I contenuti fondamentali
L’ebraismo - termine che in senso stretto
identificherebbe l’insieme della religione e della cultura di Israele anteriori
all’esilio in Babilonia, e cioè al 586 a.C., mentre con giudaismo si indicherebbe l’epoca storica successiva, anche se
entrambi possono avere un senso più ampio e sono spesso usati come sinonimi -
risale al II millennio a.C.. I contenuti fondamentali dell’ebraismo sono: il
monoteismo, il patto di Dio con Israele e la legge, e i divini precetti.
Il monoteismo: i giudei credevano
nell'esistenza di un solo vero Dio che aveva creato il mondo e continuava a
governarlo. Il monoteismo giudaico era esclusivo (non come quello di filosofi
greci arrivati alla fede in un unico Dio che però coesisteva con una prassi
politeistica) e anche etico: Dio è considerato il fondamento e la quintessenza
della volontà morale.
Il patto di Dio con Israele e la legge: i giudei credevano che
Dio avesse scelto Israele e avesse
stabilito con lui un patto. I tre momenti più importanti nella storia di questo
patto erano la chiamata di Abramo (Gn 17), l'esodo dall'Egitto (Es 14) e la
rivelazione della legge divina a Mosè sul monte Sinai (da Es 19,16 fino alla
fine del Deuteronomio). Il patto si configura come puro dono: la torah o
“legge” era stata data affinchè il popolo potesse permanere in questo patto e
non, per esempio, per esserne fautore, attraverso l’osservanza del
comandamento. La torah correttamente intesa non è una legge nel senso che
richiederebbe una obbedienza puramente legale, ma è grazia e dono di Dio, e
tale obbedienza è la risposta a un
precedente dono di Dio.
I
divini precetti: sono 613, dei quali
alcuni (248) imperativi positivi, altri (365) divieti. Nei comandamenti
positivi grande importanza hanno, oltre alle leggi etiche vere e proprie, le
regole di purezza, quelle alimentari, e le norme riguardanti il matrimonio. La
distinzione di puro e impuro infatti prescrive le abluzioni cultuali, il
lavaggio delle mani prima della preghiera mattutina e prima e dopo i pasti.
Anche le regole alimentari sono codificate con precisione sulla base
dell’esistenza di “cibi perfetti” e della separazione di carni e latticini,
nonché sul divieto di mangiare la carne di particolari animali. Altri
comandamenti fondamentali della religione ebraica sono la preghiera e la
festività del sabato e l’obbligo della circoncisione.
Brevissima storia di Israele (secondo la
Bibbia)
Il racconto della
Bibbia comincia con la creazione del mondo e dell’uomo e con la caduta di
quest’ultimo. Continua con le storie di Caino e Abele e con quelle del diluvio
universale (Noè), la costruzione della torre di Babele e la divisione dei
popoli; si concentra poi sul destino di una singola famiglia: quella di Abramo.
Secondo la Genesi si ha così il fatto fondamentale della storia ebraica: il
patto o alleanza tra Dio e Abramo, cioè la promessa di una discendenza
numerosa, di una protezione divina particolare e del possesso della terra
(questo periodo sembra risalire al 18° sec a.C.).
Dio scelse
Abramo per farlo diventare il padre di una grande nazione e Abramo seguì con
fede i comandamenti di Dio: partì con la sua famiglia, abbandonando la casa
natale in Mesopotamia, per arrivare alla terra di Canaan dove, per tutta la sua
lunga vita, si spostò straniero tra i popoli sedentari e dove dalla moglie Sara
ebbe un figlio, Isacco, il quale avrebbe ereditato la promessa divina fatta
inizialmente ad Abramo. Il figlio di Isacco, Giacobbe, il patriarca della terza
generazione, divenne il padre di dodici distinte tribù. Scesi in Egitto a
seguito di una carestia, i discendenti di Abramo vi rimasero forse per alcuni
secoli ma erano tenuti in schiavitù dal grande faraone.
L’intenzione
di Dio di rivelarsi al mondo si manifestò con la scelta di Mosè come
intermediario per chiedere la liberazione degli israeliti, in modo che
potessero seguire il loro vero destino. I libri dell’Esodo, del Levitico e dei
Numeri descrivono come il Dio d’Israele attraverso segni e miracoli condusse i
figli di Israele fuori dall’Egitto verso la libertà (l’esodo, databile intorno
al 13° sec a.C). Dopo la celebre attraversata del Mar Rosso gli ebrei rimasero
quarant’anni nel deserto e qui, sul monte Sinai, fu rinnovata l’alleanza di
Abramo: Mosè ricevette da Dio il decalogo e le altre leggi religiose, cultuali
e civiche che diedero agli ebrei struttura e coscienza di popolo. Segue il
racconto della conquista della Palestina o Canaan (caduta di Gerico con Giosuè
e lotte contro le popolazioni locali) e il governo dei “giudici” per circa due
secoli, fino all’avvento della monarchia con la proclamazione di Saul re e poi
di Davide, secondo la scelta ispirata del giudice, sacerdote e profeta Samuele
(regni databili intorno all’anno 1000 a.C.).
Davide
riuscì a conquistare quasi tutta la Palestina e fondò un grande impero, e il
suo successore, Salomone (ca. 961-922 a.C.) è celebrato per la costruzione del
maestoso tempio di Gerusalemme e per il suo regno florido e glorioso. Alla
morte di Salomone seguì la frattura dello stato in due regni: il regno
d’Israele, a nord, e quello di Giuda, a sud. I re di Israele furono oggetto di
violente polemiche da parte dei profeti del nord (Elia, Eliseo, Amos, Osea) che
nell’idolatria, nell’infedeltà all’alleanza e nella corruzione, presagirono la
rovina del regno. Ma anche di alcuni re di Giuda si dice che deviarono dal
sentiero della totale devozione a Dio, e così per tutti, Dio mandò invasori ed
oppressori esterni in modo da punire il popolo d’Israele per i suoi peccati:
prima, dalla Siria, gli aramei misero a ferro e fuoco il regno d’Israele; poi
fu la volta del potente impero assiro: le città del regno settentrionale
subirono una devastazione senza precedenti e nel 720 a.C. una significativa
parte delle dieci tribù patì l’annientamento e l’esilio. Il regno di Giuda
sopravvisse ancora per un secolo (benché come tributario prima dell’Assiria,
poi degli egiziani e quindi dei neobabilonesi).
In questo
periodo il re di Giuda Gioisia (640-609 a.C.) realizzò la grande riforma
liturgica che contribuì a plasmare in modo definitivo la religione ebraica in
quanto religione dell’unico Dio e dell’unico tempio con l’esclusione degli
antichi santuari locali. Ma anche Giuda doveva essere punita e così avvenne:
nel 586 a.C. con l’ascesa del brutale impero babilonese la terra di Giuda fu
decimata e Gerusalemme dato alle fiamme insieme al suo tempio. Gli abitanti
della città furono deportati a Babilonia, e Giuda divenne parte di una
provincia babilonese.
La
“cattività babilonese” fu per gli ebrei un periodo di riflessione, di
riorganizzazione sociale e religiosa, di raccolta e rielaborazione delle
tradizioni poi redatte nei libri biblici, di ripensamento della propria
identità. Le personalità dominanti nel cinquantennio dell’esilio furono il
profeta Geremia (in Giuda), il profeta Ezechiele e il Deuteroisaia in
Babilonia. Al ritorno in Giuda (permesso dal re persiano Ciro) si cominciò la
ricostruzione del tempio di Gerusalemme, consacrato nel 515 a.C. (comincia così
l’era dell’ebraismo del Secondo Tempio).
Nei decenni
successivi si incontrano i profeti Malachia, Esdra e Neemia. Al periodo
persiano (concluso nel 333 a.C.) seguì il periodo ellenistico (333-63 a.C.)
durante il quale l’ellenismo, come modello di vita e cultura, è imposto anche
ad Israele dalla dinastia dei Seleucidi, originata dalla spartizione
dell’Inpero di Alessandro Magno. Si ha in questo periodo (167 a.C.) quello che
la bibbia definisce “l’abominazine della desolazione”, cioè viene inaugurato
nel tempio il culto di Zeus Olimpio. A questo fece seguito la rivolta dei
maccabei che riuscì a liberare quasi completamente Gerusalemme dalla pressione
della civiltà greco-ellenistica. Si formano in questo periodo i vari movimenti
come i Farisei, gli Esseni e i Sadducei.
Ma la
fragile libertà giudaica non potè resistere all’ingresso della potenza romana
in Asia: Pompeo entrò in Siria nel 64 a.C. e nel 63 a.C. occupò Gerusalemme ed
espugnò il Tempio. Per oltre vent’anni la comunità giudaica fu retta dal sommo
sacerdote Ircano, sotto il controllo del governatore romano della Siria. Ma nel
40 a.C. Erode il Grande viene riconosciuto da Roma re “federato” di un
territorio che egli estese a tutta la Palestina. Alla sua morte il regno fu
smembrato fra i figli Archelao, Erode Antipa, Filippo e la sorella Salome.
In questi
decenni si colloca la figura di Gesù di Nazaret. Il governo dei procuratori,
benchè gli ebrei godessero in patria e in tutto l’impero, di libertà religiosa
ed esenzione dal culto imperiale, fu sempre più spesso provocatorio e repressivo. Scoppiò così la guerra giudaica
nel 66 d.C. che finì nel 70 quando Titò sferrò l’attacco finale al Tempio di
Gerusalemme, dove si erano ritirati gli ultimi difensori, e fu dato alle
fiamme. Con le centinaia di migliaia di morti scomparve anche l’intera
struttura socio-religiosa che faceva capo al Tempio, scomparvero i sadducei,
gli esseni, gli zeloti, il sommo sacerdozio e il Sinedrio di Gerusalemme. La
sopravvivenza degli ebrei e dell’ebraismo dipese dall’esistenza di una vasta e
antica diaspora in tutto il bacino mediterraneo, dal distacco che si era
prodotto tra la classe sacerdotale sadducea e il popolo, e dall’opera dei
farisei, considerati guide spirituali. Ci fu una seconda guerra giudaica nel
132 fino al 135 in cui l’acclamato messia Ben Kosiba riuscì a tenere il tempio per
due anni circa. Ma anche da questa guerra la popolazione ebraica palestinese ne
uscì decimata, Gerusalemme fu ricostruita come colonia romana, la Giudea ebbe
il nome di Palestina, e agli ebrei fu vietato l’ingresso alla città santa. La
storia successiva degli ebrei, anche quando riguarda gruppi rimasti in
Palestina, è una storia diasporica.
Il punto di vista storico-critico e il senso dei racconti
biblici
Esaminiamo qui alcuni degli episodi raccontati nella Bibbia
ebraica (con buona approssimazione, l’Antico Testamento cristiano) ritenuti basilari
per la nascita e la configurazione dell’ebraismo, a partire dalla critica
storica per considerarne poi il senso e le finalità spirituali e umane.
La creazione
Le parole
con cui si apre la Bibbia hanno un’aura arcaica e solenne: “In principio Dio
creò il cielo e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre ricoprivano
la faccia dell’abisso e il vento di Dio si librava sulle acque”(Gen 1,1). È
chiaro che non dobbiamo prendere alla lettera tale testo (e il seguito del
racconto) come fosse una cronaca, anche perché nessun uomo a quel tempo stava a
guardare come stessero andando le cose, per poi poterle raccontare.
“Quando diciamo che Dio ‘crea’ l’universo - dice il teologo K. Ward - vuol dire semplicemente che
tutto – per quanto a lungo sia esistito – dipende sempre e in ogni momento da
Dio. […] Le storie della Bibbia esprimono significati spirituali, e non vanno
intese come verità letterali.” Si sta affermando soltanto che l’universo non è
autosufficiente. Le storie della Genesi ci danno la percezione dell’ordine
della creazione, della sua dipendenza da Dio. Questo è ciò che esprimono in una
meravigliosa opera di poesia. I cosmologi pongono l’accento sul “come” dell’universo
– sull’identificazione degli stadi del suo sviluppo, dal big bang a oggi –
mentre l’interesse dell’autore della Genesi è centrato sul “perché”
dell’universo. Della questione filosofica e scientifica della creazione abbiamo
già parlato in precedenza (vedi argomenti cosmologici e teologici di Dio). Se
il mondo deriva da una divinità e non “basta a se stesso” per esistere e per
essere quello che è (questione appunto dibattuta e controversa), è del tutto
inverosimile una creazione diretta del mondo qual è oggi, come è presentata
nella Genesi: l’azione di una divinità starebbe eventualmente nel porre in
esistenza gli elementi strutturali dell’universo e/o nel guidare il processo
evolutivo cosmico e biologico per arrivare alla vita e all’uomo. Una creazione
diretta di Dio in sei giorni è solo un racconto antropomorfico mitologico.
Nel testo
si parla di cielo, terra, tenebre, abisso, vento e acque, termini che evocano quanto vi è di più comune nei miti
dedicati alla nascita del cosmo presenti in molte culture. Né vi sono dubbi sul
fatto che i redattori del primo capitolo della Genesi conoscessero le grandi
narrazioni delle origini diffuse nel Vicino Oriente. Per la maggior parte degli
studiosi questo testo è stato concepito e scritto durante o, forse, subito dopo
l’esilio babilonese (586-536 a.C.) per una serie di solide ragioni, una fra le
quali è l’evidente influsso della mitologia mesopotamica: la descrizione del
mondo primordiale come “caos acquatico” (cfr. Genesi 1,2) è tipico della
Mesopotamia (pianura attraversata da due grandi fiumi) ma non lo è della terra
d’Israele dove il “caos primordiale” viene rappresentato piuttosto come una
terra desertica (cfr. Genesi 1,4b-5). Questo non vuol dire che l’autore di
Genesi abbia semplicemente copiato testi preesistenti: se è vero che la Genesi
rispecchia alcuni aspetti di miti dell’origine già presenti, è altresì vero che
se ne discosta su altri: per es. in Mesopotamia la “storia” inizia prima della
creazione del mondo e dell’umanità come una “storia” degli dèi che precede la
creazione del nostro mondo e che incide sulla natura e sul fine degli uomini,
mentre per la Bibbia l’inizio della storia coincide con l’inizio del nostro
mondo e in tal modo la libertà umana è meno “predeterminata” che nel mondo
mesopotamico. In ogni caso il racconto della creazione in Gn 1 non vuol
descrivere con esattezza come Dio ha creato il mondo. Ci spiega piuttosto come
gli autori, gli autori sacerdotali del 6° sec. a.C., vedevano l’universo.
Il diluvio universale
Ancor più
nel racconto del diluvio rispetto alla Genesi appare evidente la sua
derivazione dai miti mesopotamici (poema di Atram-khasis e quello di
Gilgamesh): su diversi punti vi sono equivalenze sorprendenti, come sull’arca,
il diluvio d’acqua, la salvezza di una sola famiglia, l’invio di uccelli alla
fine del diluvio e il sacrificio finale. Del resto, come già detto, l’idea del
diluvio non si addice alla configurazione fisica della terra palestinese
(colline e montagne), mentre si attaglia benissimo alla vallata del Tigri e
dell’Eufrate circondato da montagne, dove per altro era frequente (annuale) il
fenomeno dello straripamento dei due fiumi, talvolta di proporzioni importanti.
“Il racconto del diluvio è dunque un tipico “mito di
fondazione” che non può e non deve essere “spiegato” come memoria di una
qualche catastrofe preistorica; […] anche le testimonianze archeologiche
confermano le inondazioni “storiche” e non già un diluvio archetipo” dice lo
studioso M. Liverani. Il “modello”
del racconto biblico è quindi con ogni probabilità un racconto mesopotamico,
conosciuto dal popolo israelita al tempo dell’esilio, adattato, che ne fà il
primo episodio della ricorrente vicenda di punizione divina contro la violenza
umana.
Il racconto
cerca di rispondere ad una domanda fondamentale all’epoca dell’esilio: a quali
condizioni l’universo può sopravvivere? Chi o che cosa impedirà che una
catastrofe cosmica possa far scomparire il mondo nel nulla? La risposta alla
domanda è duplice. La parte più antica del racconto, che è comunque esilica o
postesilica, suggerisce che la sopravvivenza del mondo dipende solamente dalla
grazia di Dio, il quale conclude un’alleanza incondizionata con il giusto Noè e
la sua famiglia promette di non mandare mai più un diluvio per distruggere il
mondo (Gn 6,18; 9,8-17). La seconda risposta, più tardiva, viene data dopo la
ricostruzione del tempio e il ripristino del culto (520-515 a.C. ) e suggerisce
che l’esistenza del mondo dipende dal culto: Dio promette di non distruggere
mai più l’universo perché gradisce il sacrificio di Noè (8,20-22). Le due
risposte sono complementari: la prima insiste sulla grazia divina, l’altra
sulla necessità dell’iniziativa umana, in questo caso del culto.
Abramo e i patriarchi
Molti
autori pensano con buone ragioni che i racconti in Genesi 1-11, vale a dire i
racconti sulla creazione del mondo, su Caino e Abele, il diluvio e la torre di
Babele, appartengano non tanto alla storia quanto ai miti fondativi della
storia dell’umanità, mentre con Abramo e i patriarchi entreremmo nelle vicende
della protostoria di Israele. La cosa tuttavia non è del tutto sicura.
Non esiste alcuna prova del fatto che i patriarchi, Abramo,
Isacco e Giacobbe – e le matriarche, Sara, Rebecca, Lea e Rachele – siano
realmente vissuti: nessuna iscrizione, nessun documento extrabiblico, nessun
monumento parla di loro.
Alcuni studiosi sostennero che alcuni dettagli nelle storie
della Genesi avrebbero potuto convalidarne la storicità: elementi come i nomi
di persona, le insolite usanze matrimoniali, le leggi per l’acquisto della
terra e la descrizione dello stile di vita nomade e i percorsi affrontati
avrebbero forse potuto trovare riscontro nell’archeologia e in documenti
mesopotamici risalenti nel II millennio a.C., periodo in cui sarebbero vissuti
i patriarchi.
La ricerca è stata però alquanto deludente. L’archeologia
dimostrò come fosse del tutto infondata la convinzione che in quell’epoca ci
fosse stato un improvviso e massiccio spostamento della popolazione dalla
Mesopotamia verso Canaan; le apparenti analogie tra le leggi mesopotamiche e gli usi del II millennio a.C. da un lato e quelli descritti nel ciclo dei
patriarchi dall’altro, erano così generiche che potevano adattarsi quasi ad
ogni epoca della storia del Vicino Oriente Antico. Anzi, i riferimenti nei
testi biblici ai cammelli, alle mercanzie arabe, ai filistei, a luoghi, ad
altre nazioni, indicano un’epoca di composizione dei testi di circa un
millennio successiva (8° e 7° sec a.C.) a quella in cui, secondo la Bibbia,
sarebbero vissuti i patriarchi. E’
possibile che alcune tradizioni siano più antiche, ma l’uso che se ne fa e l’ordine
in cui sono organizzate fanno emergere il tentativo letterario di ridefinire
l’unità del popolo d’Israele da parte di Giuda nel 7° sec..
Ma anche
qui occorre dire che l’intenzione dei testi biblici non è quella di “informare”
sulla storia quanto piuttosto di “formare” la coscienza religiosa di un popolo:
questo non esclude che ci siano elementi storici ma presuppone che il modo dei
racconti segua un altro fine. Il caso dei racconti patriarcali è simile a
quello di molte leggende, in cui i personaggi non sono necessariamente
inventati – se la loro figura non è ben ancorata nella tradizione di un popolo
non ha possibilità concrete di essere accettata e ancor meno di diventare parte
del patrimonio letterario di un popolo - ma molto di quello che si racconta
nelle leggende è davvero “leggendario” ed è difficile, anzi in molti casi
impossibile, separare gli elementi leggendari da quelli che sono strettamente
“storici”.
Gli scopi dei racconti sugli antenati sono molteplici: essi
vogliono affermare l’identità del popolo d’Israele e lo fanno a partire da una
“genealogia”, che li differenzia dagli altri popoli perché hanno antenati
diversi, e fonda alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla terra di
Canaan e alle altre benedizioni promesse da Dio al suo popolo; inoltre gli
antenati sono presentati come modelli da seguire, modelli di fede e di
obbedienza. Con ogni probabilità, l’ultima redazione di questi racconti è
effettivamente avvenuta in epoca postesilica, quando Israele non possedeva più
la sua terra. Essi rappresentano la speranza che, nonostante l’infedeltà
d’Israele abbia causato l’esilio, Dio mantenga la promessa fatta ad Abramo,
legata ad una alleanza incondizionata, di affidare al suo popolo una terra e
una numerosa discendenza.
Mosè (piaghe d’Egitto, attraversata del Mar Rosso, deserto,
Sinai)
La figura di Mosè e la storia della liberazione degli
israeliti dalla schiavitù dell’Egitto sono così importanti che i libri biblici
dell’Esodo, del Levitico, dei Numeri e del Deuteronomio (ossia non meno dei
quattro quinti del testo sacro fondamentale di Israele) sono dedicati agli
eventi vissuti da una singola generazione in poco più di quarant’ anni. In
questi scritti si racconta dei miracoli del roveto ardente, delle piaghe
d’Egitto, della divisione delle acque del Mar Rosso, dell’apparizione della
manna nel deserto e della rivelazione della Legge di Dio sul Sinai. Il Dio di
Israele, prima noto solo attraverso rivelazioni private ai patriarchi, qui si
mostra a tutta la nazione come divinità universale. Ma quanto si tratta di storia e quanto di leggenda?
Bisogna ammettere che, anche se Mosè, la sua storia e quella
di Israele ad essa collegata, costituiscono il nucleo dell’Antico Testamento,
le fonti archeologiche e documenti extra-biblici non sono attualmente in grado
di darci precise informazioni al riguardo.
Il passaggio di Mosè alla corte del Faraone, il suo
intervento a favore del popolo ebreo e le sua lunghe battaglie con il
successore di questo faraone, sono rimasti senza echi nella storia egiziana. Di
Mosè è certo solo che il suo nome è di origine egiziana (significa “generato
da”) e questo rende verosimile che non può essere stato facilmente inventato,
perché se gli israeliti avessero voluto darsi un eroe nazionale non gli
avrebbero dato un nome egiziano ma semmai tipicamente semitico. Però è
difficile poter dire di più. Certamente non significa che tutto quello che la
Bibbia racconta a proposito di Mosè sia accaduto letteralmente come viene
descritto. Con ogni probabilità Mosè è diventato un personaggio chiave della
storia di Israele nell’epoca postesilica, in cui la monarchia era scomparsa e
nessuno sapeva se e quando si sarebbe restaurata. Per aggirare le difficoltà,
Israele ricercò nella sua tradizione un fondamento più solido della monarchia,
di più antico, che fosse sopravvissuto alla catastrofe dell’esilio, ed era la
tradizione mosaica. Secondo questa tradizione, Israele era nato e aveva
ricevuto tutte le sue istituzioni sacrali e civili prima della monarchia e
quindi poteva anche esistere senza la monarchia o dopo la monarchia. Mosè era
quindi indispensabile all’esistenza di Israele.
Fonti
storiche e archeologiche documentano abbondantemente la situazione di base
descritta nell’Esodo, il fenomeno di popolazioni che scendono in Egitto da
Canaan, soprattutto per la siccità. Ma, se abbiamo documenti egizi che si
riferiscono a Israele come a un gruppo di persone che già viveva a Canaan nel 13°sec.
a.C., non abbiamo alcun indizio sugli antichi israeliti in Egitto, spiegano gli archeologi I. Finkelstein e N. Silberman.
Israele non è presente né tra i possibili nemici
dell’Egitto, né fra gli amici né fra le nazioni ridotte in schiavitù. Forse
però tale mancanza di testimonianze specifiche di schiavi ebrei in Egitto - ma
solo di popolazioni semitiche - si può spiegare col fatto che c’erano stati
tanti schiavi in Egitto durante la storia antica di questo paese, e tenendo
conto che gli israeliti sono stati in Egitto per un lasso di tempo limitato.
Non ci sono
riferimenti storici evidenti nemmeno riguardo l’esodo ebraico.
Per alcuni studiosi sembra molto improbabile che un gruppo
tutt’altro che insignificante sia sfuggito al controllo egiziano all’epoca di
Ramsete II, come pure che questo stesso gruppo abbia attraversato il deserto e
sia entrato a Canaan. Nel 13° sec.
l’Egitto era all’apice della sua forza: il confine egiziano era protetto da un
sistema di fortificazioni strettamente sorvegliate. Qualsiasi compagine che
avesse abbandonato l’Egitto contro la volontà del faraone avrebbe potuto essere
rintracciata facilmente dai soldati egiziani. Per altri studiosi esiste qualche
possibilità di una spiegazione alternativa. Esistono infatti antichi testi
egiziani che documentano il passaggio di schiavi fuggiaschi che lasciavano
l’Egitto, anche attraverso zone paludose, per tornare a vivere liberi nel
deserto. Di più però non si può dire.
Anche precisare la data dell’eventuale esodo biblico è
impossibile: dati i numerosi episodi di schiavi fuggiti dall’Egitto è
impossibile dire quale fra di essi sarebbe proprio quello di cui parla la
Bibbia. Non risulta poi registrata negli archivi egiziani alcuna scomparsa di
un esercito egiziano nel mare mentre inseguiva un gruppo di israeliti usciti
sotto la guida di un certo Mosè, e non ricordano nemmeno la morte di un Faraone
annegato in mare. Ma è anche vero che le cronache del tempo non registravano
facilmente le sconfitte, e che l’esodo è stato un evento fondamentale per la
fede d’Israele e non per la storia dell’Egitto.
Secondo il
racconto biblico, poi, gli israeliti si sarebbero spostati nel deserto e fra le
montagne della penisola del Sinai vagando e accampandosi in luoghi diversi per
circa quarant’anni. Tuttavia non è mai stata identificata nel Sinai nemmeno una
traccia di un insediamento risalente all’ epoca in cui si suppone sia avvenuto
l’esodo (13° sec a.C.), nonostante i numerosi scavi effettuati con le più
moderne tecniche archeologiche.
Facciamo
anche qualche considerazione sui numerosi racconti di fenomeni miracolosi presentati nella Bibbia.
I fenomeni descritti come miracolosi nel racconto biblico
delle piaghe d’Egitto - mandate da Dio, tramite Mosè, al Faraone perché
liberasse Israele - sono fenomeni naturali
comuni in Egitto.
Per esempio si può osservare, o si poteva prima della
costruzione della diga di Assuan, ogni anno l’acqua cambiarsi in “sangue”
quando il Nilo, in primavera, ingrossato dalle piogge cadute in Africa centrale,
trasporta argilla rossa. Anche rane, zanzare, mosche, cavallette, malattie ed
epidemie erano fenomeni comuni nell’antichità. Solo la grandine è un fenomeno
molto raro in Egitto, ma non è impossibile. La piaga delle tenebre può
spiegarsi con le tempeste di sabbia. La morte dei primogeniti si spiega più
difficilmente, specialmente se tutti i primogeniti sono morti nella stessa
notte, compresi i primogeniti degli animali. Bisogna però anche considerare il
linguaggio iperbolico del racconto e il suo sviluppo a tappe: probabilmente
dalla morte del solo primogenito del Faraone come in Es 4,23 si è passati poi
all’amplificazione come in Es 12. Esiste peraltro anche una malattia
particolare che colpisce solo i primogeniti.
Anche il famoso “passaggio del Mar Rosso” può essere
facilmente spiegato. Innanzitutto vi sono almeno tre possibilità circa
l’itinerario percorso per l’esodo (avvenimento forse probabile ma non
confermato): o l’attraversamento del Mar Rosso, o i cosiddetti “Laghi Amari” o
una laguna vicina al Mediterraneo chiamata Lago Menzaleh. Abitualmente si parla
del Mar Rosso ma è improbabile che gli israeliti abbiano scelto questo
itinerario perché questo mare è troppo profondo (in ogni caso “Mar Rosso” si
traduce oggi con più esattezza con Mar dei Giunchi). La regione dove si trova
attualmente il canale di Suez era nell’antichità una regione di laghi. E’ molto
più probabile che si debba cercare in questa regione il racconto di Esodo 14,
presso uno dei laghi o vicino a una laguna. In questo modo è verosimile che gli
ebrei abbiano superato gli acquitrini che separano l’Egitto dal deserto, mentre
i carri degli egiziani, arrivati al tramonto abbiano inizialmente trovato il modo
di inoltrarsi nelle lagune (per es. un forte vento dall’est potrebbe aver
scoperto una parte della sponda del lago), ma al mattino, trovando diverse
condizioni fisiche (per es. il vento caduto e il ritorno delle acque nel suo
posto abituale) si siano arenati nel fango.
Anche per i racconti sui “miracoli” avvenuti nei presunti
quarant’anni (numero simbolico) trascorsi nel deserto, si possono ridurre a
normali fenomeni naturali. Per esempio, la manna di cui si parla in Es 16 e
Numeri 11 è la secrezione di un insetto che si nutre della linfa di un
cespuglio presente in questa regione. Il colore di questa secrezione è bianco e
il suo gusto è dolce. Anche per il “miracolo dell’acqua” che esce dalla roccia
(Es 17,1 e Numeri 20,1-13), si può pensare trattarsi dell’umidità che si
condensa e si accumula di notte nelle crepe delle rocce. Così riguardo il
racconto dove Mosè rende potabili “acque amare” (Es 15,22-25) si può pensare
all’uso del legno di certi alberi conosciuti dalle popolazioni del deserto
capaci di rendere salubri acque non potabili. Le migrazioni di quaglie (Es 16 e
Numeri 11) e altri uccelli sono ben note agli abitanti della costa mediterranea
e del deserto del Sinai. La teofania del Sinai può descrivere un violento
temporale.
Ma, in
generale, anche riguardo i racconti di miracoli occorre uno sguardo diverso,
occorre considerare quello che gli autori volevano dire: per esempio, quelli delle
“piaghe”, potevano significare che il potere del Dio d’Israele era più grande
di quello del Faraone. Lo scopo di questi racconti non è di presentare i
fenomeni come inconsueti e inesplicabili naturalmente, ma al contrario, quello
di mostrare che solo Dio è padrone della natura. Né il Faraone né i suoi maghi
sono capaci di comandare al Nilo, agli insetti, alle cavallette, al vento, alla
grandine, alla luce e alle tenebre. Sono anche incapaci di impedire le malattie
degli uomini e degli animali. In poche
parole, il potere del Faraone è limitato non perchè non riesce a causare fenomeni
inauditi, ma perché non può comandare alla “natura”. Infatti, la mentalità
antica non distingue come facciamo noi oggi fra i fenomeni “naturali”,
spiegabili dalla scienza, e quelli “soprannaturali” che la scienza non riesce a
spiegare. Per il mondo antico, il primo miracolo è il fatto che vi sia un mondo
popolato da esseri viventi. Ogni fenomeno naturale è dunque un “miracolo” per
gli antichi perché niente accade senza l’intervento di Dio nella natura e nel
mondo degli uomini. Il racconto biblico vuol dimostrare questa verità
essenziale della fede con i mezzi letterari a sua disposizione. Così se nel
deserto, luogo dove è quasi impossibile la vita, avvengono fenomeni naturali
che la rendono possibile, questi vengono considerati come un intervento divino.
I numerosi
riferimenti circa le attività edilizie pubbliche egiziane, nomi egiziani,
luoghi, riportati nel racconto di Mosè indicano, per la loro specificità, che
il racconto dell’Esodo abbia raggiunto la sua forma finale all’epoca della XXVI
dinastia egiziana, fra la seconda metà del 7° e la prima metà del 6° sec. a.C..
Non tutta la narrazione sarà stata composta nel 7° sec. a.C., perché accenni
all’esodo si trovano anche in scritti anteriori di un secolo (Amos e Osea), ma
è difficile stabilire di che genere di memoria si trattasse.
Possiamo
quindi considerare la composizione del racconto dell’Esodo secondo questa
prospettiva: proprio come la forma scritta dei racconti patriarcali unì insieme
tradizioni sulle origini al servizio del fermento nazionalistico presente in
Giuda nel 7° sec. a.C., la storia pienamente elaborata del conflitto con
l’Egitto, del grande potere del Dio d’Israele e del suo miracoloso intervento
salvifico in favore del suo popolo, fu posta al servizio di uno scopo militare,
politico e religioso ancora più immediato. L’epopea dell’Esodo non è né verità
storica né finzione letteraria: è una potente espressione della memoria e delle
speranze nate in un mondo in procinto di cambiare.
Conquista di Canaan
Il libro di
Giosuè racconta la storia di una campagna militare fulminea durante la quale i
potenti re di Canaan furono sconfitti in battaglia e le tribù di Israele
ereditarono le loro terre. Si descrive la caduta delle mura di Gerico al suono
delle trombe, il sole che si ferma a Gabaon e l’incendio della grande città
Cananea di Hazor. Realtà o mito?
Benché le antiche città di Gerico, Ai, Gabaon, Lakish, Hazor
e quasi tutte le altre nominate nella storia biblica siano state localizzate e
portate alla luce, le testimonianze in favore di una conquista storica di
Canaan da parte degli israeliti sono certamente deboli.
Le città di Cannan nell’età del tardo bronzo (1550-1150
a.C.) erano vassalle dell’Egitto, governate da re con scarso potere e niente
affatto protette da fortificazioni e cinta muraria. Nel caso di Gerico, nel
XIII sec. a. C. non c’erano tracce di alcun insediamento, mentre nel 14° sec.
era stato un piccolo e povero centro privo di fortificazioni. Il popolo
d’Israele, sotto la guida di Giosuè, si è quindi trovato davanti a città non
occupate, distrutte e in rovina: ben diversamente dai potenti nemici e città
fortificate descritte dalla Bibbia! Probabilmente furono le invasioni di gruppi
violenti conosciuti come “popoli del mare”, nomadi venuti da occidente per
terra e per mare, che in questi secoli devastarono le zone di Canaan. In ogni
caso, le testimonianze archeologiche dimostrano che queste città sono state
distrutte in un lasso di tempo di oltre un secolo, a causa o di invasioni, o
rimescolamenti sociali, o guerra civile, non certo per una campagna militare
condotta da un'unica forza militare.
Occorre
allora chiedersi come “Israele” si sia concretamente stabilito nella terra di
Canaan.
Vi sono varie teorie: la teoria più comune fino a qualche
anno fa dava credito appunto al racconto biblico della conquista militare,
teoria di cui abbiamo visto la scarsa plausibilità in seguito a scoperte
archeologiche recenti; un’altra teoria sostituisce alla rapida conquista
militare una infiltrazione lenta e inizialmente pacifica di pastori seminomadi
venuti da regioni desertiche – identificati con gli israeliti - che si sono
progressivamente sedentarizzati nella terra di Canaan e che per espandersi
sarebbero poi entrati in conflitto con le popolazioni contadine locali: sulla
base però di più dettagliati dati
etnografici e teorie antropologiche non sembra che il rapporto tra nomadismo
pastorale e comunità sedentarie in Medio Oriente dovesse risultare
problematico; una terza teoria ipotizza che i primi israeliti non fossero stati
né predoni invasori né nomadi infiltrati, ma contadini ribelli che, per il
deteriorarsi della loro situazione economica a Canaan, avevano abbandonato la
città per rifugiarsi sull’altipiano disabitato. Forse vennero in contatto con
un piccolo gruppo di persone venute dall’Egitto con idee religiose non
ortodosse (il cosiddetto monoteismo di Akhenathon) e attorno a questo si
formarono come popolo e come religione. Anche questa teoria però trova smentita
nelle testimonianze archeologiche che non presentano traccia di gente sradicata
che lascia il proprio villaggio in pianura alla ricerca di una nuova vita
sull’altipiano.
Oggi, in seguito a indagini intensive sull’altopiano
israelita, con la scoperta dei resti di una fitta rete di villaggi, tutti
apparentemente fondati nell’arco di poche generazioni, si ritiene che intorno
al 1200 a.C. ci sia stata un’importante trasformazione sociale nell’area delle
alture centrali di Canaan: non c’erano segni d’invasione violenta o anche
d’infiltrazione di un gruppo etnico chiaramente definito, sembra piuttosto che
ci sia stata una rivoluzione nel modo di vivere che avrebbe portato ad un
aumento progressivo della popolazione: erano questi i primi israeliti, pastori
stanziatesi e diventati agricoltori permanenti, residenti dapprima in piccole
comunità rurali e sviluppatesi via via in grandi città.
Quindi, per
una conoscenza esatta dell’insediamento di Israele nella terra di Canaan il
racconto biblico di Giosuè e Giudici è nell’insieme meno utile dei dati forniti
dall’archeologia. Questo non vuol dire che la Bibbia non sia basata su alcun
evento storico. Per esempio, il popolo d’Israele non è un popolo mitologico, e
la terra promessa non è un paese di leggenda. Lo scopo primario dei libri
biblici analizzati non è quello di fornire dati in merito agli avvenimenti del
periodo premonarchico. I dati storici, quando sono presenti, sono sempre al
servizio di un disegno di ordine letterario e teologico, ed è in questo senso
che occorre leggerli.
Il libro di Giosuè è uno dei pochi esempi di letteratura
“epica” nella Bibbia. Il carattere epico del libro si manifesta soprattutto nel
modo di descrivere le battaglie di Israele contro le popolazioni del paese:
tranne in un caso - per il primo tentativo di conquista di Ai, in cui si fa
ricadere la colpa su altri - Giosuè
vince e stravince contro tutti. Come nell’epopea non esistono vittorie a metà,
ma sono complete o non ci sono. Inoltre servono ad esaltare un momento felice
di Israele perché è fedele al suo Dio, e questo spiega il successo della
conquista. Questo racconto cerca di esaltare il suo eroe, di celebrare più che
descrivere e di promuovere nel lettore sentimenti di ammirazione. Questa epopea
si è rivelata necessaria quando Israele era diventato una piccola provincia di grandi
imperi: l’apparente miseria del presente non doveva far dimenticare che
all’origine Israele era vincitore e nessuno riuscì a fermare l’esercito
condotto da Giosuè. Se Dio sembrava ora, ossia nel 6° e 7° sec., trascurare il
suo popolo, non era stato così quando regalava vittoria su vittoria al suo
popolo perché osservava scrupolosamente la sua legge. La lezione è abbastanza
chiara: se volete rivivere un tempo simile, dovete comportarvi come la
generazione di quell’epoca.
Se è vero quello che dicono le teorie più recenti, e cioè
che il popolo di Israele si sarebbe semplicemente formato a partire dalle
popolazioni autoctone che vivevano nella regione centrale delle colline, allora
il racconto biblico ha solo trasformato il processo lento, e per lo più
pacifico, in una serie di gesta epiche atte ad enfatizzare la potenza e
l’intervento di Dio a favore del suo popolo.
Davide e Salomone
Per secoli
i lettori della bibbia hanno guardato indietro all’epoca di Davide e di Salomone
come all’età dell’oro della storia di Israele, e molti studiosi fino a qualche
tempo fa consideravano il periodo monastico come effettivamente storico.
Tuttavia, le scoperte archeologiche costringono a ridimensionare, e di molto,
tali concezioni.
Possiamo solo essere certi dell’esistenza di un personaggio
chiamato Davide – in base alla scoperta di una iscrizione da parte di un re
arameo che riporta la vittoria contro la “Casa di David” – ma riguardo la
potenza e l’estensione del suo regno, l’archeologia testimonia che è altamente
improbabile che questa regione scarsamente popolata di Giuda e il piccolo
villaggio di Gerusalemme potessero essere diventati il centro di un grande
impero che si estendeva dal Mar Rosso a sud fino alla Siria al nord. Non c’è assolutamente
alcuna indicazione archeologica della ricchezza, della disponibilità di uomini
e del livello di organizzazione che sarebbero stati necessari a sostenere in
campo grandi eserciti, anche solo per brevi periodi.
Così riguardo anche la presunta gloriosa monarchia fondata
dal suo successore Salomone: la bibbia racconta di come Salomone ricostruì le
città settentrionali di Meghiddo, Hazor e Ghezer, facendo costruire imponenti
palazzi ed edifici monumentali. L’archeologia tuttavia indica che il regno di
Giuda, patria di Davide e Salomone, non era né così ricco né così sviluppato
come racconta la bibbia, che i resti di palazzi ritrovati, ascritti in passato
a Salomone, sono ora molto più plausibilmente attribuiti ad altri re, e che
Gerusalemme, che sarebbe dovuta essere la capitale dell’impero, non era che un
piccolo villaggio sperduto e arretrato rispetto ad altre città.
Inoltre se la descrizione dei libri di Samuele e del primo
libro dei Re fosse una descrizione realistica, non si capirebbe perché gli imperi
vicini non ne avrebbero sentito parlare e non ne avrebbero conservato alcuna
notizia (ricordiamo che secondo la Bibbia Salomone avrebbe sposato la figlia di
un Faraone).
Tuttavia
bisogna riflettere sulle ragioni per cui questo regno davidico di dimensioni
modeste acquistò nella memoria collettiva d’Israele dimensioni favolose e quasi
leggendarie solo dopo la caduta di Samaria nel 721 a.C. per mano degli assiri.
In quel momento, Gerusalemme prese la successione di Samaria e divenne la città
più importante della regione. I re di Giuda, che appartenevano alla “casa di
Davide”, fecero del loro antenato il primo re di un grande regno che
corrispondeva forse più ai loro sogni che alla realtà storica. Nel mondo
antico, di cui fa parte la bibbia, il passato giustificava il presente. La
storia di Davide e Salomone giustificava le pretese dei re di Giuda sui
territori del nord del paese che erano passati sotto l’egemonia assira. In
seguito, indebolito l’impero assiro, i re di Giuda poterono estendere la loro zona
di influsso verso il nord, specialmente sotto il re Gioisia (640 - 609 a.C.).
La storia biblica di Davide e Salomone è pertanto per certi
versi opera di propaganda politica, ma contiene anche un significato religioso
– la descrizione del tempio di Salomone ha lo scopo di mostrare che all’inizio
del regno d’Israele esisteva un culto unico e riconosciuto da tutte le tribù, e
questo serviva per legittimare la riforma religiosa introdotta sotto Gioisia
dell’unico culto nell’unico tempio a Gerusalemme – e perché entrambe queste
operazioni fossero credibili dovevano comunque basarsi su qualche fatto
storico, seppur interpretato.
La riforma monoteistica
Dopo la
morte di Salomone ci fu il crollo
della monarchia e la divisione dello stato nei regni di Israele e di Giuda.
L’interpretazione della Bibbia sulla situazione di una presunta passata unità
nazionale, sulle cause della divisione, e sulla sorte del regno d’Israele e la
sopravvivenza di Giuda, non sempre converge con la ricerca
storico-archeologica.
Ma ci soffermeremo solo sull’aspetto delle origini del
monoteismo biblico.
La Bibbia presenta il monoteismo come già compiuto sin dalle
origini della storia d’Israele, e poi perpetuatesi immutato nel tempo.
L’enigmatica autopresentazione di Yahvè a Mosè (Io sono colui che sono) in Es
3,13-14, funge da momento fondante per le religione ebraica. Da dove viene il
rigoroso monoteismo del popolo ebraico se tutte le religioni antiche sono
invece politeiste? Perché l’ebreo, sin dall’origine della sua storia, non immagina
il cielo popolato da una miriade di dèi ma giunge subito ad un Dio solo? Queste
sono le domande espresse da una certa apologetica che trova poi la risposta
nell’affermazione che solo un intervento di Dio nella storia poteva rivelare
quel suo volto cui la sapienza degli uomini non poteva giungere.
Questo però
non è corretto.
Innanzitutto
la nostra prima notizia di insegnamenti monoteistici sembra essere quella
relativa al faraone egiziano Akhenaton, che governò nel 14° sec. a.C..
Akhenaton introdusse il culto di una divinità, Aton, uno spirito universale e
onnipresente creatore e reggitore del mondo. Ma la religione di Akhenaton fu
soppressa da quella del suo successore, Tutankhamon, e non pare abbia poi avuto
un seguito nella religiosità egizia dei secoli a venire.
E poi, in
realtà la religione tradizionale di Giuda era sì l’adorazione di Yahvè ma
insieme a una varietà di dèi e dee noti o adottati dai culti dei popoli vicini.
In poche parole Yahvè era adorato in una grande varietà di modi. Dalla testimonianza
indiretta (e decisamente negativa) del libro dei Re, apprendiamo che i
sacerdoti di tutto il paese bruciavano regolarmente incenso al sole, alla luna
e alle stelle. Esiste un’ampia documentazione biblica e archeologica della
fioritura del culto sincretico di Yavhè anche in Gerusalemme e in tarda epoca
monarchica. La condanna dei veri profeti di Giuda è una prova abbastanza
evidente del fatto che Yahvè era adorato a Gerusalemme insieme con altre
divinità, come Baal, Ashera, le schiere celesti e anche le divinità nazionali
dei paesi vicini. Anche in Israele sembra ci dovrebbe essere stata una simile
varietà di pratiche religiose.
Ma la straordinaria trasformazione sociale intervenuta alla
fine dell’8° secolo a.C. portò con sé un intenso conflitto religioso
direttamente connesso con l’emergere della Bibbia quale la conosciamo oggi.
L’influenza demografica, economica e politica di Gerusalemme era diventata
enorme e si accompagnava ad un nuovo progetto politico e territoriale:
l’unificazione di tutto Israele. Di conseguenza crebbe la determinazione con
cui la casta dei profeti e dei sacerdoti si sforzava di definire i “giusti”
metodi di culto per tutto il popolo di Giuda, e naturalmente per quegli
israeliti che vivevano sotto il governo assiro del nord. A un certo momento,
nel tardo 8° secolo ci fu l’apparizione di una scuola di pensiero sempre più
forte che affermava che si doveva adorare solo Yahvè e dichiarava sacrileghi
gli altri culti del paese.
Con re
Gioisia, che regnò dal 640 al 609 a.C., questo obiettivo venne raggiunto.
Per l’autore della storia deuteronomistica il regno di
Gioisia segnò un momento di importanza paragonabile a quella del patto di Dio
con Abramo, dell’esodo dall’Egitto o della promessa divina a re Davide. Stando
alla Bibbia, nel 622 a.C., al suo diciottesimo anno di regno, Gioisia ordinò di
rinnovare il tempio di Gerusalemme, e durante questi lavori il sommo sacerdote
Hilqiyya vi scoprì il “libro della legge” il cui impatto fu enorme: vi si
diceva infatti che Yahvè è l’unico Dio e che la pratica tradizionale del culto
di Yahvè insieme ad altre divinità avuta finora era scorretta. Subito Gioisia
radunò tutto il popolo di Giuda per concludere un solenne voto affinchè si
consacrasse interamente ai comandamenti divini secondo le disposizioni del
libro appena scoperto.
“Salta agli occhi – scrive M. Liverani - l’espediente del ritrovamento di un manoscritto
“antico” per conferire il crisma dell’autorità tradizionale a quella che doveva
essere invece una riforma innovativa”.
Allora, per una radicale decontaminazione del culto di
Yahvè, Gioisia lanciò la più intensa riforma puritana della storia di Giuda: i
suoi primi obiettivi furono i riti pagani professati a Gerusalemme e
addirittura all’interno del Tempio. Egli sradicò i santuari dei culti stranieri
a Gerusalemme e poi mise fine ai riti sacrificali che i sacerdoti delle
campagne mantenevano vivi celebrandoli in santuari di tutto il paese. Ci sono
pochi dubbi che il libro della Legge nominato in 2Re fosse una versione originale
del Deuteronomio e che comunque non fosse un vecchio libro ritrovato per caso
ma piuttosto un’opera scritta nel 7° sec. a.C. poco prima o durante il regno di
Gioisia. L’obiettivo era arrivare ad un unico Dio, un unico tempio, un unico
popolo, un unico Israele. Purtroppo però nel 586 Gerusalemme fu conquistata dai
babilonesi.
Nei decenni successivi alla conquista babilonese, durante la
deportazione e poi il ritorno in Giuda, i testi del Pentateuco e della Storia
Deuteronomistica subirono ulteriori aggiunte, revisioni ed elaborazioni (sia di
materiale recente sia di fonti precedenti) arrivando ad assumere quella che è
in sostanza la forma attuale.
Considerazioni sulla credibilità teologica della Bibbia
ebraica o Antico Testamento cristiano
La dottrina dell’ispirazione divina dei testi biblici
Per
garantire il valore teologico della
Bibbia, ossia per assicurare che i testi biblici contengano veramente la parola di Dio consegnata agli uomini, la
Chiesa Cattolica si avvale della dottrina dell’ispirazione divina delle scritture: i libri sacri sarebbero tali “perché scritti per ispirazione dello Spirito
Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per
la composizione dei libri sacri Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle
loro facoltà e capacità, affinché agendo Egli in essi e per loro mezzo,
scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva
fossero scritte” (DV 11). La Bibbia presenterebbe allora due nature: da un lato parole eterne divine; ma dall’altro
incarnate in una storia, in un linguaggio umano. Come parola di Dio, la Bibbia
esige che ci sia una guida trascendente, capace di far cogliere la verità di
fede e di vita che è deposta nel testo storico-letterario. Allo stesso tempo
occorre tener conto che queste verità sono state rivelate all’interno di eventi
storici e di parole umane e che quindi è necessario una strumentazione
storico-critica adatta a sciogliere i nodi delle vicende e del linguaggio
umano, legato a coordinate temporali, spaziali e culturali differenti dalla
nostre (G. Ravasi).
Nonostante questo tentativo dottrinale di garantire l’intervento
divino sulle scritture e di
conciliarlo con l’operato umano,
bisogna anche ammettere le difficoltà a cui va incontro una simile convinzione.
Si presume che si sia dato un intervento divino – di
carattere extraordinario e in definitiva miracoloso – sulla natura o sullo
psichismo umano, con il quale Dio avrebbe manifestato a determinate persone
verità non raggiungibili dalla ragione che poi dovrebbero diffondere agli altri
uomini. Può essere sotto forma di una visione di se stesso o di un suo
rappresentante, o in un sogno notturno o in una apparizione diurna, in cui
l’uomo scelto vede o sente qualcosa che trascende la sua abituale esperienza
corporea.
Ma innanzitutto, non è immediato accettare tali presunte
rivelazioni trascendenti (come abbiamo già detto, in generale, nell’articolo
sull’“esperienza religiosa”). Ci si dovrebbe fidare delle affermazioni di un
altro, che possiamo conoscere o non conoscere (da altre testimonianze, altre
fonti storiche, ecc.), che potrebbe anche illudersi riguardo a ciò che dice di
aver colto (o al limite anche voler ingannare) e che ci parla di una esperienza
che avrebbe esperito, esperienza diversa dalle normali esperienze empiriche che
facciamo tutti e che sarebbe stata data da una entità Altra invisibile, e non
dal suo stato mentale soggettivo. Gli altri dovrebbero credere a quelle verità
inaccessibili perché il testimone-profeta “dice che Dio glielo ha detto”, senza
che possano avere alcun accesso diretto alla verità del messaggio, e senza
disporre di alcuna possibilità per verificarla da loro stessi.
Inoltre nella storia delle religioni si danno rivelazioni
diverse e contrastanti riferite tutte a quell’unica fonte che dovrebbe essere
la medesima divinità. Contro tale obiezione si è detto che potrebbero essere
diverse perché diversi sono gli individui riceventi e le loro culture, ma
questo non è sempre convincente, né in ogni caso è verificabile, e
comporterebbe comunque problemi sull’interpretazione del messaggio e
sull’identità della fonte divina: se non è da intendersi alla lettera, perché
mediato dal linguaggio e dalla cultura del ricevente, come si deve
interpretare? E se la fonte divina cui si riferisce è essa stessa mutuata
dall’individualità e dalla cultura del soggetto, in sé, chi o come sarà?
Comunque sia, consideriamo che seguaci di altre religioni hanno la stessa
pretesa di verità riguardo i loro diversi
testi sacri.
Ma ritorniamo alla questione specifica dell’ispirazione
divina della Bibbia. Innanzitutto essa è stata intesa in vari modi nella storia
della teologia: si è passati dal considerarla come una sorta di “dettato”
divino, al concetto di “ispirazione reale” in cui solo i contenuti della
scrittura sarebbero ispirati da Dio, fino al concetto di “ispirazione
conseguente”, facendo coincidere l’ispirazione con la successiva approvazione
di un libro da parte della Chiesa.
Inoltre di certo una Bibbia “dettata” da Dio non
“copierebbe” testi di altre religioni, come appare nei racconti della creazione
e del diluvio, in molti salmi, in tutta la tradizione sapienziale e perfino nel
fenomeno profetico; né porterebbe in tutte e in ognuna delle sue pagine i segni
e le ferite del lavoro umano, con progressi e retrocessioni, splendide
intuizioni e cadute nell’oscurità.
Si pensi anche solo ai tanti testi della Bibbia ebraica che
ci rimandano ad una immagine di un Dio collerico, vendicativo e violento. Accenniamo
solo a qualche esempio, che emerge da un primo sguardo sommario del testo. Anche
sorvolando sul tanto discusso racconto su “Adamo ed Eva” (dove il Dio biblico
impone un divieto che sarà poi inesorabilmente trasgredito dalla prima coppia
umana e che trascinerà tutta l’umanità verso un ciclo di rivolte e di spietate
repressioni), qualche capitolo dopo si narra che Dio stesso fa annegare tutta
la razza umana, ad eccezione di Noè e della sua famiglia. In seguito si
racconta la distruzione della città e della torre di Babele. Dio si presenta
poi come uno che esige o accetta i sacrifici di bambini: dalla richiesta del
sacrificio del figlio Isacco ad Abramo (Gen 22), al sacrificio della figlia di
Jefte (Giudici 11), fino all’eliminazione dei primogeniti degli egiziani nella
notte precedente l’esodo. Si può
ricordare ancora la violenza che sarebbe stata ordinata da Dio ai suoi
mediatori. Nel Deuteronomio, per incarico di Dio, Mosè impone agli israeliti,
una volta entrati nella terra promessa di Canaan, di attuare il cosidetto
“interdetto” sulle genti che prima abitavano il paese, e cioè distruggere
indiscriminatamente tutti gli uomini, donne e bambini maschi, insieme a tutto il
bestiame ed ad ogni bene. La pratica veniva motivata con la necessità che gli
israeliti conservassero la loro fede in Dio immune da tutti i pericoli
derivanti dall’influenza che la religione dei popoli precedenti avrebbe potuto
esercitare. Infine, in diversi salmi (ad es. il 137) si conclude invitando a
prendere i neonati dei nemici e a massacrarli sfracellando il loro tenero
cranio contro le pietre.
È possibile pensare che questi ordini siano stati ispirati
dallo Spirito di Dio? Pensiamo ragionevolmente di no. Questo ci dice che la
Bibbia non può essere presa alla lettera, che non è un libro dettato da Dio. È
un testo che abbisogna di essere letto tenendo conto delle circostanze storiche
e culturali in cui è venuto formandosi. Se dovessimo prenderla alla lettera
perché dettata da Dio e quindi senza considerare il contributo umano (con tutti
i suoi limiti) che vi è impresso, sarebbe facilmente criticabile: “Se la Bibbia
fosse un’opera ispirata da Dio, non dovrebbe essere corretta, coerente,
veritiera, intelligente, giusta e bella? E come mai trabocca invece di
assurdità scientifiche, contraddizioni logiche, falsità storiche, sciocchezze
umane, perversioni etiche e bruttezze letterarie?” (P. Odifreddi). Nemmeno
basterebbe dire che alcuni testi della sacra scrittura sarebbero parola umana,
altri invece parola di Dio. In base a quale criterio infatti dovremmo operare
una simile scelta?
Tra l’altro nella Bibbia non ci sono testi in cui si affermi
espressamente che lo Spirito opera nella composizione del libro, ma ci sono
solo allusioni implicite in cui la potenza dello Spirito è vista all’opera nei
testi scritti (Is 34,16; Ne 9,3.30, Zc 7,12). L’idea di una ispirazione delle
Scritture viene alla luce soprattutto nei testi più tardivi del Nuovo Testamento
(1Pt 1,10-12; 2 Tm 3,16).
Sembra allora ragionevole concludere che la dottrina
teologica dell’ispirazione divina che
vorrebbe salvaguardare l’unità del messaggio e dare la garanzia divina sulla
verità di quanto vi è scritto pur essendo scritto da uomini, in qualunque senso
la si voglia intendere - più si
sottolinea il “contributo” di Dio
più incorre in critiche testuali, scientifiche, storiche, etiche; e più si
sottolinea il contributo dell’uomo e
più tale dottrina diventa insignificante - è da considerarsi solo un enunciato
di pura fede, quantomeno
inverificabile, che non può trovare alcun minimo appoggio razionale: non
abbiamo modo di sapere alcunchè sull’eventuale apporto divino dato agli scrittori
della Bibbia, anche e soprattutto tenendo conto della storia complicata dei
testi (autori e situazioni, condizionamenti di vario genere, contraddizioni,
ecc.).
Fede e verifica storica
Escluso
dunque l’accertamento della verità della Bibbia ebraica in base al concetto
teologico di ispirazione divina della scrittura, non rimane altro che quello
della verifica storica. Per l’Antico
Testamento (e vedremo poi per il Nuovo) il legame tra fede e storia è
essenziale, perché il Dio della Bibbia è un Dio che agisce nella storia, che
guida il suo popolo in tutte le vicende della sua storia. È un Dio che si
presenta spesso come “il Signore che vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”,
e se a questa e ad altre affermazioni non corrisponde alcuna realtà concreta,
alcun avvenimento in qualche modo accertabile, è difficile vedere su cosa
appoggi la fede d’Israele.
Dal punto di vista della “storicità” dobbiamo ammettere che i racconti biblici non ci
rivelano molto sul mondo che descrivono (il “mondo del testo”) ma piuttosto sul
“mondo degli autori”. In altre parole, il primo livello di “storia” che
possiamo raggiungere quando leggiamo la Bibbia è quello di chi ha scritto. I
racconti testimoniano quindi preoccupazioni, interessi, dibattiti e una visione
del mondo dell’epoca dei loro autori. La Bibbia è stata scritta molto tempo fa,
in un altro mondo, in un’altra cultura e per rispondere alle domande di questo
mondo antico. Anche i modi di scrivere e raccontare sono diversi dai nostri e
anche il modo stesso di concepire la “storia” e il modo di scriverla sono
diversi. Si pensi al fatto che nella Bibbia in genere non troviamo una sola opinione, nitida, semplice,
unilaterale e incontestabile, ma diverse opinioni
che si completano in certi casi, ma che si possono anche contraddire in altri
(per es. si vedano i due racconti della creazione Gn 1,1-2,3 e 2,4-25). Solo
dopo aver preso queste distanze e aver messo ogni cosa nel suo contesto
appropriato, si può iniziare a capire quello che ci vuol trasmettere la Bibbia.
“Nella Bibbia che cosa troviamo? Resoconti esatti dei fatti?
Cronache di testimoni oculari? Opere di storici? O opere d’arte? Forse troviamo
un po’di tutto, mescolato. Però, in genere, abbiamo piuttosto opere d’arte.
Queste opere non sono sofisticate e raffinate, appartengono piuttosto all’arte
popolare. Il loro scopo comunque è quello dell’opera d’arte: trasmettere un
messaggio su quello che è accaduto. Non cercano tanto di fornire particolari
storici, vogliono piuttosto formare la coscienza di un popolo che cerca di
capire qual è il suo destino in questo mondo” (J. L. Ska).
Si tratta
in altre parole di una interpretazione
teologica di certi fatti storici, di uno sguardo particolare di chi ha
confidato o sperato nell’azione di Dio nella storia del suo popolo. Sono libri
soprattutto di fede. Di una fede che
non può essere confermata né smentita dalla ricerca storica.
Non può essere confermata sia perché la storia e l’archeologia hanno mostrato che
molti eventi della storia biblica non si sono verificati in quel periodo
specifico o nel modo descritto dalla Bibbia e altri sono stati inventati, sia
ancor più perché quello che la storia può offrire è, eventualmente, solo la
conferma di una “cornice” di un tale avvenimento (periodo, personaggi storici,
luoghi, etc.), ma non potrà mai appurare se veramente lì un Dio fosse all’opera.
Allo stesso
modo, non può essere smentita perché, anche se la storia e
l’archeologia hanno confutato certi racconti o ridimensionato e resi incerti
altri, o ha messo in risalto i condizionamenti sociali e politici come
fondativi di certi avvenimenti e scelte, tuttavia la Bibbia, non essendo
dettata direttamente da Dio, è normale che riporti i condizionamenti e gli
errori degli uomini. La storia poi si può muovere solo al livello della “cornice”
degli avvenimenti, ma non potrà mai dimostrare che Dio non fosse all’opera in quella persona o in quell’avvenimento.
In
conclusione, che la Bibbia ebraica (Antico Testamento cristiano) sia nient’altro che un prodotto
dell’immaginazione umana nata in risposta alle pressioni, alle difficoltà, alle
sfide e alle speranze di un esiguo popolo per poter sopravvivere, oppure sia
invece il racconto umano di una storia in cui anche Dio era realmente anche se misteriosamente intervenuto e
presente, non è possibile stabilirlo oggettivamente. Quanto all’assegnare
maggior credibilità ad una
alternativa piuttosto che all’altra, questa rimane una decisione a carattere
personale.BIBLIOGRAFIA
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Edizioni Paoline 1988
Sacchi A., Piccola guida alla Bibbia, San Paolo 1999
Ska J.L., La Parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella editrice
1999
Stefani
P., La Bibbia, Il Mulino 2004

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