1.
Fede religiosa come fede/fiducia
nella realtà
Come
si vive nella vita sperando e nutrendo fiducia in generale, così si può vivere
sperando in un senso assoluto. Infatti l’uomo, finchè vive, attua la sua
esistenza soltanto in modo che continuamente si muove oltre il confine di ciò
che è da lui conoscibile e dimostrabile. Tale confine lo oltrepassiamo in un
movimento che è sollecitato da precorrimento e da previsione del futuro (cioè
in un qualcosa che non è stato esperito da noi e che ci fa così camminare su un
terreno inesplorato) e si svolge inoltre in un campo di tensione caratterizzato
da interesse ed importanza per noi. Una cosa simile possiamo chiamarla fede (B.
Welte).
In altre parole, l’uomo vive
necessariamente di fede e di speranza nei confronti delle altre persone e del
mondo, per cui la fede religiosa non è che un tipo particolare della fede in
generale. Noi crediamo molte più cose di quelle che ci è dato apprendere
per esperienza diretta. Chi di noi si è mai preoccupato di accertare direttamente la
verità di tutto quello che ci hanno insegnato a scuola? Pensiamo e agiamo più
in base a un credere che non in base ad un sapere esplicito (vedi anche post
“3.Conoscenza ordinaria e conoscenza religiosa”). La
fede appartiene all’essere umano tanto quanto il pensiero. Anzi viene prima,
perché non si può certo contestare che dall’inizio della nostra vita ci sia non
il pensiero, nel senso di una critica e di un esame riflesso, ma l’affidarsi a
qualcuno, la ricerca fiduciosa di protezione, l’imitare, il seguire. All’inizio
dunque è la fede, la fiducia.
In ogni caso non sembra rispecchiare
la realtà dell’uomo, nella sua dinamica vitale, separare ragione e fede, perché
l’uomo è un tutt’uno: intelletto e sentimento, razionalità e fiducia, calcolo e
amore gratuito.
Quindi cadrebbe in contraddizione
quell’uomo che vivendo continuamente di fede in generale dicesse di non
accettare la fede religiosa perché è incerta: come se lui stesse vivendo e
potesse vivere solo di certezze dimostrabili.
Qualcosa di simile è l’”argomento
del differimento” del filosofo S.
Kierkegaard, così riassumibile: 1. una decisione razionale è per principio
interminata: non importa di quanti dati si disponga, potrebbero sempre emergere
nuovi dati; 2. per tale ragione il dibattito accademico circa l’attendibilità
storica delle sacre scritture e le argomentazioni filosofiche riguardanti la
fede sono perpetuamente in atto; 3. se la fede dovesse fondarsi su tale
processo dovrebbe essere rinviata all’infinito, e si farebbe in tempo a morire
prima; 4. deve pertanto essere presa una precisa scelta di interruzione di
questo processo decisionale; 5. questa è la fede.
Si potrebbe anche chiedere: perché
si dovrebbe proprio nel campo teologico – dimostrazione di Dio, rivelazione,
vita oltre la morte – esigere una dimostrabilità nel senso rigoroso del
termine, benché siffatte pretese non si pongano più in altri ambiti della
conoscenza, pure scientifica? Tra l’altro si deve già credere in qualcosa per
poter in generale parlare di sapere e di scienza.
Inoltre, ci sono molti fenomeni
intramondani che non sono suscettibili di constatazione empirica e verifica, né
che possono essere resi comprensibili in tal modo. Se ci si limita a
considerare significative per la vita solo le esperienze verificabili
oggettivamente, come si potrà comprendere, per es., un innamorato? o uno che è
afflitto dal dolore? o uno pieno di gratitudine?
Le esperienze dell’amore e
dell’innamoramento non sono dunque oggettivabili: né l’innamorato può
convincere pienamente altri della legittimità del suo amore, né egli stesso ha
una garanzia assoluta di essere autenticamente corrisposto nell’amore. Pensiamo
al gap tra le motivazioni razionali che si hanno per amare qualcuno e
l’infinito interesse che per quella persona si prova quando se ne è innamorati:
potremmo trovare infinite ragioni, sia per confermare sia per contraddire
questo amore, posponendo all’infinito l’argomento, ma ad un certo punto
scegliamo di esserne coinvolti. Così ci si innamora, ci si ama, ci si lega ad
un parter. Vivere di solo ciò che è dimostrabile significherebbe privare la
vita di gran parte di ciò che le è di più peculiare, significativo e di più
vitale. Anche queste sono motivi per credere, forse non motivi specificatamente
razionali, ma senz’altro motivi umani.
A
queste osservazioni è stato controbattuto che:
-
la fede religiosa non è una particolarità della fede in generale: al contrario
la prima ha un carattere assolutamente particolare che non si può assolutamente
dedurre a partire da un credere universale in generale; non basta la fede
naturale per arrivare alla fede cristiana (K. Lowith);
-
né la fede religiosa è una scarsa conoscenza suscettibile di accedere ad una
più elevata conoscenza tramite successivi procedimenti conoscitivi, come invece
è gran parte della fede interna al sapere (A. Fabris);
-
dalla fede religiosa dipende tutta la mia vita, il mio modo di vivere. Se ci si
sbagliasse non sarebbe come sbagliare a credere a questo o a quest’altra
persona, ma come sbagliare l’impostazione totale della vita (W. Weischedel);
-
uno può legittimamente protestare del fatto che le cose stiano in questo modo -
cioè tutto avvolto dall’incertezza e dal rischio, sia le questioni religiose
che quelle semplicemente umane, quotidiane – piuttosto che diversamente - cioè
tutto chiaro, comprensibile ed evidente -
e potrebbe ritenere ingiusta e quindi inaccettabile questa situazione;
-
se nonostante questa incertezza di base, accetta di continuare a vivere, potrà
almeno decidere lui liberamente quale incertezza scegliere, tra quelle
suscettibili di scelta: scegliere se impegnarsi, investire qui ed ora in modo
moderato sperando di ottenere una ricompensa immediata per quanto modesta,
oppure se impegnarsi e investire in modo rilevante sperando di ottenere una
grande ricompensa in futuro.
Per
vivere è necessaria solo la fede in generale, mentre la fede religiosa è
facoltativa.
Riguardo
all’analogia dell’esperienza della fede con quella dell’amore W.Weischedel ha specificato che il
rapporto con Dio del credente non è paragonabile a quello con un partner umano:
nel rapporto umano si può osservare il partner, notare segni del suo
interessamento nei nostri confronti, del suo amore, ancorché un accertamento
assoluto sia impossibile; nel rapporto di fede non si può osservare
direttamente il partner divino in questo ipotetico rapporto, che è per sua
natura invisibile, né ci sono chiari indizi della realtà di questo rapporto al
di fuori di un’interpretazione nella fede.
2.
Fede religiosa come speranza
“Quando ci interroghiamo sulla
verità della fede, non dobbiamo assumere come punto di partenza una concezione
della verità estranea alla fede. […] La verità nel senso della Bibbia non è
semplicemente l’accordo tra il pensiero e la realtà. La verità è piuttosto un
evento, nel cui avverarsi trova conferma il suo presupposto originario. La
verità non la si può tener stretta, la verità è piuttosto un risultato. Verità
e storia stanno qui in rapporto immediato.
La verità della fede sarà
totalmente palese solo escatologicamente.
[…] Così la fede è possibile solo in riferimento alla speranza” (W.
Kasper).
Se la verità biblica non è che
“speranza suscitata da una promessa”,
se la fede è un accogliere e confidare in una promessa, allora la
legittimazione della verità di questa promessa sta solo nel futuro
escatologico. La mancata verifica della fede nell’esperienza intramondana non è
dunque un argomento contro la fede e la speranza religiosa, si tratta solo di
rinviare la verifica a dopo la morte. La fede come speranza è dunque
inconfutabile perché nessuno può disporre del futuro (H. Gollwitzer).
A
questo argomento sono state fatte varie osservazioni.
Se si interpreta la fede come
speranza, ossia come fiducia e speranza nella realizzazione di una promessa,
allora è chiaro che la sua verifica ce la si può attendere solo in futuro. Una
speranza può in effetti essere confutata solo quando non trova realizzazione,
per cui di fronte ad una fede che spera il non credente può solo ammettere la
sua inconfutabilità, la sua perenne possibilità. Ma una cosa completamente
diversa è stabilire se ad uno vada bene accettare la fede, quella che dovrebbe
essere la verità della sua vita, solo come speranza, possibilità, e non invece
come sapere, certezza. La fede come speranza in una promessa si presenta in tutta la sua radicalità come rischio, come non garanzia, come possibilità
di mancata realizzazione della promessa
in cui si spera (W.Weischedel). Inoltre c’è il rischio che chi spera possa
pensare di sostituire lo sforzo del conoscere e del sapere con lo sperare, cioè
che troppo facilmente si affidi alla speranza, ma in modo ideologico e con
cattiva coscienza. La speranza, per essere ragionevole, dovrebbe essere come
minimo possibile, ma meglio se anche fondata (plausibile).
3.
Fede religiosa come scommessa
Premesso
che l’uomo non può eliminare l’incertezza su Dio con la sua sola ragione
(filosofica, scientifica o storica) o con l’esperienza, la forma di vita
religiosa assume necessariamente la configurazione di una opzione, di una speranza,
di una scommessa.
Ricordiamo brevemente il discorso di
Pascal: “L’uomo deve scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse; se la ragione non può aiutarlo in questa
scelta, tanto vale che consideri qual è la scelta più conveniente proprio come se si trattasse di un gioco o di una
scommessa nella quale bisogna considerare da un lato la posta , dall’altro la
perdita o la vincita eventuale. Ora, chi scommette sull’esistenza di Dio, se
guadagna, guadagna tutto, se perde, non perde nulla: bisogna dunque scommettere
senza esitare. La scommessa è già ragionevole quando si tratta di una vincita
finita e di poco superiore alla posta e diventa tanto più conveniente quando la
vincita è infinitamente superiore alla posta. Nè vale dire che l’infinita
distanza tra la certezza di ciò che si scommette e l’incertezza di ciò che si
può guadagnare rende uguale il bene finito, che si rischia certamente, a quello
infinito, che è incerto. Ogni giocatore azzarda con certezza per guadagnare con
incertezza e azzarda un finito certo per guadagnare un infinito incerto senza
peccare contro la ragione. In un gioco in cui vi sono uguali probabilità di
vincere o di perdere, arrischiare il finito per guadagnare l’infinito ha
ovviamente la convenienza massima”.
Il
nocciolo della scommessa è che chi scommette sull’esistenza di Dio se guadagna,
guadagna tutto, mentre se perde non perde nulla, e che quindi ha la convenienza
massima a farlo. Nella scommessa Pascal afferma che la giustificazione di una
convinzione religiosa può trovare la sua ragion d’essere nella sua semplice
utilità, nell’essere di giovamento al credente. Naturalmente la scommessa deve
avvenire su un “oggetto” almeno logicamente possibile, meglio poi se anche
probabile. Insomma, “in mancanza di evidenza sperimentale e osservativa è
razionale credere a ciò che per noi è più desiderabile”.
Per Pascal, poi, la scelta è forzata
perché non scommettere sull’esistenza di Dio equivale a scommettere contro l’esistenza
di Dio, esattamente come non decidere di iniziare un’attività ha lo stesso
esito di decidere di non iniziarla: in entrambi i casi non si fa nulla.
Inoltre
già Pascal faceva riflettere sul fatto che il costo della scommessa - la
conversione – non deve apparire (necessariamente) come una perdita. Chi fa la
scommessa della fede dà via solo quel che già qui e ora gli impedisce di vivere
una vita buona, e quindi ci si “guadagnerebbe” già in questa vita; si potrebbe
vivere così indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un’altra vita dopo la
morte. E’ famosa la battuta del Santo Curato d’Ars a chi gli pose il dubbio
sull’altra vita dopo la morte: “Anche se non ci fosse nulla, non mi pentirò mai
di aver creduto in un Dio che è Amore”.
I cristiani hanno riscoperto che
credere non significa affatto valutare l’aldiquà meno rispetto alla sospirata
vita eterna. Essi testimoniano che l’opzione della fede in favore del regno di
Dio rende la loro vita più ricca e vera già qui ed ora. Si vive nella fiducia
nei confronti delle persone, del mondo, di Dio; si vive seguendo una Parola che
ti fa vivere meglio, più umanamente, in un rapporto di solidarietà con gli
altri, che ti dà senso, libertà dall’attaccamento alle cose, e ti dà a sperare
anche in un compimento trascendente assoluto.
Tuttavia
si possono fare le seguenti critiche.
Per
alcuni esiste ed è importante la differenza
di vita che ci può essere tra chi
scommette per Dio e chi no: seguire la religione può essere molto più
impegnativo che non seguirla, e quindi a)
il guadagno di tutto, se si guadagna, lo si guadagna a caro prezzo, e nessuno
può sentirsi obbligato a impegnarsi, sacrificarsi
e rischiare in questo modo; in altre parole l’impegno-sacrificio finito se rapportato al possibile guadagno
infinito è niente, ma in sé è molto e
può essere considerato anche troppo; e b) non è vero che se si perdesse non si
perderebbe nulla: non è la stessa cosa finire nel nulla avendo vissuto prima
una vita di sacrifici per seguire la religione con la speranza di raggiungere
la felicità eterna piuttosto che
finirvi avendo vissuto una vita alla ricerca del massimo godimento con un
sacrificio il più possibile calcolato.
Uno può preferire di rischiare e
soffrire il meno possibile qui e puntare su piccoli “guadagni” (a scapito della
possibilità della felicità eterna) mentre un altro può preferire di puntare
sulla possibilità della felicità eterna (a scapito della certezza di
sacrificarsi di meno qui e di contare su facili guadagni); cioè uno può
concentrarsi di più sul rischio della perdita,
un altro sulla possibilità del guadagno. E’ legittimo cioè scegliere
“opzioni il più possibile ‘poco ricche di presupposti’, in cui non è necessario
nutrire in maniera arrischiata troppa speranza e profondere troppo impegno, in
cui è possibile poi consolarsi anche della delusione, qualora dovesse risultare
che esse sono vane”.
C’è infatti chi “potrebbe cambiare
vita, rispetto alle lusinghe del mondo, solo se si tratta del finito del mondo
di fronte al certo eterno, non se può
circolare il sospetto che anche la religione sia incertezza[…]. Altrimenti le
lusinghe del mondo faranno sempre aggio, poiché questo finito è intanto la
certa ‘totalità’ che l’uomo esperisce”(P. Flores d’Arcais); chi dice che “se
Dio non si rivela è solo un’ipotesi, e un’ipotesi è troppo poco per fondarci
sopra l’unica esistenza che abbiamo”(D.Bernazza).
Un’altra
critica è che essa, se è logicamente valida, sarebbe valida per ogni diverso
Dio di ogni diversa religione. Infatti la scommessa non è limitata
all’alternativa Dio del cristianesimo/ateismo, ma sarebbe valida anche per Allah,
per il Dio di alcune sette del Buddhismo, o all’interno del cristianesimo
stesso, per il Dio di diverse concezioni del cristianesimo.
Ancora.
Pascal assume che ci siano solo due possibilità. O Dio esiste, e ricompensa i
credenti con l’eterna beatitudine, mentre punisce gli infedeli con l’eterna
condanna, o tutto questo non si dà. Però, dice per es. H. Albert, questa riduzione a due alternative sembra arbitraria. Si
può infatti pensare l’ulteriore possibilità che vi sia un Dio, che punisce con
la condanna tutte le persone che pensano solo alla loro eterna beatitudine, ma
ricompensa altre che non riescono su questa base ad arrivare alla fede
cristiana. Oppure si potrebbe pensare ad un Dio a cui non interessi in genere
la fede degli uomini , ma solo il loro comportamento morale.
C’è
anche chi ritiene che questo argomento, al di là del suo rigore logico, c’entri
poco con l’autentica fede religiosa: non sarebbe degno comportarsi come se Dio
esistesse nella speranza che, se esiste, si sarà ricompensati. P. Odifreddi dice: “Ogni Dio che si
rispetti dovrebbe infuriarsi di più con un fedele che crede per convenienza, ma
senza convinzione, che con un infedele, che non crede per mancanza di
convinzione, nonostante la convenienza”. Perché dovremmo sottomettere la nostra
ragione all’interesse e soprattutto il nostro spirito a un calcolo di
costi/benefici? Sarebbe indegno di noi. “Non sono un giocatore - dice A. Comte-Sponville - sono uno spirito. Non è il mio interesse che
vado ricercando innanzitutto, ma la verità, e nulla mi garantisce che i due
procedano nella stessa direzione”. A questa critica si potrebbe rispondere che
Pascal riteneva la scommessa una sorta di premessa della fede e non la fede in
sé; la persona che avrebbe effettuato questa premessa si sarebbe realmente
impegnata nel credere in Dio, e non sarebbe rimasta indefinitivamente nei panni
dello scommettitore la cui unica motivazione è il potenziale guadagno.
La scommessa di Pascal comunque
sembra restare valida nel suo valore che non è quello di costringere a
scommettere su Dio (così che chi non lo facesse sbaglierebbe) ma quello di
legittimare tale libera scelta. Infatti per quanto sia più impegnativo vivere
scommettendo su Dio piuttosto che non, e per quanto si possa rischiare tutto
per niente, resta sempre infinita la distanza tra ciò che si potrebbe
guadagnare, che è infinito, rispetto a quello che si sacrifica e si rischia,
che è finito, per cui la convenienza è
sempre massima. Quindi dalla scommessa non si conclude che l’uomo (se vuole
essere ragionevole) deve scommettere
su Dio, ma solo che può farlo.
Direi che questi argomenti
pragmatici o esistenziali hanno una qualche validità: non obbligano certamente
a compiere la scelta della fede, ma possono appoggiare in qualche modo una simile scelta.
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