Ora, visto che nel post precedente
ho accennato alla questione della sofferenza, affronto il problema della compatibilità
dell’esistenza di Dio con
quella del male nel mondo.
Per tanti la fede in un Dio viene posta in
discussione in modo radicale rifacendosi all’universale esperienza del dolore,
soprattutto quando colpisce l’uomo nella sua innocenza e nella sua impotenza (i
bambini). Qui è in gioco l’onnipotenza di Dio, e quindi Dio medesimo. Perché se
si afferma l’onnipotenza di Dio, la sua giustizia appare problematica. Infatti,
se Dio non ha causato il male, se anche non lo vuole, perché allora lo
permette? Se già per i credenti la sofferenza degli innocenti può diventare una
della più gravi prove per la fede, per i non credenti esso diventa uno degli
argomenti principali contro l’esistenza di Dio.
È vero che per qualcuno il problema
dell’esistenza (o meno) di Dio è scollegato
da quello delle caratteristiche della sua creazione, ovvero se questa comprende
anche degli aspetti per noi negativi, come il male/dolore. In altre parole,
l’esistenza del male nel mondo non ci direbbe niente sull’esistenza di Dio, ma
semmai solo su quello che ha fatto Dio, sulla sua opera. Tuttavia, questa
osservazione sembra di scarso rilievo se pensiamo che, quando parliamo degli
uomini, in genere quello che uno fa ci dice qualcosa di chi egli è, e quando
pensiamo all’idea di “Dio” pensiamo a un tipo
di Dio che sia significativo in
sé e per l’uomo. Difficilmente ci interesseremmo di un Dio che pensiamo non si
interessi di noi. Quindi rimane vero che il male e il dolore presenti nel mondo
ci dicono qualcosa su un possibile Dio, sulle sue caratteristiche e quindi anche sulla esistenza di tale Dio (almeno in quanto significativa
per noi): la domanda angosciante “come fa un Dio perfetto, buono e onnipotente
a permettere tutto il male che è presente nel mondo?” porta a chiedersi anche
“se questo Dio perfetto, buono e onnipotente esista poi davvero” (a meno che
non si abbia prima l’evidenza dell’esistenza di Dio, nel qual caso ci si
fermerebbe alla prima domanda; ma fin qui si è visto che questo è quantomeno
molto difficile).
Gli
argomenti a favore
Prendo innanzitutto in esame gli
argomenti principali a difesa della teodicea,
cioè del tentativo di rendere compatibili l’idea di Dio col male nel mondo.
- Il male/dolore come componente inevitabile della creazione divina del
mondo.
Esistono diverse versioni di questo
argomento.
Il celebre teologo tedesco K. Rahner ha parlato del dolore come prodotto collaterale dell’evoluzione. Il
fatto che esistano tumori, malattie virali, aborti spontanei, inondazioni,
terremoti e fenomeni simili, costituisce una premessa necessaria al compimento
dell’evoluzione come progetto anticipato di libertà, non determinato, né
necessario, ma costantemente in gioco, soggetto al processo di prova ed errore,
al caso. La creazione, che ha come fine la libertà della creatura, non è strutturata
secondo un ordine aprioristico e statico, ma è qualcosa di dinamico. Da ciò
nasce però anche l’aspetto negativo, il mal riuscito, il “prodotto di scarto”,
in breve tutto ciò che provoca sofferenza.
Il teologo italiano C. Molari similmente parla del male come
componente necessaria del processo della creazione ancora in corso. Le realtà
materiali non sono come tali ragione del male, ma in quanto creature temporali
non possono accogliere in un solo istante tutta la perfezione, ma solo a
frammenti nella successione degli eventi. Esse sono perciò ancora imperfette e
incompiute fino al compimento finale. Anche l’uomo si trova in questa
condizione: non può interiorizzare la forza creatrice e far fiorire le
strutture spirituali in un solo istante, compiutamente. L’azione creatrice si
esprime nella creatura secondo i limiti delle sue strutture in evoluzione. Chi
nega Dio per la presenza del male non tiene conto del tempo come fattore
necessario della creazione e ragione dell’imperfezione cronica della natura.
Il teologo K. Ward si esprime in questo altro modo. Dice che questo mondo
forse è l’unico possibile in grado di consentire di esistere a noi e ai generi
particolari di valori e cose buone che possiamo apprezzare. Definire buono Dio
non coincide necessariamente col fatto che tutto ciò che crea sia sempre e
comunque bello e buono. Significa invece dire che Dio realizza il massimo grado di tutte le perfezioni compatibili. Se un tale Dio produce un
universo come questo, allora Dio rimane buono, comunque sia tale universo. In
altri termini, un Dio perfettamente buono potrebbe creare un universo con molte
forme di male al suo interno, e forse Dio non potrebbe creare un universo con
vita intelligente senza creare qualche male. Equivale a dire che Dio crea in ragione
del bene, ma, per ragioni che non possiamo sapere, non può impedire il
verificarsi della sofferenza, anche se non la vorrebbe mai, perché si realizzi
comunque, alla fine, una forma più alta di bene.
Si può anche dire che siamo noi
uomini che interpretiamo i limiti, le deficienze che vediamo come male, ma
pensiamo così soltanto perché la storia completa della salvezza è al di là
della nostra portata, perché rendiamo assoluti certi frammenti di esso senza
renderci conto che, nel piano divino, servono la causa del bene.
Oppure si può anche pensare che il
male sia solo privazione di bene e non una sostanza in sé, e quindi si dirà che
c’è solo una gradazione, una differente bontà negli esistenti, forse necessaria
per dar conto dell’estrema varietà e complessità del reale. Insomma,
l’esistenza umana si può paragonare ad un arazzo del quale noi vediamo solo il
rovescio, con tutte le sua imperfezioni: ma Dio vede anche il dritto e anche
noi alla fine lo vedremo. Un “Dio buono” potrebbe essere anche quello motivato
ad attuare un certo processo storico, non a realizzare immediatamente il fine,
senza alcun precedente periodo di sofferenza o di lotta. In conclusione il male
e il dolore, sebbene deplorevoli, possono essere accettati come inevitabili, in
vista di un ordine superiore e della finalità ultima della creazione divina.
- Non si possono avere dei beni senza la possibilità di certi mali.
Una parte di cose buone non sembra
possibile senza una parte di cose cattive.
Alcune virtù sono tali che la loro
presenza nel mondo implica logicamente la presenza di certi tipi di male nel
mondo: dalle avversità e dalla sofferenza arrivano le conquiste, dalla
sofferenza impariamo ad apprezzare i sentimenti degli altri, origina la solidarietà,
dalla povertà impariamo la fragilità. Non vi sarebbe coraggio senza paura, né
compassione senza sofferenza, né speranza senza timore dell’ignoto.
Dio ci potrebbe lasciare soffrire
per metterci alla prova e farci maturare, affinché nella pazienza, nella
speranza e nella sapienza la nostra fede ne esca rafforzata. Il dolore talvolta
nobilita l’uomo, purifica i suoi pensieri dall’orgoglio e dalla superficialità,
amplia i suoi orizzonti.
Perché Dio non interviene per
salvare gli innocenti dai malvagi? Probabilmente perché vuole che le sue
creature (siano esse innocenti o malvagie) giungano all’autonomia e alla
maturità spirituale, e ciò non succederà se Dio è sempre pronto a proteggere
gli innocenti dai malvagi.
Perché Dio ha creato un mondo
naturale con terremoti, inondazioni, e tutti gli svariati fattori che provocano
la sofferenza di uomini e animali? Probabilmente perché in un mondo senza mali
naturali non impareremmo certe lezioni indispensabili per l’uso significativo
del nostro libero arbitrio, e non diventeremmo agenti responsabili e autonomi.
È stato anche detto che una vita
completamente priva di mali non necessariamente sarebbe una vita ideale.
Vorremmo davvero sapere che ogni nostro tentativo è destinato ad avere
successo? Che ogni nostro desiderio è destinato ad essere esaudito? Forse
questo renderebbe la vita in qualche modo insulsa.
- Il dolore come “orientamento” alla vita eterna.
Al termine della nostra storia
dolorosa il credente (cristiano) crede che ci sarà la vita eterna. Paolo
scrive: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono
paragonabili alla gloria futura”. E ancora: “Infatti il momentaneo, leggero
peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità eterna e smisurata di
gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle
invisibili”.
Si può pensare che Dio garantisca a
ciascuno di noi una vita che, considerata nella sua interezza di vita terrena e
vita ultraterrena, rappresenta un gran bene, in modo che se fosse stato dato ad
una creatura di conoscere anzitempo come sarà la propria vita intera, inclusi i
tormenti terrestri e le benedizioni celesti che essa porterebbe con sé, ella sceglierebbe di viverla.
-
Il dolore come conseguenza della colpa dell’uomo.
L’idea della colpa dell’uomo per la
sua condizione di sofferenza è vecchia quanto l’umanità. Essa si pone per così
dire davanti alla gloria e alla bontà di Dio e dice all’uomo: soltanto tu sei
colpevole della tua sofferenza, con la tua decisione cattiva nella libertà, che
non puoi certo attribuire ad un altro e tanto meno a Dio.
Presento il concetto di peccato così
come viene descritto dal teologo morale F.
Bockle: fine ultimo dell’uomo è il bene assoluto, Dio. A lui l’uomo è
essenzialmente destinato e in cammino. Nel suo orientamento essenziale a Dio
l’uomo è vincolato: la sua libertà è sempre intrinsecamente qualificata. Ma se
l’uomo nello spazio di libertà che gli è dato consuma la sua libera decisione
bruciandola su una realtà finita e provvisoria, su cose, su ‘puri dati’, su
passioni e comportamenti istintuali; se egli logora la sua libertà in questo
modo, e sbanda così dal suo orientamento al bene ultimo e trascendente, egli
diventa peccatore. Lo sbaglio della sua decisione consiste allora
nell’inautenticità di sintesi premature e di totalizzazioni violente. Con
questo comportamento l’uomo cade in contraddizione con se stesso, con la sua
essenza. Egli dovrebbe essere in cammino verso il punto dove si realizzerà la
sua essenza ma fino a che l’uomo non è
pienamente unito al suo fine sul piano della conoscenza, dell’amore e della
vita, egli può sempre decidere in maniera sbagliata, può abbandonare il suo
fondamento sostanziale.
J.
Ratzinger,
da parte sua, afferma, commentando il racconto della Genesi, che la tentazione
non comincia con la negazione di Dio, ma con il sospetto sulla sua alleanza: in
definitiva con il sospetto sul suo amore verso l’uomo. Tale sospetto propone
all’uomo di allontanarsi da Dio, di godere della vita che sta vivendo ora senza
attenersi a questo Dio lontano che non ha niente da dare all’uomo, e che pone
tanti limiti. “Il concetto più profondo del peccato sta nel fatto che l’uomo
nega la propria creaturalità, perché non vuole accettare la misura e i limiti
in essa presenti. Egli non vuole essere una creatura, non vuole essere
misurato, non vuole dipendere da nessuno. Così l’uomo vuole diventare Dio
stesso, e dove tenta di fare questo tutto cambia. Cambia il rapporto dell’uomo
con se stesso, cambia il suo rapporto con l’altro”.
In altre parole il peccato è
l’abbandono del vero Dio a favore di un dio-surrogato, rifiuto di sottomettersi
a Lui come fine ultimo, come orientamento egemone della vita, e al contrario
sollevamento della propria persona creata al trono di Dio, come fine ultimo di
se stessa e ultimo criterio dell’agire morale.
All’obiezione, del tutto legittima,
che l’uomo non ha una intuizione diretta del divino, che non coglie in modo evidente
e tematico la realtà di Dio, il credente può rispondere che si può prendere
come riferimento l’esigenza che
l’uomo riscontra in se stesso verso una comunione con un “Tu” illimitato e
assoluto. L’uomo è aperto e orientato all’Infinito. Il peccato non è pensabile
se non in un rapporto con Dio, magari “ignoto” ma che si ponga come l’orizzonte
in cui l’uomo si comprende e si realizza. Così il no a Dio è anche un no a se
stesso, un no al senso e valore assoluto dell’esistenza.
Tutto ciò avrebbe potuto deformare
l’eventuale condizione positiva originaria dell’uomo, rendendola problematica e
negativa.
Se si dice che Dio avrebbe potuto
creare l’uomo senza la possibilità di peccare, quindi senza libero arbitrio,
prevedendo le conseguenze catastrofiche che questo avrebbe comportato, si può
controbattere che evidentemente deve aver valutato che un mondo di automi senza
peccato avrebbe dato luogo a meno bene di un mondo con esseri umani che
avessero libertà di scelta e, di conseguenza, potessero non di rado preferire
il male.
Si può pensare che Dio voglia un
mondo in cui le persone create possano vivere in una condizione di reciproco
amore con lui e fra loro e la libertà è proprio quello strumento che consente
loro di giungere a questa relazione. È questo stato finale quel gran bene che
supera di gran lunga il male, e la libertà è la precondizione di questo bene.
Un automa non potrebbe realmente amare, dal momento che un amore che non sia
libero non è più amore. Sfortunatamente l’amore richiede sofferenza ed il processo
di “formazione dell’anima” necessariamente deve contenere il male (J. Hick).
- Il dolore come conseguenza del “peccato originale”.
La dottrina cattolica ufficiale collega la
realtà della sofferenza anche alla teoria del peccato originale. Si tratta in
sostanza di una ribellione al piano di Dio all’inizio della storia umana (vedi
spiegazione precedente sul racconto del peccato nella Genesi) avvenuta sia a
causa dell’uomo sia perché questi avrebbe subito la tentazione del serpente,
cioè di un male già esistente, antecedente ad ogni sua possibile scelta. E’ convinzione di fede inoltre che le
conseguenze della colpa primitiva siano trasmesse
ad ogni uomo per il solo fatto di appartenere all’umanità: tali conseguenze
sarebbero la privazione della grazia e dei doni particolari che erano stati
offerti da Dio all’umanità primitiva perché questa li trasmettesse a chi doveva
nascere dopo. Così sarebbe cominciata anche la condizione, non sempre
favorevole, dell’uomo in questa vita.
-“L’incomprensibilità
del dolore è un frammento dell’infinita incomprensibilità di Dio (K. Rahner).
La fede cristiana insegna che “il Cristo non ha soppresso la
sofferenza, non ha neppure voluto svelarne tutto il mistero: l’ha presa su di
sé e questo è abbastanza perché ne comprendiamo tutto il significato”. Partendo
da Cristo il dolore non può più essere inutile ma necessario, anche se noi non
ne comprendiamo appieno il significato e la finalità. “La sofferenza fa parte
dell’uomo. Fa parte, di fatto, dell’essere pienamente uomo in questo mondo:
l’amore stesso è collegato alla sofferenza. E’ attraverso la sofferenza che
l’uomo giunge alla vita. Perché sia così, perché ciò sia positivo e sensato per
l’uomo, perché non sia meglio fare a meno della sofferenza, sfugge alla mente
umana. Se però ci rapportiamo fiduciosamente alla sofferenza, alla morte e alla
nuova vita di Gesù, già nel presente possiamo accettare come sensato un simile
stato di cose, fondandoci sulla certezza della speranza che il senso riposto si
manifesti nel compimento finale”(H. Kung).
In conclusione, se tutte le altre
risposte sul perché soffriamo, sul perché Dio ci lasci soffrire, non
risultassero soddisfacenti, basti dire che se Dio è giusto, e per definizione
lo è altrimenti non sarebbe Dio, quello che fa e permette deve essere
necessario e giusto, deve avere un senso ultimo positivo, anche se noi non lo
conosciamo. A partire da Dio il dolore del mondo si può quindi considerare un
“mistero” ma non un’assurdità.
I problemi
Gli
argomenti sopra esposti sono stati criticati in vari modi.
Bisogna innanzitutto oggettivamente distinguere il dolore di
cui noi potremmo essere responsabili (che dipenderebbe da noi) da quello di cui
invece non possiamo esserne responsabili (che non dipende da noi). E’ infatti
molto diverso trovarsi a soffrire sapendo che è giusto così, che lo si deve
accettare perché se ne è responsabili, dal trovarsi a soffrire sapendo che non
se ne è responsabili e che quindi si ha il diritto di protestare, ribellarsi e
rifiutare tale situazione.
Dolore
di cui potremmo essere responsabili.
La strategia di difendere Dio
accusando l’uomo, interpretando la sua sofferenza come pena per il suo peccato
appare a molti poco credibile. Innanzitutto per l’immagine di Dio che ne
deriva: un Dio vendicativo che punisce direttamente l’uomo appare troppo
antropomorfo e banale. Inoltre se nell’Antico Testamento è presente un nesso
tra malattia, sofferenza e peccato, nel Nuovo Testamento Gesù spezza
fondamentalmente questo legame di causa ed effetto tra malattia e colpa,
opponendosi alla tendenza di riportare malattie e sventure a precisi peccati
del malato o dei genitori.
Poi per i problemi teologici,
psicologici e filosofici inerenti la tematica della colpa, ossia sull’abuso della libertà.
Problemi di ordine teologico: la libertà dell’uomo non è
autonoma ma teonoma, cioè resa possibile da Dio, da lui posta e accolta, che si
fonda sulla sua responsabilità. Per alcuni (es. K. Rahner) circa il rapporto
tra libertà divina e umana è anche possibile che Dio, senza intaccare o
diminuire la libertà della creatura, possa impedire nella sua predestinazione
della libertà creaturale che nel mondo si verifichi la colpa; ma è discusso se
una volontà infallibilmente predestinata al bene consenta quel tipo di bene
possibile solo ad esseri liberi che possano scegliere il bene e anche il male.
Si potrebbe anche domandare: garantire
all’uomo la libertà di fare il male vale un prezzo cosi alto? Se la libertà di
una persona implica il potere di sterminare milioni di propri simili, il
desiderio delle vittime del dittatore sarebbe senz’altro quello di limitarne la
libertà. Perché egli sia libero, essi devono essere massacrati. Con tutto
ciò non finiamo con l’assegnare un prezzo troppo alto alla sua libertà, dato
che se lui è libero loro perdono non solo la libertà ma anche la vita? Non
sarebbe meglio non scegliere di creare un universo nel quale incalcolabili
sofferenze potessero essere inflitte da alcune persone ad altre? Non sarebbe
meglio astenersi dalla creazione se l’unico mondo che si può realizzare è come
questo? (J. Hospers). Insomma, non è scontato credere che la bontà del libero
arbitrio ecceda cosi tanto il male che può essere liberamente compiuto.
Problemi di ordine psicologico: l’uomo è, in larga misura,
il prodotto incolpevole della sua società, del suo periodo storico, della sua
evoluzione individuale, della sua ereditarietà genetica. Tali condizionamenti
limitano certamente la sua libertà e quindi anche la sua responsabilità.
Problemi di ordine filosofico: la volontà è libera di
scegliere tra il bene (almeno apparente) che le propone l’intelletto e il male,
meglio il bene minore, a cui la inducono le passioni - cioè la volontà si
autodeterminerebbe indipendentemente dai motivi che le si presentano davanti
(indeterminismo)? oppure la decisione spetta esclusivamente ai due elementi
contrastanti e al gioco delle loro forze – cioè la volontà sarebbe
necessariamente mossa e determinata dal motivo prevalente (determinismo)?
Teoreticamente non sembra possibile una soluzione, perciò la colpa è
problematica essendo possibile solo con l’indeterminismo. Non è dato pertanto
sapere se e come sia possibile una libera scelta consapevole e volontaria del
male o di un bene minore. Non abbiamo concetti per spiegare una volontà del
male in quanto l’uomo è orientato a ciò che gli appare come bene.
Ancora più problematico risulta
stabilire quale sia l’essenza della colpa;
in termini etici, si può dire che sia l’“inadempimento del proprio dovere”.
Significa aver fatto (o non aver fatto) ciò che si sapeva di non dover fare (o
di dover fare). Forse meglio, non essere stati ciò che invece si sarebbe dovuto
essere. Presuppone quindi che ci sia un dovere da adempiere, e che esso sia
riconoscibile. Ma quale sarebbe questo dovere,
questa norma assoluta?
Alcuni teologi fanno coincidere
questa norma assoluta con Dio. In effetti se Dio fosse intuitivamente conosciuto, visto che lo definiamo come
il sommo bene, non potremmo non sentirci “obbligati” a “seguirlo”. Infatti c’è
una sola cosa che noi vogliamo necessariamente: la beatitudine, la felicità, il
sommo bene. Non saremmo a priori d’accordo in che cosa consiste la beatitudine (nel piacere, nella potenza,
nella contemplazione di Dio) ma tutti vogliamo essere felici. E se ci
trovassimo di fronte a qualcosa che giudicassimo con piena evidenza capace di
darci la felicità, tutti vorremmo quella cosa. Ma Dio non ci è evidente e
quindi la maggior parte dei teologi sposta la norma assoluta da Dio all’orientamento, all’esigenza di Dio che sarebbe presente nell’uomo.
Ora, anche ammesso che in generale
si possa condividere la presenza di questa esigenza di Dio nell’uomo, occorre
ribadire che non è certo la stessa cosa sapere che Dio c’è e sapere che abbiamo l’esigenza
che ci sia. Nel primo caso sarebbe una certezza
nel secondo una semplice possibilità
ipotetica, tale per cui si potrebbe solo ricercare se sia anche realtà. Quindi
si può eventualmente definire il dovere solo come ricerca del sommo bene, ricerca della realizzazione della propria
essenza, visto che vogliamo essere felici e realizzarci. Bisogna
sottolineare “ricerca”: non si cercherebbe ciò che ci apparirebbe evidente. Il
problema sta appunto nel sapere qual è la nostra essenza, la nostra natura:
solo animale (“materiale”) o anche
divina (soprannaturale)? In questa
incertezza di partenza non sembra possibile stabilire in modo universale cosa
sia bene, per attuarlo, e cosa sia male, per evitarlo. Bene e male
avrebbero un valore oggettivo solo se esistesse una meta dell’umanità
universalmente riconosciuta. Insomma, non sembra possibile stabilire quali
siano valori e disvalori nella vita se non ci si può riferire ad un valore
univoco e riconoscibile della vita. Il significato e il valore della vita può
essere solo ricercato, almeno finché non si avranno conferme universali
univoche. Ma né la modalità giusta con cui ricercare, né i risultati della ricerca, sono evidenti,
per cui questo dovere di ricercare si presenta come un qualcosa di indefinito,
soggettivo: non si dà alcuna verità assoluta evidente a priori da cui partire,
alcun punto archimedeo che indichi quale
via sicura per arrivare a quale esito
altrettanto sicuro nella ricerca della verità. Infatti si potrebbe forse dire
che un uomo, una volta trovatosi al mondo, senza averlo chiesto, avrebbe l’obbligo di cercare col massimo impegno
e fino all’ultimo giorno della sua vita, le risposte a quelle domande
esistenziali a cui non sa al momento rispondere? Questa sarebbe una pretesa
ingiustificabile. Un essere che si ritrova al mondo senza aver chiesto niente a
nessuno, senza che gli sia stato chiesto nulla, che, al momento (ideale) in cui
diventa consapevole e responsabile di sé, non ha ancora fatto niente di
moralmente significativo, né di bene né di male; che si ritrova cioè in una
situazione indipendente da lui, che subisce, non può essere assolutamente
soggetto ad alcun obbligo , non può essere coinvolto in alcun tipo di questione
morale. Al momento in cui uno si “sveglia” all’esistenza consapevole, non
sarebbe corretto si chiedesse: “che cosa devo fare ora?” come se fosse già
implicato moralmente in qualche affare, come se dovesse già darsi da fare per
qualcosa; la domanda corretta sarebbe semplicemente: “Beh, cosa succede?”, che
denota solo la presa di coscienza di esserci. Successivamente si potrà chiedere
“ Ed io chi sono? Cosa faccio?”- e non
“Cosa debbo fare?” - o anche: “cosa
dovrei fare per realizzarmi? Ma in che senso potrei realizzarmi? Quanto potrei
realizzarmi? Che impegno implica questa eventuale realizzazione?”. In questo
senso avevano parlato anche G. Leopardi
e L. Sciascia.
G.
Leopardi fa
dire all’islandese nei confronti della natura (che possiamo, ai fini della
questione, considerare Dio): “Ora domando: ti ho forse io pregato di pormi in
questo universo? O mi vi sono intromesso violentemente e contro tua voglia? Ma
se di tua volontà, e senza mia saputa, ed in maniera che io non potevo
sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato,
non è dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno,
almeno vietare che io vi sia tribulato e straziato e che l’abitarvi non mi
noccia?” (Dialogo della natura e di un islandese). E L. Sciascia aveva affermato: “Se la morte davvero ci porterà
davanti a Dio, è lui che dovrà renderci conto della vita. È lui che ci dovrà
delle spiegazioni”.
In altre parole: non può trattarsi di un
imperativo categorico (“devo fare questo”) bensì ipotetico (“se mi va bene
realizzarmi in questo modo possibile, allora
devo agire in questo modo”). Implica che possa scegliere liberamente se voglio impegnarmi in un certo modo
per realizzarmi in un certo senso, oppure impegnarmi in un altro modo per
realizzarmi in un altro senso (perché potrei reputare troppo impegnativo il
primo modo), oppure non impegnarmi affatto per alcun tipo di realizzazione
(perché potrei reputare troppo gravoso qualunque impegno). Presuppone si possa
valutare liberamente “quale impegno per
quale realizzazione”, confrontando utili e danni, rischi e certezze,
perdite e guadagni.
Quindi il ricorso alla responsabilità dell’uomo, sia riguardo
la sua incapacità di conoscere Dio sia riguardo la sua sofferenza, è
problematico: se personalmente, ognuno in base alla propria coscienza, non
siamo consapevoli o non abbiamo l’evidenza di alcuna colpa decisiva riguardo il
nostro essere, allora non potendo dire alcunché di certo sulla natura, sulla
gravità e sulle conseguenze (pena) di questa ipotetica colpa, ne consegue che,
per quello che sappiamo, potremmo essere sì colpevoli (in debito), ma anche
innocenti (in pareggio) o anche addirittura in credito (per una
supererogazione: eccesso di impegno nella ricerca, o di bene già attuato, o di
pena già pagata). Pertanto nella misura in cui queste tre ipotesi sulla nostra
condizione di coscienza (debito, pareggio, credito) sono ipotesi gratuite,
essendo uguali e contrarie, si annullano a vicenda, e quindi dovremmo assumere
di essere innocenti.
È una situazione analoga a quella in
cui per es. ci venisse detto che noi dobbiamo pagare (soffrire o non poter
conoscere la verità sul nostro destino) in questa vita per le colpe commesse in
una vita precedente: risponderemmo che non sappiamo se veramente abbiamo
vissuto in una ipotetica vita precedente a questa; se anche l’avessimo vissuta,
non sappiamo se e quanto male avremmo
eventualmente commesso ma neanche se e quanto bene avremmo eventualmente commesso, magari da pareggiare il male o
addirittura da essere in esubero, tanto da trovarci ora in credito e poter quindi pretendere, non
solo di non dover soffrire, ma di essere felici e di conoscere la verità.
Quindi, come in questo caso il ricorso ad una ipotetica vita precedente non
sarebbe per nulla risolutivo riguardo il nostro stato in questa vita, così lo è
il ricorso ad una ipotetica colpa
radicale dell’uomo in questa vita di cui non
siamo consapevoli.
Dolore di cui non possiamo essere
responsabili.
- Il peccato
originale.
Sono numerosi i problemi a cui va
incontro tale dottrina. Per cominciare, nonostante il “luogo teologico” del
peccato originale si trovi nelle prime pagine della Bibbia ebraica (con qualche
semplificazione, Antico Testamento per i cristiani), in Genesi 3, l’ebraismo non ha alcuna dottrina al riguardo, è una
“invenzione” del cristianesimo, ovvero di Paolo e Agostino.
Altra difficoltà nell’utilizzare il
peccato originale per spiegare l’intrusione del male nell’ordine del creato,
consiste nel fatto che le cause del male naturale precedono temporalmente
l’apparizione della specie umana. Già prima che gli esseri umani apparissero
sul nostro pianeta, la vita era già caratterizzata da sofferenze, malattie,
lotte e morte. È quindi impossibile attribuire questi fenomeni al peccato
originale dei nostri antenati.
Ancora. Come testimoniano la
biologia e la storia, la natura umana è emersa solo gradualmente, secondo un
processo ininterrotto, da altre forme di primati e di umanoidi. Non esiste
alcun periodo del passato per cui vi sia ragione di affermare che gli esseri
umani possedevano una perfezione morale all’interno di una situazione
paradisiaca da cui, successivamente, non vi fu che il declino. Tutte le prove
puntano a una creatura che affiora lentamente alla consapevolezza, con una
crescente capacità di coscienza, sensibilità e quindi responsabilità morale.
Non ha dunque senso parlare di una “caduta” da una condizione di precedente
perfezione (A. Peacoke).
Se
si afferma poi che il peccato originale è “un fatto che è accaduto all’inizio
della storia dell’umanità” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 390), allora
questo presuppone l’affermazione del monogenismo,
la riconduzione cioè di tutto il genere umano a un'unica coppia primordiale. Ma
i dati della ricerca scientifica (ritrovamenti fossili) sulle origini
dell’umanità portano a sostenere piuttosto la teoria opposta, il poligenismo.
Ma
a parte i problemi scientifici, il problema più decisivo è di natura logica e
morale e riguarda precisamente la trasmissione
del peccato di “Adamo” a tutti i suoi discendenti. Come può essere che il
destino di miliardi di esseri umani dipenda dalla colpa di uno sconosciuto in
un lontanissimo passato? (e poi, se Adamo era così perfetto, perché ha potuto
peccare? Che razza di santità e giustizia è quella che alla prima occasione ha
disprezzato il comando di Dio?).
Molti teologi affermano che il
peccato originale non può significare che l’originaria azione personale della
libertà dei primi uomini trapassi su di noi come una nostra qualità morale,
perché una colpa personale non può essere trasmessa essendo per definizione un
atto personale compiuto nella libertà individuale. Si può pur dire che noi non
ne assumiamo la responsabilità ma solo le conseguenze, ma il problema non
cambia. Anche fare ricorso alla solidarietà degli uomini nel male non risolve
la contraddizione: si diventerà peccatori nella misura in cui, dall’età che
consente atti liberi, si cederà alla tentazione degli altri: ma questo non è
peccato originale bensì peccato attuale. In conclusione, si tratta di
un’assurdità logica (il peccato, che
presuppone un atto di libertà, contratto in virtù di una colpa altrui) e teologica (Dio, la suprema giustizia,
che imputa a degli innocenti il peccato/ le sue conseguenze di/ad un altro).
E’ evidente che quindi molti teologi
cerchino di interpretare il peccato originale o come modo simbolico di esprimere l’inizio di questa situazione di male, o
come colpa di tutti i tempi, o
facendolo coincidere con il peccato del
mondo; ma così diventa peccato attuale e non si può più considerarlo come
causa originaria della nostra sofferenza, ignoranza, morte.
Riguardo l’“idea del serpente”, non
sembra questa serva a molto per chiarire la questione originaria del male: se
infatti si sposta l’origine del male dall’uomo a satana, perché nel primo
appare problematico, non si capisce allo stesso modo da dove venga il male in
quello stesso spirito creato buono; inoltre se si dice che l’uomo avrebbe
peccato anche per istigazione di
satana, a prescindere da tutti i problemi circa la sua esistenza e la sua
influenza sull’uomo, si può dire che l’uomo avrà peccato nella misura in cui
avrà ceduto alle sue tentazioni, ma questa ipotetica colpevolezza è soggetta
alla stessa problematicità per la colpevolezza in generale sopra descritta.
Altro problema, collegato al
precedente, è questo: quale Dio avrebbe permesso le conseguenze del peccato
originale? Qualche teologo paragonava la trasmissione del peccato originale a
un fiume che sarebbe stato avvelenato dai primi uomini e così l’acqua inquinata
sarebbe arrivata agli uomini successivi, con esiti negativi. Quindi Dio non
c’entrerebbe niente, sarebbe successo così solo per colpa dei primi uomini e
noi ora ne pagheremmo le conseguenze.
Ma che né è dell’onnipotenza di Dio,
della sua provvidenza, della sua cura per gli uomini? Per colpa di Adamo ed Eva
tutto il resto dell’umanità, miliardi e miliardi di uomini, avrebbe subito
sofferenza, malattia, ignoranza, morte. Per colpa di due sprovveduti, Dio
permette che venga mutato il destino di tutti gli uomini successivi? Quale Dio
ha permesso che ciò accadesse? Perché non è intervenuto?
Si può dire che Dio non è
intervenuto là a fermare il serpente (diciamo così) come non interviene qua a
livello naturale di questo mondo, perché ha voluto la libertà di Adamo ed Eva
come vuole la libertà di tutti gli altri uomini. Ma è vero? È un’ipotesi
credibile che per salvaguardare la libertà di due uomini Dio impedisca ai miliardi
di uomini successivi di vivere senza sofferenza, ignoranza e morte? Si può
dire che subentra “subito” la redenzione di Cristo, purtroppo però come si è
visto questo non è evidente.
In definitiva, sono troppi e
importanti i problemi cui va incontro la classica dottrina del peccato
originale per ritenerla sufficientemente credibile.
- Il dolore come componente inevitabile della creazione divina del mondo.
Alle affermazioni che giustificano
in qualche modo il male e il dolore al fine della realizzazione della
creazione, si può controbattere dicendo che può anche non valere la pena pagare
un così caro prezzo per la conquista del raggiungimento finale dell’evoluzione
e della creazione. Per qualcuno, se il miglior universo che Dio fosse stato in
grado di realizzare fosse pieno, come questo, di dolore e sofferenza, forse avrebbe
dovuto astenersi dal crearlo (J. Hospers).
Anche il concetto del male come
semplice privazione di bene non ha
alcun valido contributo da offrire: infatti perché manca ciò che ci dovrebbe
essere? Perché Dio avrebbe creato un mondo nel quale si fa l’esperienza della
mancanza di bene, e tale esperienza è sentita come dolorosa? Perché consente
ancora queste deficienze di bene? I fatti della realtà non cambiano se vengono
classificati come positivi o negativi: la sofferenza esiste, e non è
minimamente alleviata dalla considerazione che “è soltanto negazione”.
Per coloro che soffrono e disperano
non è di alcuna consolazione, anzi potrebbe sembrare oltraggioso, sentirsi dire
che non vi è nulla di male nelle loro sofferenze se vengono considerate un
contributo involontario alla bellezza e alla finalità dell’universo.
Si ricordi a tal proposito la
rivolta di Ivan ne I fratelli Karamazov di
Dostoevskij: “Non ho certo sofferto
per concimare con le mie pene e le mie malefatte un’armonia futura a favore di
chissà chi […] Finchè c’è tempo, mi affretto a preservarmi e perciò rinnego
assolutamente questa suprema armonia. Essa non vale neppure una lacrima di
quella bimba straziata che si batteva il petto con il piccolo pugno e pregava
il ‘buon Dio’ in quel fetido buco. Non la vale perché quelle lacrime non
troveranno riscatto. Devono essere riscattate, altrimenti non vi può essere
armonia alcuna. Ma come, in che modo le riscatti? E’ forse possibile? Saranno
poi davvero vendicate? Ma che importa vendicarle, che importa l’inferno per i
carnefici, a che cosa può rimediare l’inferno quando i bambini sono già stati
seviziati?[…] Non voglio l’armonia, è per amore dell’umanità che non la
voglio”.
Nel nostro tempo prosegue tale
rivendicazione il filosofo francese A.
Camus ne L’uomo in rivolta: “La
rivolta metafisica è il movimento per il quale un uomo si erge contro la
propria condizione e contro l’intera creazione. E’ metafisica perché contesta i
fini dell’uomo e della creazione. […] L’insorto rifiuta la sua approvazione
alla condizione che gli è propria. […] Protestando contro la condizione in ciò
che essa ha d’incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male,
la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di un’unità felice, contro
la sofferenza di vivere e di morire. […] Se il male è necessario alla creazione
divina, allora questa creazione è inaccettabile. Ivan non si rimetterà più alla
volontà di questo Dio misterioso, ma ad un principio più alto, che è la
giustizia. […] ‘Tutta la scienza del mondo non vale le lacrime dei bambini’.
Ivan non dice che non vi sia alcuna verità. Dice che se verità c’è, non può
essere altro che inaccettabile. Perché? Perché è ingiusta”.
Questo sembrerebbe indicare (o è un
altro modo di dire) che ci sarebbero dei mali “assoluti”, gratuiti, in eccesso,
che non possono essere giustificati, nè in questo mondo né in nessun altro.
Infatti, può esser vero che un Dio
perfetto, onnipotente e buono pur potendo non necessariamente vorrebbe
eliminare ogni male, potrebbe
permettere qualche male, per evitare un male peggiore o perdere un bene
maggiore (piuttosto che compromettere qualche aspetto positivo, per esempio la
libertà). Però non ci sono alcuni
mali che un Dio perfetto dovrebbe eliminare?
Il filosofo W. Rowe sostiene che ci sono molti o alcuni mali per i quali non
capiamo che ragioni un Dio perfetto potrebbe avere per permetterli e invece
abbiamo consapevolezza di tante ragioni per cui avrebbe per eliminarli.
L’esempio ormai famoso che Rowe offre
di un simile male è la sofferenza atroce di un cerbiatto, che dopo essersi
ustionato per un incendio, soffre atrocemente per qualche giorno e poi muore.
Per quanto sappiamo, dice, la sofferenza del cerbiatto non ha senso.
Rowe chiama questi mali “mali gratuiti”:
un male gratuito è un male per cui siamo autorizzati a credere che non vi sia
alcun bene che possa compensare quella sofferenza. Non sembra esservi un bene
maggiore tale che l’eliminazione della sofferenza del cerbiatto avrebbe causato
la perdita di quel bene. Non sembra esservi un male di uguale o maggior peso
che avrebbe dovuto aver luogo se quella sofferenza fosse stata eliminata. Visto
che la sofferenza è un male, un Dio perfetto avrebbe una ragione per
eliminarla, mentre non capiamo che ragione Dio avrebbe per permetterla. Da
questo Rowe conclude che la
sofferenza del cerbiatto sembra essere un male che un Dio perfetto
eliminerebbe, se esistesse, e che sembrano esservi molti altri mali che un Dio
perfetto eliminerebbe, se esistesse. Nell’assenza di ragioni per credere che le
apparenze ingannino, dovremmo credere che le cose stiano come sembrano stare (o
nell’assenza di fattori che inducono a credere che queste ragioni esistano, è
ragionevole concludere che non esistono). Conclude quindi che siccome ci sono mali
che un Dio perfetto eliminerebbe, se esistesse, allora tale Dio non esiste.
A
questo argomento di Rowe è stato
ribattuto, per esempio da S. Wykstra,
che per il fatto che non sappiamo perché un Dio permetterebbe un male, non ne
segue che non c’è un perché. Forse il male è legato in un modo non
comprensibile a noi uomini a qualche bene maggiore a noi del tutto ignoto. Se
non abbiamo la più pallida idea di quali ragioni un Dio perfetto potrebbe avere
per permettere un certo male, possiamo concludere che o tali ragioni ci sono
inaccessibili a noi uomini, o non esistono. Perché dovremmo optare per la
seconda possibilità? Noi non sappiamo che se ci fossero delle ragioni
dovrebbero per forza essere conosciute da noi: data la possibilità di beni e
mali ignoti (e nessi ignoti tra beni e mali) e dato che un Dio perfetto sarebbe
onnisciente, non vi è nessuna buona ragione per credere che se un Dio
onnisciente avesse buone ragioni per permettere il male, tali ragioni sarebbero
in ogni caso accessibili per noi uomini (posta l’infinita differenza tra le
capacità cognitive umane e i divini propositi).
Ma anche se questa critica di S. Wykstra dice qualche verità, ci sono
comunque dei problemi.
Come dice L. T. Zagzebski se partiamo dall’idea che è improbabile che noi
possiamo cogliere una ragione giustificativa
dell’ammissione del male da parte di Dio, ciò rappresenta una grave
minaccia di infalsificabilità del teismo. Una teoria non è falsificabile quando
è compatibile con qualunque osservazione, che è poi come dire che è
inconfutabile. E di solito si ritiene che una teoria non falsificabile sia
viziata, imperfetta.
Inoltre, come afferma C. Hughes, noi di solito non prendiamo
sul serio la possibilità che per ogni male al mondo ci sia una ragione per la
quale un Dio perfetto non vorrebbe eliminarlo. Prendiamo l’esempio di un uragano:
mettiamo che sentiamo dalla TV che un uragano minaccia una zona densamente
popolata sull’oceano; se non cambia direzione provocherà danni ingenti, molte
sofferenze, molte morti; se invece cambia direzione si spegnerebbe in una zona
disabitata. Noi certamente spereremmo che l’uragano cambi rotta. Ma questo
presuppone che noi non pensiamo che i danni che provocherebbe l’uragano siano
legati a doppio filo con il guadagno di altri beni maggiori. Se prendessimo sul
serio tale possibilità, che i mali siano inseparabili dalla presenza di bene,
non sapremmo se sperare o men oche l’uragano non investa l’isola. Ma ben pochi
smetterebbero di credere che dovremmo sperare che l’uragano non colpisca la
zona popolata.
O per tornare all’esempio del
cerbiatto: supponiamo che un cacciatore si imbatta in quel cerbiatto morente
che soffre già da molto e che continua a soffrire. Pur non avendo la
possibilità di salvargli la vita, il cacciatore ha la possibilità di mettere
fine alle sue sofferenze. Supponiamo che il cacciatore non disponga di alcuna
ragione per pensare che non potrebbe mettere fine alle sofferenze del cerbiatto
senza perdere un bene maggiore. Dovrebbe forse astenersi dallo sparare perché
forse, chissà, ci sono dei beni maggiori che quel cerbiatto potrebbe guadagnare
con le sue sofferenze? anche e soprattutto visto che, se un Dio esistesse e non
è intervenuto, vuol dire che intervenendo avrebbe perduto un bene maggiore? Il
cacciatore non saprebbe se farebbe bene o male a sparare? Per Hughes, anche se il cacciatore non
potrebbe pretendere di sapere con certezza che farebbe bene a sparare, potrebbe
comunque crederlo.
Quindi qualcuno potrebbe anche
concludere che, siccome da un Essere perfetto, onnipotente e buono prima facie ci si aspetterebbe che non
consentisse certi mali presenti nel mondo,
allora, per interpretare i mali del mondo come permessi da un Dio per
delle misteriose finalità, vorremmo almeno sapere se queste presunte finalità
di un Dio esistono davvero (anche senza sapere quali siano). In generale e in
conclusione su questo argomento del “dolore come componente inevitabile della
creazione divina del mondo”, si può dire che esso risulta o meno convincente in
base alla nostra forte o scarsa convinzione che un possibile Dio creatore e/o
ordinatore dell’universo, perfetto, buono e onnipotente abbia delle buone
ragioni (oppure no) per permettere certi mali che a noi appaiono orribili e
gratuiti.
- Non si possono avere dei beni senza la possibilità di certi mali.
L’obiezione generale è che si può
dubitare che la bontà di certi beni possa giustificare tutta la sofferenza e il
dolore del mondo.
Inoltre, cosa importante, certi mali
rendono possibili non soltanto certi beni ma anche altri mali. La paura, oltre
a rendere possibile il coraggio, consente la codardia. La sofferenza oltre alla
compassione rende possibile la brutalità. Se la speranza è possibile, lo è
anche la disperazione.
Nessuno contesterà che alcune persone siano maturate nella loro
fede in Dio e nella dedizione al prossimo in seguito ad una sofferenza
personale. Da questo però non possiamo certo dedurre la necessità o addirittura
la significatività del dolore. I bambini arrostiti dalle bombe al napalm non
hanno subito alcun processo di maturazione umana. Esistono innumerevoli casi in
cui il dolore, nonostante la buona volontà di sopportarlo umanamente (e
cristianamente) pone esigenze inaccettabili all’uomo, ne piega e danneggia il
carattere, lo costringe ad occuparsi solo dei bisogni più primitivi
dell’esistenza e lo istupidisce o lo rende cattivo. Possiamo anche chiederci se
una situazione meno dolorosa non potrebbe far maturare anche meglio l’umanità
sotto il profilo morale.
Si può anche pensare che forse un
Dio onnipotente potrebbe sempre creare esseri umani capaci di sviluppare
qualità morali senza massacrarsi fra loro. È vero che, dato il mondo com’è ora, le qualità morali sono molto
importanti. Il coraggio, per es, è prezioso se si deve andare in guerra. Ma non
sarebbe meglio un mondo senza guerra? E le virtù umane non potrebbero forse
esercitarsi in altri modi, ad esempio nell’autodisciplina necessaria per
condurre a termine una proficua attività creativa? Insomma, molte di quelle che
definiamo virtù morali sono tali soltanto a causa del male che caratterizza il
mondo in cui viviamo, e si potrebbe dire che se ne farebbe volentieri a meno se
mai il mondo fosse tanto migliore da non richiedere la presenza delle virtù. A
quelle virtù che dipendono dal fatto che nel mondo c’è il male, si può pensare
che vi potremmo certo rinunciare, se il male non ci fosse più.
- Il dolore come orientamento alla vita eterna.
Nessuno può dimostrare che il dolore sia il mezzo
assolutamente necessario per raggiungere la vita eterna: poiché la vita eterna
è senz’altro concepibile anche senza il mezzo del dolore, essa può venire
pensata come superamento del dolore, però non lo legittima. Inoltre, e fondamentalmente, noi ora non sappiamo se vivremo una vita ultraterrena, né se questa sarà
significativa per noi.
-“L’incomprensibilità
del dolore è un frammento dell’infinita ’incomprensibilità di Dio”.
E’ indubbiamente vero che, sia
partendo da un Dio in genere, sia, a maggior ragione, a partire da un Dio
Crocifisso, si deve concludere che anche il dolore deve essere necessario e non
assurdo, perché Dio, se vuole essere e rimanere tale, non può né essersi
sbagliato, né essere ingiusto. Molti teisti sostengono con tutta naturalezza
che il problema della teodicea è destinato a rimanere irrisolto, che è da
considerarsi insolubile: non sappiamo per quali ragioni Dio avrebbe creato un
mondo carico di male e sofferenze, e quindi sarebbe meglio smettere di porsi
tali domande. Ma, arrivare ad una conclusione del genere, porta anche alla
possibilità di trarre ben altre conseguenze rispetto a quelle teistiche. Non è
facile capire come si possa considerare insolubile il problema e continuare,
come se niente fosse, a proclamare il messaggio di un Dio buono e onnipotente. Infatti la soluzione non è convincente perché,
rigorosamente parlando, non sappiamo
nemmeno se Dio esista, se si sia rivelato e se ci salverà dalla morte (A.
Kreiner).
Il problema sta proprio nel sapere
come possiamo avere l’evidenza che possiamo partire da un Dio. Ricorrere al
mistero stesso di Dio sarebbe l’unica “soluzione” accettabile solo se si sapesse che Dio esiste
realmente e fosse significativo per l’uomo, ma questo (da quanto si è visto fin
qui) rimane fuori dalle nostre possibilità.
Riguardo il Dio Crocifisso è
emblematico il noto passo di A. Camus:
“Cristo è venuto a risolvere due problemi principali, il male e la morte. La
sua soluzione ha consistito innanzitutto nell’assumerli in sé. Anche il dio
uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più imputabili, poiché è
straziato e muore. […] Poiché Cristo aveva sofferto il più grande dolore, e
volontariamente, più nessuna sofferenza era ingiusta, ogni dolore era
necessario.[…] Ma dacchè il cristianesimo, all’uscire dal suo periodo
trionfante, s’è trovato sottomesso alla critica della ragione, nella misura
esatta in cui la divinità di Cristo è stata negata, il dolore è ridivenuto
appannaggio degli uomini. Gesù ucciso è solo un innocente in più…”. In altre
parole, visto che la ricerca storico-critica non è in grado di far conoscere in
maniera incondizionata che in Gesù sarebbe data l’automanifestazione di Dio, il
ricorso all’accettazione della sofferenza da parte di Gesù non è purtroppo
risolutivo.
Alla fine la sofferenza riceverebbe senso – un
senso assoluto, una giustificazione piena, sarebbe riscattata – solo a partire
da Dio, perché se lui la permette (e in Gesù l’avrebbe addirittura presa su di sé) significa che è
necessaria, non è inutile e assurda ma deve avere qualche ragion d’essere che
solo Lui conosce. Ma se Dio non esistesse, la sofferenza rimarrebbe inutile, si
soffrirebbe per niente, perché, se finisse tutto con la morte, non avremmo
alcuna spiegazione sulla sua eventuale necessità e non potrebbe essere
riscattata in un'altra vita definitivamente felice in Dio. Nella misura in cui
Dio rimane incerto - nella sua esistenza, nella sua identità e nella sua
significatività per l’uomo e il suo destino - la sofferenza rimane suscettibile
di essere inutile e assurda, disperata. Pertanto soffrire e non essere certi
della presenza di Dio, che solo potrebbe rendere questa sofferenza non assurda,
costituisce la situazione più critica dell’esistenza.
In
altri termini, si può anche dire che la realtà del male e del dolore non sono
necessariamente in sé un grave argomento contro l’esistenza
di un Dio perfetto, onnipotente e buono (seppur non siano di per sé ovviamente
nemmeno un argomento a favore) poiché forse potrebbero avere un senso o essere
riscattati da un Dio, se questo esistesse. A farne una realtà contro
l’esistenza di Dio è l’incertezza sul
loro senso e sul loro riscatto. Un
dolore che ha qualche senso può essere accettato, un dolore inutile, no. Così, pensare
che solo Dio possa riscattare il dolore nella vita, e non sapere se Dio esista,
non è una grande consolazione e rende la vita medesima nella sofferenza
difficile da essere accettata. Quindi il fatto che un Dio creatore possa
lasciare la sua creatura nel dolore e contemporaneamente
nell’ignoranza sul senso di questo dolore,
può far pensare che la sua stessa
esistenza in quanto “Dio significativo per l’uomo” sia problematica. Naturalmente il valore di queste
conclusioni dipende dalle previe convinzioni, forti o deboli, che uno ha già maturato
sull’esistenza di un Dio in base ai
diversi argomenti possibili già considerati (ontologici, cosmologici, teleologici,
esperienziali, morali, storici relativi a qualche religione rivelata, ecc.).
In
conclusione, è difficile valutare la portata dell’argomento del male/dolore
contro l’esistenza di Dio - Dio, la cui caratteristica essenziale è il mistero
a noi incomprensibile, potrebbe, ancora una volta e nonostante tutto ciò,
sempre esistere e forse riscattare una simile situazione-limite di dolore e
ignoranza - ma certo può mettere alla prova la fede del credente quanto
rafforzare l’incredulità del non credente.
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