lunedì 27 aprile 2015

26. MODELLI PRAGMATICI/ESISTENZIALI DI GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE RELIGIOSA



1.     Fede religiosa come fede/fiducia nella realtà   

            Come si vive nella vita sperando e nutrendo fiducia in generale, così si può vivere sperando in un senso assoluto. Infatti l’uomo, finchè vive, attua la sua esistenza soltanto in modo che continuamente si muove oltre il confine di ciò che è da lui conoscibile e dimostrabile. Tale confine lo oltrepassiamo in un movimento che è sollecitato da precorrimento e da previsione del futuro (cioè in un qualcosa che non è stato esperito da noi e che ci fa così camminare su un terreno inesplorato) e si svolge inoltre in un campo di tensione caratterizzato da interesse ed importanza per noi. Una cosa simile possiamo chiamarla fede (B. Welte).
In altre parole, l’uomo vive necessariamente di fede e di speranza nei confronti delle altre persone e del mondo, per cui la fede religiosa non è che un tipo particolare della fede in generale. Noi crediamo molte più cose di quelle che ci è dato apprendere per esperienza diretta. Chi di noi si è mai preoccupato di accertare direttamente la verità di tutto quello che ci hanno insegnato a scuola? Pensiamo e agiamo più in base a un credere che non in base ad un sapere esplicito (vedi anche post “3.Conoscenza ordinaria e conoscenza religiosa”). La fede appartiene all’essere umano tanto quanto il pensiero. Anzi viene prima, perché non si può certo contestare che dall’inizio della nostra vita ci sia non il pensiero, nel senso di una critica e di un esame riflesso, ma l’affidarsi a qualcuno, la ricerca fiduciosa di protezione, l’imitare, il seguire. All’inizio dunque è la fede, la fiducia.
In ogni caso non sembra rispecchiare la realtà dell’uomo, nella sua dinamica vitale, separare ragione e fede, perché l’uomo è un tutt’uno: intelletto e sentimento, razionalità e fiducia, calcolo e amore gratuito.
Quindi cadrebbe in contraddizione quell’uomo che vivendo continuamente di fede in generale dicesse di non accettare la fede religiosa perché è incerta: come se lui stesse vivendo e potesse vivere solo di certezze dimostrabili.
Qualcosa di simile è l’”argomento del differimento” del filosofo S. Kierkegaard, così riassumibile: 1. una decisione razionale è per principio interminata: non importa di quanti dati si disponga, potrebbero sempre emergere nuovi dati; 2. per tale ragione il dibattito accademico circa l’attendibilità storica delle sacre scritture e le argomentazioni filosofiche riguardanti la fede sono perpetuamente in atto; 3. se la fede dovesse fondarsi su tale processo dovrebbe essere rinviata all’infinito, e si farebbe in tempo a morire prima; 4. deve pertanto essere presa una precisa scelta di interruzione di questo processo decisionale; 5. questa è la fede.
Si potrebbe anche chiedere: perché si dovrebbe proprio nel campo teologico – dimostrazione di Dio, rivelazione, vita oltre la morte – esigere una dimostrabilità nel senso rigoroso del termine, benché siffatte pretese non si pongano più in altri ambiti della conoscenza, pure scientifica? Tra l’altro si deve già credere in qualcosa per poter in generale parlare di sapere e di scienza.
Inoltre, ci sono molti fenomeni intramondani che non sono suscettibili di constatazione empirica e verifica, né che possono essere resi comprensibili in tal modo. Se ci si limita a considerare significative per la vita solo le esperienze verificabili oggettivamente, come si potrà comprendere, per es., un innamorato? o uno che è afflitto dal dolore? o uno pieno di gratitudine?
Le esperienze dell’amore e dell’innamoramento non sono dunque oggettivabili: né l’innamorato può convincere pienamente altri della legittimità del suo amore, né egli stesso ha una garanzia assoluta di essere autenticamente corrisposto nell’amore. Pensiamo al gap tra le motivazioni razionali che si hanno per amare qualcuno e l’infinito interesse che per quella persona si prova quando se ne è innamorati: potremmo trovare infinite ragioni, sia per confermare sia per contraddire questo amore, posponendo all’infinito l’argomento, ma ad un certo punto scegliamo di esserne coinvolti. Così ci si innamora, ci si ama, ci si lega ad un parter. Vivere di solo ciò che è dimostrabile significherebbe privare la vita di gran parte di ciò che le è di più peculiare, significativo e di più vitale. Anche queste sono motivi per credere, forse non motivi specificatamente razionali, ma senz’altro motivi umani. 

            A queste osservazioni è stato controbattuto che:
            - la fede religiosa non è una particolarità della fede in generale: al contrario la prima ha un carattere assolutamente particolare che non si può assolutamente dedurre a partire da un credere universale in generale; non basta la fede naturale per arrivare alla fede cristiana (K. Lowith);
            - né la fede religiosa è una scarsa conoscenza suscettibile di accedere ad una più elevata conoscenza tramite successivi procedimenti conoscitivi, come invece è gran parte della fede interna al sapere (A. Fabris);
            - dalla fede religiosa dipende tutta la mia vita, il mio modo di vivere. Se ci si sbagliasse non sarebbe come sbagliare a credere a questo o a quest’altra persona, ma come sbagliare l’impostazione totale della vita (W. Weischedel);
            - uno può legittimamente protestare del fatto che le cose stiano in questo modo - cioè tutto avvolto dall’incertezza e dal rischio, sia le questioni religiose che quelle semplicemente umane, quotidiane – piuttosto che diversamente - cioè tutto chiaro, comprensibile ed evidente -  e potrebbe ritenere ingiusta e quindi inaccettabile questa situazione;
            - se nonostante questa incertezza di base, accetta di continuare a vivere, potrà almeno decidere lui liberamente quale incertezza scegliere, tra quelle suscettibili di scelta: scegliere se impegnarsi, investire qui ed ora in modo moderato sperando di ottenere una ricompensa immediata per quanto modesta, oppure se impegnarsi e investire in modo rilevante sperando di ottenere una grande ricompensa in futuro.
            Per vivere è necessaria solo la fede in generale, mentre la fede religiosa è facoltativa.
            Riguardo all’analogia dell’esperienza della fede con quella dell’amore W.Weischedel ha specificato che il rapporto con Dio del credente non è paragonabile a quello con un partner umano: nel rapporto umano si può osservare il partner, notare segni del suo interessamento nei nostri confronti, del suo amore, ancorché un accertamento assoluto sia impossibile; nel rapporto di fede non si può osservare direttamente il partner divino in questo ipotetico rapporto, che è per sua natura invisibile, né ci sono chiari indizi della realtà di questo rapporto al di fuori di un’interpretazione nella fede. 

2.     Fede religiosa come speranza  

“Quando ci interroghiamo sulla verità della fede, non dobbiamo assumere come punto di partenza una concezione della verità estranea alla fede. […] La verità nel senso della Bibbia non è semplicemente l’accordo tra il pensiero e la realtà. La verità è piuttosto un evento, nel cui avverarsi trova conferma il suo presupposto originario. La verità non la si può tener stretta, la verità è piuttosto un risultato. Verità e storia stanno qui in rapporto immediato. La verità della fede sarà totalmente palese solo escatologicamente. […] Così la fede è possibile solo in riferimento alla speranza” (W. Kasper).
Se la verità biblica non è che “speranza suscitata da una promessa”, se la fede è un accogliere e confidare in una promessa, allora la legittimazione della verità di questa promessa sta solo nel futuro escatologico. La mancata verifica della fede nell’esperienza intramondana non è dunque un argomento contro la fede e la speranza religiosa, si tratta solo di rinviare la verifica a dopo la morte. La fede come speranza è dunque inconfutabile perché nessuno può disporre del futuro (H. Gollwitzer).
 
            A questo argomento sono state fatte varie osservazioni.
Se si interpreta la fede come speranza, ossia come fiducia e speranza nella realizzazione di una promessa, allora è chiaro che la sua verifica ce la si può attendere solo in futuro. Una speranza può in effetti essere confutata solo quando non trova realizzazione, per cui di fronte ad una fede che spera il non credente può solo ammettere la sua inconfutabilità, la sua perenne possibilità. Ma una cosa completamente diversa è stabilire se ad uno vada bene accettare la fede, quella che dovrebbe essere la verità della sua vita, solo come speranza, possibilità, e non invece come sapere, certezza. La fede come speranza in una promessa si  presenta in tutta la sua radicalità come rischio, come non garanzia, come possibilità di  mancata realizzazione della promessa in cui si spera (W.Weischedel). Inoltre c’è il rischio che chi spera possa pensare di sostituire lo sforzo del conoscere e del sapere con lo sperare, cioè che troppo facilmente si affidi alla speranza, ma in modo ideologico e con cattiva coscienza. La speranza, per essere ragionevole, dovrebbe essere come minimo possibile, ma meglio se anche fondata (plausibile). 

3.     Fede religiosa come scommessa  

Un argomento affine ai precedenti è la classica “scommessa” di Blaise Pascal.
            Premesso che l’uomo non può eliminare l’incertezza su Dio con la sua sola ragione (filosofica, scientifica o storica) o con l’esperienza, la forma di vita religiosa assume necessariamente la configurazione di una opzione, di una speranza, di una scommessa.
Ricordiamo brevemente il discorso di Pascal: “L’uomo deve scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse; se la ragione non può aiutarlo in questa scelta, tanto vale che consideri qual è la scelta più conveniente proprio come se si trattasse di un gioco o di una scommessa nella quale bisogna considerare da un lato la posta , dall’altro la perdita o la vincita eventuale. Ora, chi scommette sull’esistenza di Dio, se guadagna, guadagna tutto, se perde, non perde nulla: bisogna dunque scommettere senza esitare. La scommessa è già ragionevole quando si tratta di una vincita finita e di poco superiore alla posta e diventa tanto più conveniente quando la vincita è infinitamente superiore alla posta. Nè vale dire che l’infinita distanza tra la certezza di ciò che si scommette e l’incertezza di ciò che si può guadagnare rende uguale il bene finito, che si rischia certamente, a quello infinito, che è incerto. Ogni giocatore azzarda con certezza per guadagnare con incertezza e azzarda un finito certo per guadagnare un infinito incerto senza peccare contro la ragione. In un gioco in cui vi sono uguali probabilità di vincere o di perdere, arrischiare il finito per guadagnare l’infinito ha ovviamente la convenienza massima”.
            Il nocciolo della scommessa è che chi scommette sull’esistenza di Dio se guadagna, guadagna tutto, mentre se perde non perde nulla, e che quindi ha la convenienza massima a farlo. Nella scommessa Pascal afferma che la giustificazione di una convinzione religiosa può trovare la sua ragion d’essere nella sua semplice utilità, nell’essere di giovamento al credente. Naturalmente la scommessa deve avvenire su un “oggetto” almeno logicamente possibile, meglio poi se anche probabile. Insomma, “in mancanza di evidenza sperimentale e osservativa è razionale credere a ciò che per noi è più desiderabile”.
Per Pascal, poi, la scelta è forzata perché non scommettere sull’esistenza di Dio equivale a scommettere contro l’esistenza di Dio, esattamente come non decidere di iniziare un’attività ha lo stesso esito di decidere di non iniziarla: in entrambi i casi non si fa nulla.
            Inoltre già Pascal faceva riflettere sul fatto che il costo della scommessa - la conversione – non deve apparire (necessariamente) come una perdita. Chi fa la scommessa della fede dà via solo quel che già qui e ora gli impedisce di vivere una vita buona, e quindi ci si “guadagnerebbe” già in questa vita; si potrebbe vivere così indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un’altra vita dopo la morte. E’ famosa la battuta del Santo Curato d’Ars a chi gli pose il dubbio sull’altra vita dopo la morte: “Anche se non ci fosse nulla, non mi pentirò mai di aver creduto in un Dio che è Amore”.
I cristiani hanno riscoperto che credere non significa affatto valutare l’aldiquà meno rispetto alla sospirata vita eterna. Essi testimoniano che l’opzione della fede in favore del regno di Dio rende la loro vita più ricca e vera già qui ed ora. Si vive nella fiducia nei confronti delle persone, del mondo, di Dio; si vive seguendo una Parola che ti fa vivere meglio, più umanamente, in un rapporto di solidarietà con gli altri, che ti dà senso, libertà dall’attaccamento alle cose, e ti dà a sperare anche in un compimento trascendente assoluto. 

            Tuttavia si possono fare le seguenti critiche.
            Per alcuni esiste ed è importante la differenza di vita che ci può essere tra chi scommette per Dio e chi no: seguire la religione può essere molto più impegnativo che non seguirla, e quindi a) il guadagno di tutto, se si guadagna, lo si guadagna a caro prezzo, e nessuno può sentirsi obbligato a impegnarsi, sacrificarsi e rischiare in questo modo; in altre parole l’impegno-sacrificio finito se rapportato al possibile guadagno infinito è niente, ma in sé è molto e può essere considerato anche troppo;  e b) non è vero che se si perdesse non si perderebbe nulla: non è la stessa cosa finire nel nulla avendo vissuto prima una vita di sacrifici per seguire la religione con la speranza di raggiungere la felicità eterna piuttosto che finirvi avendo vissuto una vita alla ricerca del massimo godimento con un sacrificio il più possibile calcolato.
Uno può preferire di rischiare e soffrire il meno possibile qui e puntare su piccoli “guadagni” (a scapito della possibilità della felicità eterna) mentre un altro può preferire di puntare sulla possibilità della felicità eterna (a scapito della certezza di sacrificarsi di meno qui e di contare su facili guadagni); cioè uno può concentrarsi di più sul rischio della perdita, un altro sulla possibilità del guadagno. E’ legittimo cioè scegliere “opzioni il più possibile ‘poco ricche di presupposti’, in cui non è necessario nutrire in maniera arrischiata troppa speranza e profondere troppo impegno, in cui è possibile poi consolarsi anche della delusione, qualora dovesse risultare che esse sono vane”.
C’è infatti chi “potrebbe cambiare vita, rispetto alle lusinghe del mondo, solo se si tratta del finito del mondo di fronte al certo eterno, non se può circolare il sospetto che anche la religione sia incertezza[…]. Altrimenti le lusinghe del mondo faranno sempre aggio, poiché questo finito è intanto la certa ‘totalità’ che l’uomo esperisce”(P. Flores d’Arcais); chi dice che “se Dio non si rivela è solo un’ipotesi, e un’ipotesi è troppo poco per fondarci sopra l’unica esistenza che abbiamo”(D.Bernazza). 
            Un’altra critica è che essa, se è logicamente valida, sarebbe valida per ogni diverso Dio di ogni diversa religione. Infatti la scommessa non è limitata all’alternativa Dio del cristianesimo/ateismo, ma sarebbe valida anche per Allah, per il Dio di alcune sette del Buddhismo, o all’interno del cristianesimo stesso, per il Dio di diverse concezioni del cristianesimo.
            Ancora. Pascal assume che ci siano solo due possibilità. O Dio esiste, e ricompensa i credenti con l’eterna beatitudine, mentre punisce gli infedeli con l’eterna condanna, o tutto questo non si dà. Però, dice per es. H. Albert, questa riduzione a due alternative sembra arbitraria. Si può infatti pensare l’ulteriore possibilità che vi sia un Dio, che punisce con la condanna tutte le persone che pensano solo alla loro eterna beatitudine, ma ricompensa altre che non riescono su questa base ad arrivare alla fede cristiana. Oppure si potrebbe pensare ad un Dio a cui non interessi in genere la fede degli uomini , ma solo il loro comportamento morale.
            C’è anche chi ritiene che questo argomento, al di là del suo rigore logico, c’entri poco con l’autentica fede religiosa: non sarebbe degno comportarsi come se Dio esistesse nella speranza che, se esiste, si sarà ricompensati. P. Odifreddi dice: “Ogni Dio che si rispetti dovrebbe infuriarsi di più con un fedele che crede per convenienza, ma senza convinzione, che con un infedele, che non crede per mancanza di convinzione, nonostante la convenienza”. Perché dovremmo sottomettere la nostra ragione all’interesse e soprattutto il nostro spirito a un calcolo di costi/benefici? Sarebbe indegno di noi. “Non sono un giocatore - dice A. Comte-Sponville -  sono uno spirito. Non è il mio interesse che vado ricercando innanzitutto, ma la verità, e nulla mi garantisce che i due procedano nella stessa direzione”. A questa critica si potrebbe rispondere che Pascal riteneva la scommessa una sorta di premessa della fede e non la fede in sé; la persona che avrebbe effettuato questa premessa si sarebbe realmente impegnata nel credere in Dio, e non sarebbe rimasta indefinitivamente nei panni dello scommettitore la cui unica motivazione è il potenziale guadagno.
La scommessa di Pascal comunque sembra restare valida nel suo valore che non è quello di costringere a scommettere su Dio (così che chi non lo facesse sbaglierebbe) ma quello di legittimare tale libera scelta. Infatti per quanto sia più impegnativo vivere scommettendo su Dio piuttosto che non, e per quanto si possa rischiare tutto per niente, resta sempre infinita la distanza tra ciò che si potrebbe guadagnare, che è infinito, rispetto a quello che si sacrifica e si rischia, che è  finito, per cui la convenienza è sempre massima. Quindi dalla scommessa non si conclude che l’uomo (se vuole essere ragionevole) deve scommettere su Dio, ma solo che può farlo.  

Direi che questi argomenti pragmatici o esistenziali hanno una qualche validità: non obbligano certamente a compiere la scelta della fede, ma possono appoggiare in qualche modo una simile scelta. 

BIBLIOGRAFIA 

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Guitton J., L’assurdo e il mistero, 1984, Rusconi 1986
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Welte B., Che cosa è credere, 1982, Morcelliana 1983
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