giovedì 9 aprile 2015

9. VIE ANTROPOLOGICHE A DIO


Accanto alle vie che partono dall’idea di Dio e soprattutto dallo sguardo sulla natura e il mondo si svilupparono ben presto nella storia anche delle vie che partono dall’uomo, dalla sua interiorità, dalle sue dinamiche, dalle sue esigenze incondizionate.
L’uomo è un essere in tutto e per tutto limitato e finito, dipendente e minacciato dalla natura che lo circonda, e sottomesso alla morte.
Sperimenta anche una dimensione morale, espressa con moniti, biasimi, riconoscimenti, che lo spinge a perseguire il bene e ad omettere il male (la via morale a Dio sarà sviluppata a parte in seguito).
L’uomo è anche orientato all’amore interumano, non vuole essere solo, vorrebbe amare ad essere amato. Ma l’amore non raggiunge mai completamente la persona amata, né si può contare su una comunione piena e per sempre.
L’uomo, ancora, persegue la conoscenza, vorrebbe comprendere se stesso e il mondo, ma tale conoscenza non giunge mai al suo compimento, non possiamo comprendere il tutto.
Così noi viviamo di continuo in tensione tra la nostra propria imperfezione e finitezza da una parte e il desiderio dell’infinito, assoluto e perfetto dall’altra. Questa tensione costituisce l’inquietudine e l’insoddisfazione che ogni tanto almeno ci coglie. Questa nostalgia è insensata? Dobbiamo farci modesti e dimenticarla? Avremmo così rinunciato al mistero della nostra esistenza di uomini. Ma se la nostra esistenza d’uomini non dev’essere in ultima analisi assurda e insensata, ciò è allora possibile unicamente se la nostra speranza nell’Assoluto corrisponde a una realtà dell’Assoluto stesso, se il nostro domandare e cercare è un’eco e un riflesso di una chiamata di Dio stesso, che si annuncia nella coscienza dell’uomo. Sarebbe vano salvare un senso assoluto senza Dio (M. Horkheimer). Dio soltanto è la risposta alla grandezza e alla miseria dell’esistenza umana. Colui che crede in lui può sentirsi in sintonia con la grandezza dell’uomo senza dover rinnegare la sua miseria. Chi crede in Dio può essere del tutto realistico (Catechismo Cattolico degli adulti, Conferenza  episcopale tedesca , 1985).
            In altre parole: che valore hanno il vivere e il fare dell’uomo? Non va tutto a finire nel nulla? Dobbiamo rinunciare per sempre alla realizzazione della nostra aspirazione più profonda alla felicità e rassegnarci ad esperire la vita come una “passione inutile”?
Forse l’uomo non lo chiama senso, ma che cos’altro intende quando cerca felicità, amore, completezza? La perdita della questione del senso sarebbe la perdita dell’umanità dell’uomo poiché questa gli appartiene essenzialmente.
A partire dunque da tale tensione che ci contraddistingue quali essere umani, nasce la speranza di trascendere e superare tali limiti. La religione viene generalmente considerata una risposta al desiderio di compiutezza dell’uomo, alla ricerca di felicità (anche se non è riducibile a questo). Questo è quel che dicono sostanzialmente le vie antropologiche.

            Naturalmente la fede che può scaturire da tale approccio antropologico viene anche considerata, dalla critica, come risposta illusoria alle domande e bisogni dell’uomo.
Riassumiamo molto sinteticamente il pensiero dei più importanti atei moderni che criticano questo approccio alla fede.
            L. Feuerbach (1804-1872). Secondo lui, la religione ha il suo fondamento nell’essenza dell’uomo, caratterizzato dalla coscienza dell’infinito. Dio non è altro che una proiezione dell’uomo che pone fuori da sé la propria essenza infinita come qualcosa da lui separato, come una figura autonoma. “L’uomo creò Dio a sua immagine”; “Quel che l’uomo non è, ma desidera essere, lo fa diventare suo Dio”; “Dio è l’autoproiezione immaginaria e illusoria dell’uomo in un qualcosa di desiderato”.
            K. Marx (1818-1883). Per Marx la religione è “la coscienza e il sentimento che ha di se stesso l’uomo il quale o non ha ancora acquisito il possesso di sé, oppure lo ha perduto di nuovo”. Essa è la realizzazione immaginaria dell’essenza umana allorchè questa non possieda alcuna vera realtà. La miseria religiosa è contemporaneamente espressione della miseria reale e protesta contro la stessa. Se si eliminano i mali politici ed economici, la religione, divenuta in tal modo non necessaria e superflua, scomparirà da sola.
            F. Nietzsche (1844-1900). Egli esige che si dica no a Dio per poter dire sì all’uomo, all’uomo libero, di una libertà così illimitata. Si tratta della libertà dell’uomo che non può scaricare su Dio la propria responsabilità. Su questa libertà posseduta dall’uomo dopo la morte di Dio si fonda la volontà di potenza, che sovverte il valore di tutti i valori precedenti. La sovranità passa da Dio all’uomo. Il fine dell’ordine di valori stabilito dall’uomo è il superuomo. Ascrivendo tutto ciò che è grande e stupefacente a Dio e riservando al proprio essere tutto ciò che è misero e debole, l’uomo si è rimpicciolito. Credere in Dio diventa così un proiettare all’esterno desideri e paure.
            S. Freud (1859-1939). Secondo il padre della psicanalisi, la religione è malattia e infantilismo. Essa offre all’uomo un appagamento di tipo compensatorio, che lo consola con l’immagine di un superpadre che lo protegge e con la prospettiva di un aldilà paradisiaco. Il desiderio di compensare il senso dell’impotenza e della piccolezza umana attraverso la religione dimostra l’incapacità dell’uomo ad accettare la realtà e conduce alla rassegnazione e all’inazione.
            La fede, vista dall’esterno, appare come una strumentalizzazione e sembra una sorta di scelta vigliacca da parte di chi non vuol trovare il coraggio di affrontare le prove come sono. Una scialuppa di salvataggio per disperati, o comunque l’unica possibilità di riscatto per chi si sente privo di importanza nella società e nella storia. Alla richiesta di senso e significato della vita e della morte, alla richiesta di una felicità assoluta, risponderebbe la fede. Fede come liberazione dalla disperazione e dall’assurdo. Dio, la religione, la fede servirebbero a conservare l’ordine socio-culturale impedendo di cadere nel disordine, e sarebbero funzionali all’autorealizzazione dell’uomo, al rinvenimento e alla conservazione della propria identità.
“Una religiosità troppo umana, che sia soltanto l’espressione del bisogno dell’uomo di trovare quell’assicurazione del proprio essere che gli fa difetto in modo irreparabile, non può incontrare il Dio divino, ma solo il Dio dell’uomo, un Dio funzionale alla richiesta di senso di cui si presume che l’uomo detenga il diritto” (M. Ruggenini).
Secondo B. Russel (1872–1970) la religione si fonda soprattutto sulla paura. In parte è il terrore dell’ignoto e in parte è il desiderio di sentirsi protetti da una specie di fratello maggiore che rimane a fianco di ognuno in qualunque dubbio o problema. La paura è alla base di tutto - paura del mistero, della sconfitta, della morte. La scienza ed il nostro cuore possono insegnarci a smettere di cercare un sostegno ideale, a non inventarsi più alleati celesti ma ad impegnarci per rendere più vivibile questo mondo reggendoci in piedi da soli.
Anche il filosofo H. Albert è avverso nei confronti di una fede funzionale. In una critica mossa al teologo H. Kung sostiene che, siccome quest’ultimo afferma che è necessario Dio quale giustificazione per la vita, si crea lui stesso un concetto di Dio che possa soddisfare le sue esigenze. “kung postula Dio perché ne ha bisogno quale datore di senso per la vita” dice Albert. “Ma - continua - questo è un abuso della ragione a servizio delle esigenze umane e cade nel pieno arbitrio non potendo dire alcunché su quanto postula”. Cita B. Russel: “Il metodo di postulare ciò di cui si ha bisogno presenta molti vantaggi. Sono gli stessi vantaggi che presenta il furto nei confronti del lavoro onesto”.
            Per i non credenti dunque la fede è solo illusione, una costruzione mentale e ideale dell’uomo perché altrimenti crollerebbe sotto il peso della totale insignificanza della sua esistenza.        Ma per il credente non è necessariamente e sempre così.
L’argomento continuamente variato addotto per definire la religione come proiezione si fonda su un postulato illegittimo sia metodologicamente che oggettivamente. La teoria feuerbachiana della proiezione, quella marxiana dell’oppio e quella freudiana dell’illusione non hanno potuto dimostrare che Dio sia soltanto una proiezione dell’uomo o soltanto una consolazione condizionata da interessi o soltanto un’illusione infantile.
Anche l’argomento addotto per affermare la fine della religione si fonda su un’estrapolazione circa il futuro non giustificata. Infatti vediamo che invece del “superamento” della religione mediante un umanesimo ateo, quale viene enunciato dalla teoria feuerbachiana della proiezione, ora in molti luoghi si afferma un nuovo umanesimo dei credenti in Dio.
Invece della “morte” della religione ad opera del socialismo ateo, quale viene proclamata nella teoria marxiana dell’oppio, ora assistiamo spesso ad un nuovo risveglio religioso.
Invece di una “dissoluzione” della religione ad opera della scienza atea, quale viene profetizzata dalla teoria freudiana della illusione, ora si afferma una nuova comprensione dell’etica e della religione.
Perciò ci si può anche chiedere se non sia l’ateismo stesso una proiezione naturale dell’uomo, una consolazione condizionata da interessi o un’illusione infantile.
Vista dalla psicologia, la fede in Dio manifesta sempre strutture e contenuti di una proiezione, e quindi sottostà sempre al sospetto di essere una proiezione. Ma il fatto della proiezione non dice affatto se il proiettato, cui si riferisce, esiste o no.
Al desiderio di Dio può benissimo corrispondere un Dio reale.
Perché l’uomo - sostiene il credente - non dovrebbe poter desiderare che con la morte non tutto sia finito, che nella vita e nella storia dell’umanità ci sia un senso, insomma che Dio esista?
Constatato che alcuni uomini, pochi o tanti che siano, trovano in loro stessi uno spazio di desiderio, perché dovrebbe essere considerato necessariamente sospetto chiedersi se e in che modo esso potrà venire riempito, quindi interrogarsi sulla condizione della sua possibilità? L’importante è tener presente, se non si vuole incorrere in facili critiche, che la rivendicazione di senso non garantisce automaticamente che ci sia un senso, ma solo che ci potrebbe essere. La rivendicazione di senso è reale, anche se non venisse soddisfatta: è una rivendicazione reale di un senso possibile.
Così si esprimeva M. Horkheimer: “Non possiamo provare l’esistenza di Dio. La coscienza del nostro abbandono, della nostra finitezza non è una prova dell’esistenza di Dio, ma può produrre solo la speranza che ci sia un assoluto positivo”. 
Naturalmente, il fatto che l’ateismo finisca per rivelarsi infondato - nella sua pretesa di poter negare Dio - non è ancora una prova della fondatezza della fede in Dio, lascia soltanto aperta tale possibilità.
            Inoltre il credente chiede: è vero che l’uomo religiosamente emancipato sarebbe coraggioso mentre il credente no? Da che parte starebbe l’eroismo?
Secondo la critica il quadro si presenterebbe così: il non credente come colui che mette in campo tutte le forze per affrontare e superare le sofferenze della vita, il credente come colui che si appella ad una rivelazione che gli risolve tutti i problemi, che sa che una mano paterna lo guida tra i meandri della vita, che il soffrire reca in sé una consolazione, etc.
Ma le cose potrebbero anche essere viste diversamente. L’incredulità potrebbe essere considerata una scelta di comodo per poter sfruttare e per seguire in piena libertà la propria autonomia senza doversi confrontare con un’esigenza morale assoluta. Il non credente potrebbe diventare un uomo di successo, un gaudente, uno sprezzante tronfio della propria autonomia. E se il credente, al di là di ogni oleografia, provasse in sé momenti di difficoltà, di prova, di abbandono? Dove lo starebbe portando la rude e dolce Provvidenza che lo accompagna e lo guida? Dopo la morte si aspetta  la resurrezione. Ma prima c’è il giudizio a cui si deve aprire, e la coscienza può provare sussulti di angoscia e di rifiuto. Non è forse più inquietante misurarsi con Dio - magari non solo un Dio di giustizia ma un Dio d’amore, che, secondo il cristianesimo, sarebbe addirittura morto per lui (come ripagarlo?) - che con il nulla?
Questo per dire che la sempre identica fede può essere vissuta in tanti modi.
            Quanto all’affermazione che il dominio di Dio sul genere umano sarebbe il diniego della dignità dell’uomo, perché priverebbe quest’ultimo della sua libertà e responsabilità, sottomettendolo agli ordini di un Signore e impedendogli di essere padrone del proprio destino, il credente ribatte che è vero proprio il contrario. “La decisione per Dio si rivela come decisione per l’uomo. Giacchè soltanto se Dio esiste ed è l’assoluta libertà, che tutto avvolge, guida e muove, c’è per l’uomo uno spazio d’azione per la sua libertà. La decisione per Dio significa così la decisione per la libertà e per la dignità incondizionata dell’uomo. Soltanto se Dio esiste, l’uomo non abita ai confini estremi di un mondo insensibile alle sua domande e ai suoi bisogni. Ma se Dio è, allora è vero che in ultima analisi non dominano su di noi e sul mondo astratte leggi realistiche, non il cieco caso e non un destino anonimo. La fede in Dio consente, anzi esige, che noi accettiamo senz’altro noi stessi e tutti gli altri uomini, perché noi siamo senz’altro incondizionatamente accettati. Questa fede rende possibile una fiducia fondamentale nella realtà, una fiducia senza cui nessuno può vivere, amare e lavorare. La fede in Dio non opprime la libertà umana, anzi fonda la convinzione del suo inviolabile valore e obbliga ad una assoluta stima per ogni uomo, come pure a un impegno per un ordine libero e giusto fra gli uomini.” (Catechismo cattolico degli adulti, op. cit.).
            In conclusione, questa via ci dice che l’uomo può legittimamente rimanere aperto alla possibilità di Dio, alla possibilità di una visione teistica della vita, ma non può essere considerata in nessun modo una prova di Dio. Tale approccio, insomma, ha un carattere regolativo e orientativo.

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