché i testi stessi della Bibbia appaiono differenziati sulla descrizione dell’aldilà e di chi ci andrà, i maestri del Talmud esprimeranno opinioni molto diverse sul fondo comune della fede in un’esistenza dopo la morte. Anche Maimonide, il Maestro dei maestri, esplicita nell’ultimo degli “articoli di fede” la fede nella risurrezione delle anime e dei corpi dopo la venuta del Messia.
         Dove l’ebraismo fonda la sua convinzione della risurrezione?
Il passaggio dalla credenza al solo scheol a quella della risurrezione individuale è stato progressivo ed è emerso mediante la voce di diversi profeti che gradualmente hanno cominciato ad esprimere tramite speranze, sogni e rivelazioni divine la convinzione della risurrezione. L’idea esplicita ed autentica della risurrezione nell’ebraismo ricorre solo in un contesto apocalittico, in particolare in quello che viene considerato il più antico testo incontestato della Bibbia che si riferisce in modo esplicito alla risurrezione corporea dei morti, cioè  Dn 12,1-3, composto al tempo dei Maccabei, e più esattamente tra il 167-164 a.C.. In quel periodo si organizzò in seno al popolo ebraico la resistenza dei cosiddetti hassidim (pii) contro la forzata politica di ellenizzazione perseguita dalla potenza mondiale dei Seleucidi siriani e contro le loro prepotenze. Molti hassidim subirono il martirio per la loro fede. L’autore dell’apocalisse di Daniele è anch’egli un hassim, che incoraggia coloro che sono fedeli alla legge a perseverare, e annuncia, sotto forma di rivelazione segreta – visione in cui un angelo gli avrebbe parlato (Dn 10) - che dopo grandi tribolazioni sarebbe giunta la salvezza dei fedeli alla legge che non hanno temuto neppure il martirio, e la risurrezione dei morti: “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni alla vita eterna e gli altri per la vergogna e l’infamia eterna”(12,2). Si impongono peraltro delle osservazioni a questo passo: non si pensa ancora a una risurrezione universale (solo “molti di” quelli che sono morti risorgeranno, e rimane controverso chi siano questi molti); tale “vita eterna” è verosimilmente concepita come una salvezza su una terra rinnovata (secondo Is 65,17ss.; 66,22 ss.); infine la prospettiva dell’idea della rimunerazione rimane confermata (si riveleranno cioè sia la potenza che la giustizia di Dio). Le convinzioni dell’apocalittico Daniele dell’intervento prossimo di Dio in favore di colui che era stato ucciso per la sua fedeltà, formulate in una situazione di gravissima crisi, a motivo del non sopravvenuto compimento escatologico, si rivelarono comunque presto sbagliate; ma la  speranza in esse contenuta avrebbe d’ora in poi influenzato l’attesa del giudaismo nel senso di una risurrezione dei morti. Ma è possibile sapere cosa si intendesse più precisamente con tale espressione? Nel libro deuterocanonico 2 Maccabei (composto in greco e finito nel 100-50 a.C.) si trovano parti più antiche come 2 Mac 7 che risale forse a persecuzioni di ebrei in Antiochia in cui si narra che, tra i tanti martirizzati,  sette fratelli e la loro madre, prima di essere torturati e uccisi, proclamano la loro ferma fede nella loro risurrezione corporea nel mondo a venire. Il secondo fratello dice: “Tu, o scellerato [il re Antioco] ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna” (v. 9); il terzo esplicitamente continua: “Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo” (v. 11). Inoltre nelle proclamazioni della madre (v. 22-23 e 28) si dice che Dio deve avere anche il potere di creare nuovamente i loro corpi dal nulla, se nulla di loro rimane (diversamente da esempi precedenti come nella visione di Ez 37,1-14, in cui la risurrezione veniva immaginata a partire da un residuo corporeo): i martiri saranno risuscitati dal nulla, proprio come gli uomini vengono dal nulla. Comunque in questi testi non si parlava né di una svolta escatologica futura (nel senso di Dn 12) né di un rinnovamento sulla terra (nel senso di Is 65,17 e altri) ma solo della riabilitazione, mediante la loro risurrezione, dei martiri uccisi per fedeltà alla torah. La risurrezione del corpo è il compenso dato da Dio agli ebrei per la crudeltà e l’oppressione del dominio straniero: i persecutori hanno distrutto i corpi dei martiri, ma la misericordia di Dio garantisce che li riavranno e che ritroveranno il piacere dell’esistenza corporea quando Dio li risusciterà. Dove il testo dei Maccabei immagini il luogo della vita della risurrezione è una questione controversa: di nuovo sulla terra rinnovata o subito dopo la morte (?) in cielo (?). Il giudaismo ellenistico postcristiano per esempio poteva ritenere che i patriarchi fossero già in cielo (prima del tempo finale e prima della risurrezione universale) e che i martiri fossero assunti dopo la loro morte immediatamente presso di essi (4 Mac 5,37; 7,19 ecc., verso il 50 d.C.). Tra i gruppi che credevano nella risurrezione del corpo al tempo di Gesù vi erano com’è noto i farisei (benché poi si raffigurassero la vita dei risorti secondo modalità intramondane). In seguito alla loro “vittoria” dopo il 70 d.C. la fede nella risurrezione dei morti divenne la confessione universalmente vincolante del giudaismo (anche se con rappresentazioni variabili). D’altra parte la risurrezione dei morti e l’assunzione in cielo presso Dio non erano le uniche idee sulla vita dopo la morte conosciuta dagli ebrei; anche l’idea dell’immortalità dell’anima, di derivazione greco-platonica, era penetrata nel giudaismo, soprattutto nel suo strato sociale intellettuale. Si può dire che la risurrezione era appannaggio delle classi oppresse mentre l’immortalità dell’anima fu adottata essenzialmente da quelle categorie di persone che studiavano la cultura greca, e magari cercavano di combinarla con l’ebraismo, come Filone, Giuseppe Flavio, e altri pensatori ebrei. Questa classe di anziani intellettuali dovevano mirare maggiormente alla continuità della loro saggia coscienza che tanto avevano coltivato in vita, mentre i giovani che si sacrificavano dovevano desiderare piuttosto una restituzione completa delle loro vite. Il Libro della Sapienza (scritto verso la metà del I sec. a.C., e per i cristiani, l’ultimo libro dell’AT) si rifà in parte ad una concezione greca dell’immortalità, quando descrive l’idea più tradizionale ebraica della risurrezione dei martiri (Sap 3,1 e 3,4). Anche il Libro dei Giubilei (II sec a.C.) mescolava la filosofia greca e la tradizione ebraica (es. 23,31) e vi troviamo l’idea che le vite dei giusti alla fine avranno la medesima durata di cui avevano goduto gli eroi nei tempi più antichi. Anche il giudaismo ellenistico postcristiano della diaspora occidentale nei suoi diversi autori e scritti (Filone, Giuseppe Flavio, 4 Mac, 2 Enoc, 3 Bar, Oracoli Sibillini) prospettava diverse idee sul modo della vita nell’aldilà postmortale (a volte anche negata) pur sempre come retribuzione ultraterrena individuale di Dio: si parla di ascensione postmortale (alle stelle, al grande eone e al luogo celeste di pace) così come della comunione ultraterrena con i pii o con i padri; di una esistenza celeste in forma di angeli cosi come di una vita eterna presso Dio; di una fede realistica nella risurrezione così come dell’immortalità dell’anima. Infine, nell’ebraismo dei tempi di Gesù, vi era chi negava qualunque tipo di vita futura, i sadducei, l’aristocrazia tradizionale di natura sacerdotale. Secondo G. Flavio tale dottrina non faceva presa su molti. “I sadducei affermano che l’anima perisce insieme con il corpo” (Ant. Giud), non attendono altra ricompensa e punizione dopo la morte e pensano che per le loro azioni gli uomini saranno ricompensati in questo mondo. Anche nei vangeli si trova eco della filosofia dei sadducei. Questo non fa che confermare che non esiste una maniera semplice per far derivare la risurrezione da un qualsiasi testo biblico prima di Daniele (e ovviamente la “bibbia sadducea” non avrebbe contenuto le rivelazioni di Daniele). Essi potevano riferirsi maggiormente per esempio al libro di Qoelet (che fu scritto da un maestro sapienziale del primo periodo greco) che come visto non contiene alcun riferimento ad una vita dopo la morte, oppure potevano già sentirsi soddisfatti della esistenza che conducevano, già relativamente privilegiata, senza attendersi altre ricompense.
In conclusione quindi l’ebraismo fonda la sua convinzione della risurrezione piuttosto che su rivelazioni divine – che in ogni caso, per quanto possibili, sarebbero assolutamente non verificabili (tra l’altro se si considera il libro di Daniele come la fonte per fondare la convinzione della risurrezione, esso, nella sua profezia dell’avvento del regno di Dio nel tempo finale con scadenze precise, non si è storicamente realizzato, e quindi, ci si chiede, perché si dovrebbe aver fiducia nella sua previsione della risurrezione dei morti?) - realisticamente sulla necessità di dare senso a certi avvenimenti storici, come il martirio dei fedeli in Dio, sorretti dalla fede nell’amore, fedeltà, giustizia e potenza di Dio, in altre parole su bisogni umani e sulla fede-speranza, concetti che non possono esibire garanzie di soddisfacimento o verità.  

         Nel cristianesimo, sulla scia dell’ebraismo, si proclama la risurrezione dell’uomo nella sua integrità, si parla infatti di “risurrezione della carne”. Ma che cosa intende la teologia cristiana per “corpo” che deve risorgere? La teologia cristiana recente in genere intende che la risurrezione riguarda tutto l’essere umano, su esempio di quella di Gesù. Nell’aldilà non saremmo puri spiriti,  ma l’essere che siamo qui, unico al mondo con la sua personalità, la sua storia, la sua corporeità. Ma non essendo più limitati né dal tempo né dallo spazio, né dalla malattia né dal peccato, saremmo glorificati, vale a dire trasformati nella Gloria (la manifestazione dell’Essere di Dio). Dato che la risurrezione  e la vita eterna riguardano nell’aldilà tutto l’uomo, il corpo non sarebbe quindi un accessorio, ma la maniera di rappresentarlo nel cristianesimo può variare, a seconda delle culture e delle epoche. Paolo, per es., riprende il vecchio paragone cosmico del germe e della spiga di grano: il corpo risuscitato non sarà più simile al corpo mortale di quanto la pianta lo sia al germe. Paolo parla di “corpo spirituale”. Detto altrimenti, la risurrezione non sarebbe la ripresa dell’antica esistenza ma una nuova creazione, come la realizzazione piena della nuova vita ricevuta da Dio, per la potenza del suo Spirito che si sostituisce all’impotenza di noi esseri mortali (J. Vernette).
Nella teologia cristiana l’aldilà viene rappresentato con le figure del paradiso inferno e purgatorio. Il paradiso, o cielo, non è un luogo ma una presenza e un rapporto (cfr. 2Cor 5,8; Rm 8,38): si definisce con la visione faccia a faccia di Dio: “noi saremo simili a lui perché lo vedremo per quello che è” (1 Gv 3,2; Cfr. 1Cor 13). Questa visione ci darebbe una pienezza di felicità, la tradizione cristiana la chiama “visione beatifica”. Una trasfigurazione interiore accadrebbe allora affinchè lo spirito dell’uomo, limitato e fragile, possa sopportare l’intensità di questa visione che i mistici chiameranno “luce di Gloria”. Tuttavia ognuno conserva la propria identità senza fondersi con Dio. Il nostro intero essere verrebbe ricreato. Ritroveremo il nostro corpo diventato “corpo spirituale”. E questo fin dalla nostra morte che ci permette di accedere all’eternità di un Dio per il quale il tempo non esiste più. Ma siamo anche solidali con l’insieme degli uomini nel “piano di salvezza” del Cristo che “ricapitolerà ogni cosa alla fine dei tempi” (Ef 4,13). Così si potrebbe dire ugualmente che risusciteremo con tutti gli uomini “nell’ultimo giorno”: in seno a questa creazione rinnovata che “adesso geme nei dolori del parto” (Rm 8,19-22).
L’inferno non sarebbe a rigor di logica una delle due possibilità che Dio offre all’uomo, perché attraverso suo Figlio Gesù Egli non propone mai altro che l’unico Regno (Gv 3,16-17). Dio non c’entra nella dannazione di colui che sceglie il contrario assoluto del Regno, per rifiuto dello Spirito. E che rimane sempre amato da Lui, si dirà anche, contrariamente a certe rappresentazioni dell’inferno che sfigurano Dio attribuendogli l’atteggiamento rancoroso di colui che volta le spalle a chi non lo ama. La sola possibilità dell’inferno sarebbe legata alla fede in un Dio talmente rispettoso della libertà dell’uomo da non volersi imporre a lui per niente, nemmeno per il suo bene.
Il purgatorio sarebbe una tappa di purificazione, di attesa, di preparazione, rendendo anche manifesto un certo legame di solidarietà tra l’aldiquà e l’aldilà.
         Il cristiano fonda la sua convinzione di risorgere sulla risurrezione di Gesù, vista come anticipo e garanzia della risurrezione di tutti gli uomini. Ma si è già visto che la risurrezione di Gesù non può essere convalidata né resa verosimile con i metodi storici; in ultima analisi quindi per il cristiano il fondamento incondizionato della certezza della fede pasquale è soltanto Dio, che nel suo Spirito conferma oggi il cristiano nella sua fede in Gesù Risorto. Ma chiaramente questa rimane una convinzione solo di fede sottratta ad ogni possibile controllo e verifica razionali.  

         Nell’Islam l’escatologia è essenzialmente radicata nella tradizione biblica. La nozione di Giorno del giudizio vi è essenziale alla stesso titolo della fede della fede nel Dio Unico fonte di tutte le ricompense nell’aldilà. La ricompensa e la punizione eterne saranno assegnate da Dio nel Giorno del Giudizio, intorno al quale si sviluppò una dottrina centrale del Corano e una successiva riflessione teologica. Nei primi stadi di sviluppo del credo coranico il requisito più frequentemente richiesto per essere un musulmano era la fede in Dio e “nel giorno ultimo”. Questo grande evento conclusivo nella storia del mondo chiamato anche il “giorno della risurrezione” viene vividamente descritto nel Corano come il momento in cui si ottengono le delizie del Giardino dell’eden o i tormenti eterni del fuoco infernale (ad es. LVI, 11-56; LXIX, 13-37). Nonostante la sua insistenza sui temi escatologici , il Corano tralascia di affrontare tutta una serie di interrogativi che in genere accompagnano la riflessione sulla fine; su questi troviamo approfondimenti nella sunna  e nella riflessione teologica successiva. Nel Corano non si trova la distinzione tra corpo e anima che affaticherà tanto invece la successiva riflessione di filosofi e teologi; mentre i primi, secondo un modello platonico furono inclini a ritenere mortale soltanto il corpo, i secondi, secondo un modello giudaico, furono inclini a ritenerli entrambi mortali.
L’inferno viene descritto dal Corano secondo le rappresentazioni popolari classiche, dominate da fuoco, pece bollente e lo zolfo fuso. Il “paradiso di Maometto” al contrario esprime il parossismo delle gioie terrene – sorgenti, banchetti, fanciulle radiose – sotto forma di quello che la civiltà araba del VII sec ha prodotto di più splendido nei suoi palazzi e giardini. Ma la maggior parte dei teologi moderni e l’islam di ispirazione mistica, come il sufismo, vi vedono soprattutto una metafora delle gioie spirituali delle quali la più alta è la visione di Dio. 
         L’Islam fonda la sua convinzione della risurrezione sul testo del Corano che in questo segue la tradizione biblica (e sulle riflessioni successive dei teologi) e pertanto la sua giustificazione risente dei limiti inerenti la possibilità di appurare le veridicità del Corano e della tradizione biblica. 

Esperienze di premorte (Near-Death Experiences, NDE)
La tanatologia, ossia la scienza che si occupa degli aspetti psichici e sociali del morire, del senso e del metodo dell’accompagnamento dei morenti, ha anche effettuato ricerche sui numerosi racconti di cosidetti “clinicamente morti”, cioè di uomini che manifestavano i segni della morte sopravvenuta (come arresto cardiaco, cessazione della respirazione, caduta della pressione sanguigna, dilatazione delle pupille, caduta della temperatura corporea, encefalogramma piatto, ecc.) ma che ciononostante sono stati per via operatoria richiamati in vita dai medici e avevano potuto raccontare cose stupefacenti a proposito di esperienze “nel frattempo” fatte. Lo schema tipico del racconto è questo: il paziente prova la sensazione di fluttuare senza peso e fuori dal proprio corpo. Viene trasportato in un lungo tunnel buio dopo aver sentito un campanello un po’ sgradevole, sbuca in una calda luce, incontra degli esseri che lo accolgono per aiutarlo a compiere il passaggio, talvolta un “essere di luce” e vedono in una panoramica fulminea tutta la loro vita,  e poi segue in genere l’esperienza di una grande pace. Il viaggiatore ritorna da questa esperienza radicalmente trasformato.
Molti ricercatori hanno raccolto e analizzato in seguito un numero importanti di testimonianze simili (come R.A. Moody, P. Dinzelbacher, K. Ring, E. Kubler-Ross, ecc.) tali che questi fenomeni non possono essere negati; le loro interpretazioni però non sono convergenti.

Molte ragioni sembrano deporre a favore della credibilità di un contatto con l’aldilà, come la relativa concordanza di questi racconti provenienti dai paesi e dalla culture più diverse; l’integrità verificabile delle persone interrogate e degli scienziati che le hanno interrogate; inoltre la coscienziosità metodica della ricerca constatabile in molti casi. Infine ci sono aspetti collegati alle NDE che per alcuni sono fondamentali: in primo luogo, ci sono racconti di esperienze sensoriali fuori dal corpo, in cui i pazienti, spesso mentre sono in coma, sembrano osservare con precisione quanto accade a loro e nel loro ambiente (per es. ospedale) e sarebbero poi in grado di raccontare correttamente i dettagli. Similmente, vi sono testimonianze di esperienze sensoriali che segnalano con precisione gli eventi che si sono verificati durante i periodi in cui il cuore del soggetto aveva smesso di battere e anche durante i periodi di "EEG piatto" in cui non c'era alcuna attività cerebrale rilevabile. Ancora,  sono testimoniati incontri-sorpresa durante il presunto “viaggio nell’aldilà” con amici e parenti che in realtà erano morti di recente e all’insaputa del soggetto, e quindi non si spiegherebbe come il soggetto avrebbe fatto ad accedere a tali informazioni se non attraverso il reale incontro con la persona deceduta, che in qualche modo sarebbe stata ancora viva.
            Tuttavia rimangono anche molte riserve.
Innanzitutto si sono riscontrate anche testimonianze diverse collegate ai diversi periodi storici e alle diverse culture di origine. Rilevante è anche il fatto che simili esperienze a volte accadono a persone che erroneamente credono di essere in pericolo di vita, e quindi potrebbe anche essere la sola vicinanza percepita alla morte, piuttosto che la prossimità reale dell'aldilà, che innesca le esperienze.
Fenomeni simili (con differenze ma anche con sorprendenti paralleli) a quelli descritti non si incontrano soltanto nelle esperienze vissute di “decesso” ma anche in altri stati psichici particolari, per es. con il sogno, la schizofrenia, l’ebbrezza da allucinogeni (LSD, mescalina, ecc), la pseudoallucinazione nevrotica (isteria), oltre che con la suggestione, il gradino più alto del training autogeno, la concentrazione, con la meditazione e la visione religiosa. Quindi questi racconti testimoniano, di per sé, solo dell’esistenza in qualcuno, in certe situazioni limite, di stati di coscienza modificati, che possono avere diverse spiegazioni: alcuni vi vedono le conseguenze di un’alterazione dovuta ad agenti chimici e provocata da un’overdose di  neuromediatori all’approccio della morte (come reazione difensiva organica si verificherebbe un’eccitazione del sistema nervoso centrale che provocherebbe sentimenti di euforia, stimoli luminosi, visioni, ecc.), oppure come un risveglio della forza vitale kundalini orientale, o ancora come fenomeni parapsicologici da esplorare. I racconti di incontri con persone recentemente morte ma all’insaputa del soggetto, diventano un po' meno impressionanti una volta si è riconosciuto che in esperienze di premorte si sono incontrate anche persone ancora vive, quindi non letteralmente presenti nell’aldilà in cui essi invece, in base ai racconti, sarebbero stati visti. Pertanto diventa statisticamente probabile che ci saranno anche incontri con persone che sono recentemente morte ma la cui morte era sconosciuta per il soggetto sperimentante l’esperienza di premorte.
La rivendicazione che le NDE si sono verificate durante i periodi con nessuna attività cerebrale, sono controbilanciati dal fatto che un EEG non può rivelare tutte le attività all'interno del cervello. La risonanza magnetica funzionale, per esempio, può rivelare attività non segnalate da un EEG. Nei casi dove l’attività cerebrale ha infatti cessato per un determinato paziente, le NDE possono essersi verificate prima della cessazione o dopo che ha ripreso l'attività cerebrale normale; non è necessario assumere che durante le NDE la mente fosse attiva con cervello assente.
Per quanto riguarda l’apprendimento di informazioni durante le NDE, altrimenti non disponibili, sono possibili varie risposte. Va osservato, anzitutto, che spesso vengono riportate informazioni imprecise. In alcuni casi dove l'informazione è confermata, possiamo avere a che fare con un perfezionamento successivo in seguito a ripetizioni della stessa storia (questo non comporta necessariamente un inganno deliberato; è una comune esperienza che le storie spesso ripetute tendono a guadagnare nuove caratteristiche di interesse per la narrazione). In altri casi si è sostenuto che l'informazione era dopo tutto disponibile attraverso i normali canali sensoriali, spesso attraverso l'audizione da parte dello sperimentatore di cose dette durante la procedura medica quando era apparentemente cosciente.
Il problema maggiore è quello di stabilire se una data persona che riporta delle NDE fosse prima realmente morta e fosse poi ritornata dalla morte, perché senza questa certezza sembra difficile vedervi delle esperienze che provano l’esistenza del dopo-vita: potrebbero essere solo esperienze fatte in prossimità della morte, ma non esperienze fatte al di là del confine definitivo della morte. 

Le comunicazioni con l’aldilà (spiritismo)
Si tratta della comunicazione che avverrebbe con i defunti, che lo spiritismo cerca di stabilire con l’ausilio di medium, particolarmente dotati, in stato di trance. Fenomeni come tavolini che si muovono, o battono colpi, spostamenti di oggetti, rumori strani, sogni particolari, apparizioni, bicchieri parlanti, “materializzazioni” di oggetti, scrittura automatica, o immagini e suoni dall’aldilà registrabili, sarebbero prodotti dagli “spiriti” dei defunti.
Le diverse tecniche ritenute adatte a stabilire un contatto con aldilà si basano su una concezione particolare dell’uomo e dell’universo. L’idea di base è che lo spirito, l’elemento dell’uomo che sopravvive alla morte, non è del tutto immateriale. Sarebbe come un doppio del nostro corpo materiale, costituito da una materia più sottile. Ma non lo possiamo percepire sulla terra, perché si porrebbe su un altro piano, un’altra dimensione. Tuttavia ci potrebbero essere delle “interferenze” tra i vari piani, come avverrebbe nelle sedute spiritiche, e allora i mortali potrebbero entrare in contatto con i defunti.
Personalità celebri hanno praticato lo spiritismo come V. Hugo, C. Doyle, scienziati e intellettuali. Dopo un calo legato all’avvento della razionalità pura e del rifiuto della metafisica, queste pratiche ricompaiono con rinnovato vigore nell’epoca attuale.
            Tuttavia ancorchè tali fenomeni esistano, rimangono controverse le loro spiegazioni.
Gli illusionisti hanno riprodotto con giochi di prestigio molti di questi fatti straordinari. I tavolini che si muovono potrebbero ancora essere spiegati con la psicocinesi (produzione di movimento a distanza senza cause apparenti). I messaggi in codice potrebbero essere fenomeni di telepatia fra  le persone che partecipano alle sedute, tipo classico di PES (percezione extra-sensoriale). Lo spostamento insolito di oggetti potrebbe essere attribuito a manifestazioni specifiche di energia presso alcuni soggetti che sembrano averne in eccesso (anche se siamo ancora ignoranti circa la natura di questa energia, che è una delle manifestazioni normali della nostra composizione umana che chiamiamo “corpo energetico”). Lo sdoppiamento di personalità è tipico della scrittura automatica, e l’automatismo psicologico del bicchiere parlante. Alcuni psichiatri, sulla scia del dr. Charcot (1825-1893) mostrarono come nell’ipnosi isterica la personalità normale scomparisse, lasciando il posto a una seconda, o a una terza: come a “spiriti” estranei. Inoltre l’inganno venne perpetrato da famosi medium alcuni dei quali lo confessarono alla fine della loro vita (come D. Home o le sorelle Fox). Quanto alle immagini e ai suoni detti “in provenienza dall’aldilà” agli occhi di alcuni sarebbero residui dell’immenso stock immagazzinato dai satelliti o in circolazione nell’etere, a meno che non provengano dalla proiezione della coscienza degli operatori medesimi, come fenomeno PES.
Nonostante possa rimanere un nucleo di fatti irriducibili, inspiegabili allo stato attuale delle nostre conoscenze, potranno forse essere spiegati in futuro; in ogni caso tali fenomeni straordinari rimangono ambigui e refrattari ad una spiegazione univoca di tipo trascendente, pur rimanendo questa certamente una possibilità. 

Altri argomenti
Presento ora altri argomenti a favore della sopravvivenza dopo la morte, a prescindere da ogni specifica modalità di esistenza, desunti dalla morale, dalla facoltà conoscitiva dell’uomo, e come conseguenza plausibile del teismo 

Argomento morale. Se si considera l’uomo come un essere capace di agire in modo etico-morale e che può e deve pertanto orientarsi in base a una norma morale incondizionatamente valida, sia che esso giovi a lui o meno, allora se questo agire morale deve avere un senso - e precisamente proprio quando esso non riporta alcun successo all’interno della propria vita, e al contrario, si risolve addirittura in un danno in questo mondo per l’uomo che agisce moralmente bene - bisogna ragionevolmente “postulare” o “supporre” che con la morte non tutto può essere finito e che all’uomo che agisce moralmente bene dopo la morte sarà resa giustizia ed egli sperimenterà anche il senso e il coronamento del suo buon agire. Ma come già affermato da Kant questo postulato non è una verità teoretica ma solo un bisogno dell’essere morale: le considerazioni morali in altri termini non dimostrano l’immortalità ma mostrano solo che è un’aspirazione legittima di chi agisce moralmente. 

Argomento che rinvia alla facoltà conoscitiva dell’uomo. Lo spirito umano non è limitato, nella sua conoscenza, al solo mondo sensibilmente sperimentabile del finito. Esso è in linea di principio aperto – perlomeno sotto forma di domanda e di ricerca – all’infinito, anzi in fondo a Dio quale senso onniabbracciante, nascosto alla radice di ogni aspirazione alla salvezza e tuttavia tanto incomprensibile di tutta la realtà. Tale apertura dello spirito finito a un senso infinito può essere vista come un segno eloquente del fatto che lo spirito umano possiede una certa “affinità” con l’infinito, che l’uomo non è semplicemente una parte del mondo materiale effimero. Ma se le cose stiano in effetti così non è però cosa che possa essere dimostrata. Tale argomento è affine alla via trascendentale che presenterò in seguito e pertanto per la sua specifica valutazione critica rimando ad esso. 

Argomento dipendente dalla validità del teismo. Si tratta dello stretto legame che esiste tra teismo e fede nella vita ultraterrena. Il punto non è semplicemente che le religioni teistiche incorporano nella loro credenza una vita ultraterrena. Il punto è piuttosto che se il Dio del teismo esiste davvero, ed è un essere onnipotente e buono, e interessato al benessere degli esseri umani, allora è plausibile che egli possa e voglia dare alle sue creature la possibilità di un appagamento maggiore e più duraturo di quello possibile nell'ambito della breve esistenza terrena (e ogni possibile nostro giudizio sullo status di questa eventuale condizione ci è precluso in base alle nostre limitate possibilità conoscitive). Questo è particolarmente vero, si potrebbe pensare, per coloro che, non per colpa propria, hanno una vita rovinata dalla malattia, o da incidenti o dalla guerra, o da disastri naturali o provocati dalla cattiveria di altri uomini. Se non c'è nessun aldilà, nessun regno in cui i dolori di questa vita possono essere placati e le sue ingiustizie sanate, allora il problema del male diventa impossibile da risolvere in alcun modo razionalmente comprensibile (non che con l’aldilà si risolvi del tutto il problema del male,  ma fornirebbe almeno la possibilità di una compensazione delle ingiustizie e dei dolori subiti e potrebbe portarci così almeno all'inizio di una soluzione fattibile). Ma anche coloro che godono di una vita terrena relativamente buona e soddisfacente potrebbero essere consapevoli che potrebbero realizzarsi molto di più in una “vita eterna”.
Collegato a questo argomento c’è anche l’“argomento del desiderio”, in base al quale se il desiderio di una vita oltre la morte è universale o quasi nella storia dell’umanità, allora questo dice qualcosa a favore della sua verità. Naturalmente questa non sarebbe una deduzione logica. Anzi molti lo considerano proprio un argomento contro la vita dopo la morte, ovvero come segno che l’uomo si è inventato tale idea in base al suo desiderio. Ma nemmeno questa è una deduzione logica. Sarebbe infatti vera solo nel caso di un universo naturalistico, senza alcun Dio, e allora la causa di un tale desiderio così diffuso nell’umanità potrebbe risalire all’istinto di sopravvivenza darwiniano. Ma se invece fosse vero il teismo, la vita umana non sarebbe il prodotto accidentale di forze ma sarebbe il prodotto di un processo evolutivo costituito per produrre tali esseri da un Dio che li ama e si preoccupa per loro. Se fosse così, allora tale desiderio di un aldilà potrebbe anche essere soddisfatto.  

            Osservazioni conclusive
Ho iniziato affermando che la speranza che la finitezza umana non sia definitiva ma superabile in una dimensione trascendente, accompagna in generale l’uomo dalla sua comparsa ad oggi.
Prima di concludere, chiediamoci però più espressamente i motivi per cui un uomo potrebbe voler sperare in un aldilà significativo dopo la morte. Non gli dovrebbe bastare questa vita? C’è qualche problema se tutto finisse con la morte?
Il filosofo T. Nagel espone così la questione.
L’idea della morte, della nostra cessazione tra qualche decina di anni di vita sembra rendere problematico il significato della vita stessa. Perché? Puoi spiegare gran parte delle cose che fai. Lavori per guadagnare denaro per sostenere te stesso e forse la tua famiglia, mangi perché hai fame, dormi perché hai sonno, fai una passeggiata o chiami un amico perché ne hai voglia, leggi il giornale per sapere cosa succede nel mondo, ecc.  Se non facessi nessuna di queste cose ti sentiresti infelice: dov’è allora il vero problema?
Il problema è – dice Nagel – che sebbene vi siano giustificazioni e spiegazioni per la maggior parte delle cose, grandi e piccole che facciamo dentro la vita, nessuna di queste spiegazioni spiega l’essenza della tua vita come un tutto – il tutto di cui tutte queste attività, successi e fallimenti, sono parte. Se pensi all’intera faccenda non sembra esservi in essa alcun significato. Naturalmente la tua esistenza importa ad altri – i tuoi genitori ed altri che si curano di te –ma, prese come un tutto, neppure le loro vite hanno un significato per cui, in definitiva, non ha importanza che tu conti per loro. Tu importi a loro e loro contano per te, e questo può dare alla tua vita una parvenza di significatività. Ma vi lavate semplicemente la biancheria l’un l’altro, per così dire. Dato che ogni persona esiste, ha bisogni e interessi che fanno in modo che cose e persone particolari dentro la sua vita le importino. Ma, ancora una volta, l’intera faccenda non conta.
E se fosse inserita in un contesto più ampio – per esempio si facesse parte di un movimento politico  o sociale che cambia il mondo per il meglio, per il beneficio delle generazioni future – potrebbe così ricevere significato? No, perché ci si può sempre chiedere quale sia il significato di questa cosa più ampia.
Infatti – aggiunge R. Nozick – chiedere quale sia il significato di una cosa è chiedere come questa sia connessa con altre cose, in modo che tu trascendi i tuoi limiti (aiutare gli altri, promuovere la giustizia, ecc.), ti leghi a qualcosa di più grande di te. Il problema del significato è creato dai limiti, dal fatto di essere solo questa cosa.  Così per ampi che possano essere i nostri interessi, possiamo sempre tracciare i contorni a questo “parziale tutto” e, dal di fuori, chiederci quale sia il senso di questa cosa. Se il problema del significato è dato dal limite, allora sembra che solo l’illimitato sia in grado di togliere questo problema. Avere un limite significa escludere qualcosa. Qualcosa di illimitato coprirebbe tutto e includerebbe tutto, e solo così non resterebbe più spazio da cui osservare i suoi limiti e le sue limitazioni. Dobbiamo immaginare qualcosa che comprenda tutte le possibilità. Ma questo risultato soddisfacente sarebbe valido se l’illimitato fornisse un luogo d’arresto alle domande sul significato non solo perché rispetto ad esso la domanda non si può più fare, ma anche perché l’illimitato stesso è il suo significato. Il fenomeno di essere il significato di se stesso emerge al livello dell’illimitato, non prima. Qual è però l’aspetto dell’illimitato grazie al quale esso è il suo proprio significato? Si può pensare che solo un essere illimitato può fare che il suo contenuto “più ampio” sia se stesso, ed essere così il proprio significato. Ammesso che una simile entità di un essere illimitato sia il suo proprio significato, noi forse potremmo connetterci a questa fonte per ricevere significato (Nozick).
Probabilmente l’essere che noi desiniamo “Dio” potrebbe essere questa entità, e la comunione eterna con Dio potrebbe essere ciò che da più significato (o un significato assoluto) alle nostre vite.
Tuttavia numerosi problemi si presentano per accettare una cosa del genere, primo fra tutto quello dell’esistenza di un simile essere, “Dio”; inoltre non sappiamo se “Dio” voglia e possa rendere significativa la nostra esistenza per sempre; e ancora ci si potrebbe chiedere quale sarebbe il contenuto del significato che Dio, in quanto illimitato, avrebbe in se stesso e potrebbe trasmettere all’uomo: perchè se si suppone che Dio dia alle nostre vite un significato che non possiamo capire, non sarebbe una grande consolazione.
Questi problemi potrebbero scoraggiare (e di fatto scoraggiano) molti, i quali alla fine potrebbero chiedersi (e si chiedono): “Ma ha importanza che la vita non abbia importanza? Che importa se non ha un significato?” Si potrebbe quindi guardare solo dentro la vita, alle faccende di ogni giorno. Non servirebbe di più per continuare a vivere. Come B. Russel disse: “Credo che quando morirò il mio corpo si decomporrà, e nulla del mio io sopravviverà. Non sono giovane e amo la vita, ma disprezzo il terrore dell’annichilimento. La felicità non è meno vera solo perché finisce, e nemmeno il pensiero e l’amore perdono valore perché non sono eterni”. Gli fa eco il filosofo italiano S. Natoli: “ Per vivere pienamente non è necessario durare eternamente, né sapere l’intero: basta saper trovare il modo adeguato di esistere”. Cito infine il filosofo tedesco H. Albert: “Chi non crede in Dio non necessariamente deve sostenere la nullità e la mancanza di significato totali della realtà e della vita umana. Sicuramente il non credente non dirà di credere in un senso oggettivo della realtà e della vita umana, ma nondimeno egli potrebbe porsi obiettivi e ideali e cercare di raggiungerli, realizzare significative opere culturali senza dover caratterizzare come illusoria simile prassi. Si può vivere anche in una realtà problematica nutrendo una fiducia relativa nella realtà”.
Si potrebbe concludere allora la “questione del significato della vita” dicendo che una eventuale vita oltre la morte potrebbe dare un significato assoluto a questa vita (considerandole collegate), mentre questa vita, da sola, potrebbe avere soltanto un significato relativo.
Ma ciò non può voler dire che basta l’eternità per dare senso alla vita. Il tempo c’entra relativamente poco. Non è la durata a dare senso ad una vita. Non serve rimandare la domanda sul significato di questa vita ad un’altra vita, perché la vita ad un certo punto deve risultare meritevole di essere vissuta in sé, non in quanto rimanda ad un’altra vita: infatti, quale sarebbe lo scopo di quest’altra vita?
Il punto è quello espresso da diversi pensatori: “Ciò che non abbiamo saputo cogliere del momento, nessuna eternità potrà restituirci!” esclamava Schiller; e Simeone il Nuovo Teologo affermava che deve dimenticarsi della vita eterna chi non la vive già qui; infine Bonhoeffer con lo stesso senso diceva che “chi sta con un piede solo sulla terra starà con un piede solo anche in paradiso”.
Il senso della vita deve essere trovato mentre si vive, qui ed ora.
Possibili candidati ad avere senso e significato in sé sono in primis, e in generale, la conoscenza e l’amore (dall’eros, alla filia all’agape). In termini più concreti e meno filosofici, viviamo qualcosa di significativo quando viviamo una relazione affettiva stabile e gratificante, quando abbiamo buoni risultati dai nostri impegni sul lavoro o nello sport o nell’arte, quando aiutiamo i meno fortunati di noi a stare meglio, quando siamo gli artefici della nostra vita, ecc.
Ma insieme, è anche qui che si colgono i limiti della nostra vicenda storica.
Così l’uomo nella sua dimensione intrastorica può anche intuire e vivere un significato nella conoscenza, ma è anche vero che questa non giunge mai al compimento, non possiamo comprendere il tutto; oppure nell’amore, nell’amare e nell’essere amati, ma è anche vero che l’amore non raggiunge mai completamente la persona amata, né si può contare su una comunione piena e per sempre. E così via per tutti i “momenti” di senso della vita, preziosi ma fragili. Sono tutte esperienze che in sé non esauriscono né la loro origine né la loro fine, sono inserite in una condizione di vita finita, limitata, fragile, dove non c’è sempre corrispondenza tra “virtù” e felicità, tra volere e potere. L’esperienza storica non esaurisce il fondo di nessuna realtà, si potrebbe dire.
Questo vuol dire che il significato della vita lo dobbiamo cogliere, scoprire, vivere già qui, ora e da noi stessi, nella nostra esperienza storica, e questo non può essere delegato a qualsivoglia altro essere esterno a noi se vuole essere un significato autentico e nostro; ma è anche vero che questo non sarebbe ancora sufficiente per la piena attuazione di questo significato, per i limiti qualitativi e quantitativi della nostra esperienza storica, e quindi sarebbe necessaria una condizione Altra perché giungesse a compimento assoluto. Potrei riassumere così: “già qui ed ora, e scoperto da noi stessi” ma “da portare a compimento”: queste sono le caratteristiche necessarie del significato perché sia autentico e assoluto. Se manca la prima è inautentico, se manca la seconda è incompiuto. Se la prima dipende da noi, la seconda è altra da noi.
Alla fine dunque, riassumendo, l’uomo può sperare in un aldilà sia per amore della vita prima della morte – perché tutto il bene, tutto il vivere e l’amore non siano condannati ad un’inutilità finale; perché spera giungano a compimento quei “momenti” di senso e felicità che costruisce e sperimenta già nella sua vita, perseguendo valori come la giustizia, la solidarietà, la compassione – sia perché il dolore per malattie, lutti, insuccessi, privazioni, ingiustizie ed odio che tanti sperimentano qui, non abbia l’ultima parola - se tutto finisse con la morte, moltissime persone chiuderebbero la vita con un bilancio sfavorevole che non troverebbe mai alcun compenso.
Ma questa speranza, esistenzialmente legittima, è anche razionalmente fondata?
Dall’indagine fatta emerge che la vita oltre la morte - nelle modalità di immortalità dell’anima o dell’“io”, o reincarnazione oppure risurrezione – sembra essere ancora una possibilità: può essere quindi solo una credenza, oggetto di fede, che non rimanda alla dimensione del sapere - né come dimostrazione e nemmeno come argomentazione oggettivamente plausibile - ma solo a quella della fiducia e della speranza (o dell’attesa).
L’uomo, davanti alla morte, può ancora sperare di “incorporare” in sé un’“anima” e che sia di per sé immortale; oppure, se fosse mortale, può sperare che Dio, se esiste, la renda immortale. Oppure può confidare che, anche se l’uomo non avesse un’“anima”, le informazioni (o i suoi stati mentali o il suo software) che rappresentano il suo “io” vengano preservate dalla dissoluzione per l’eternità, e incorporate in qualche tipo di hardware o in Dio. O ancora, può attendere che, per iniziativa creatrice e salvifica di Dio, questi faccia risuscitare l’unità corporea-spirituale o psico-fisica dell’uomo dopo la morte in un “corpo trasformato o glorificato”. E può sperare che in tutti i casi sia garantita la continuità con l’identità in questa vita e la sua significatività.
Se solo una speranza anziché una certezza sia sufficiente per indirizzare o dare significato o far sopportare la vita terrena, questo rimane però soggettivo. 

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