sabato 18 aprile 2015

18. Le origini dell'EBRAISMO


I contenuti fondamentali 

L’ebraismo - termine che in senso stretto identificherebbe l’insieme della religione e della cultura di Israele anteriori all’esilio in Babilonia, e cioè al 586 a.C., mentre con giudaismo si indicherebbe l’epoca storica successiva, anche se entrambi possono avere un senso più ampio e sono spesso usati come sinonimi - risale al II millennio a.C.. I contenuti fondamentali dell’ebraismo sono: il monoteismo, il patto di Dio con Israele e la legge, e i divini precetti.
Il monoteismo: i giudei credevano nell'esistenza di un solo vero Dio che aveva creato il mondo e continuava a governarlo. Il monoteismo giudaico era esclusivo (non come quello di filosofi greci arrivati alla fede in un unico Dio che però coesisteva con una prassi politeistica) e anche etico: Dio è considerato il fondamento e la quintessenza della volontà morale.
Il patto di Dio con Israele e la legge: i giudei credevano che Dio  avesse scelto Israele e avesse stabilito con lui un patto. I tre momenti più importanti nella storia di questo patto erano la chiamata di Abramo (Gn 17), l'esodo dall'Egitto (Es 14) e la rivelazione della legge divina a Mosè sul monte Sinai (da Es 19,16 fino alla fine del Deuteronomio). Il patto si configura come puro dono: la torah o “legge” era stata data affinchè il popolo potesse permanere in questo patto e non, per esempio, per esserne fautore, attraverso l’osservanza del comandamento. La torah correttamente intesa non è una legge nel senso che richiederebbe una obbedienza puramente legale, ma è grazia e dono di Dio, e tale obbedienza è la risposta  a un precedente dono di Dio.
I divini precetti: sono 613, dei quali alcuni (248) imperativi positivi, altri (365) divieti. Nei comandamenti positivi grande importanza hanno, oltre alle leggi etiche vere e proprie, le regole di purezza, quelle alimentari, e le norme riguardanti il matrimonio. La distinzione di puro e impuro infatti prescrive le abluzioni cultuali, il lavaggio delle mani prima della preghiera mattutina e prima e dopo i pasti. Anche le regole alimentari sono codificate con precisione sulla base dell’esistenza di “cibi perfetti” e della separazione di carni e latticini, nonché sul divieto di mangiare la carne di particolari animali. Altri comandamenti fondamentali della religione ebraica sono la preghiera e la festività del sabato e l’obbligo della circoncisione. 

Brevissima storia di Israele (secondo la Bibbia) 

            Il racconto della Bibbia comincia con la creazione del mondo e dell’uomo e con la caduta di quest’ultimo. Continua con le storie di Caino e Abele e con quelle del diluvio universale (Noè), la costruzione della torre di Babele e la divisione dei popoli; si concentra poi sul destino di una singola famiglia: quella di Abramo. Secondo la Genesi si ha così il fatto fondamentale della storia ebraica: il patto o alleanza tra Dio e Abramo, cioè la promessa di una discendenza numerosa, di una protezione divina particolare e del possesso della terra (questo periodo sembra risalire al 18° sec a.C.).
            Dio scelse Abramo per farlo diventare il padre di una grande nazione e Abramo seguì con fede i comandamenti di Dio: partì con la sua famiglia, abbandonando la casa natale in Mesopotamia, per arrivare alla terra di Canaan dove, per tutta la sua lunga vita, si spostò straniero tra i popoli sedentari e dove dalla moglie Sara ebbe un figlio, Isacco, il quale avrebbe ereditato la promessa divina fatta inizialmente ad Abramo. Il figlio di Isacco, Giacobbe, il patriarca della terza generazione, divenne il padre di dodici distinte tribù. Scesi in Egitto a seguito di una carestia, i discendenti di Abramo vi rimasero forse per alcuni secoli ma erano tenuti in schiavitù dal grande faraone.
            L’intenzione di Dio di rivelarsi al mondo si manifestò con la scelta di Mosè come intermediario per chiedere la liberazione degli israeliti, in modo che potessero seguire il loro vero destino. I libri dell’Esodo, del Levitico e dei Numeri descrivono come il Dio d’Israele attraverso segni e miracoli condusse i figli di Israele fuori dall’Egitto verso la libertà (l’esodo, databile intorno al 13° sec a.C). Dopo la celebre attraversata del Mar Rosso gli ebrei rimasero quarant’anni nel deserto e qui, sul monte Sinai, fu rinnovata l’alleanza di Abramo: Mosè ricevette da Dio il decalogo e le altre leggi religiose, cultuali e civiche che diedero agli ebrei struttura e coscienza di popolo. Segue il racconto della conquista della Palestina o Canaan (caduta di Gerico con Giosuè e lotte contro le popolazioni locali) e il governo dei “giudici” per circa due secoli, fino all’avvento della monarchia con la proclamazione di Saul re e poi di Davide, secondo la scelta ispirata del giudice, sacerdote e profeta Samuele (regni databili intorno all’anno 1000 a.C.).
            Davide riuscì a conquistare quasi tutta la Palestina e fondò un grande impero, e il suo successore, Salomone (ca. 961-922 a.C.) è celebrato per la costruzione del maestoso tempio di Gerusalemme e per il suo regno florido e glorioso. Alla morte di Salomone seguì la frattura dello stato in due regni: il regno d’Israele, a nord, e quello di Giuda, a sud. I re di Israele furono oggetto di violente polemiche da parte dei profeti del nord (Elia, Eliseo, Amos, Osea) che nell’idolatria, nell’infedeltà all’alleanza e nella corruzione, presagirono la rovina del regno. Ma anche di alcuni re di Giuda si dice che deviarono dal sentiero della totale devozione a Dio, e così per tutti, Dio mandò invasori ed oppressori esterni in modo da punire il popolo d’Israele per i suoi peccati: prima, dalla Siria, gli aramei misero a ferro e fuoco il regno d’Israele; poi fu la volta del potente impero assiro: le città del regno settentrionale subirono una devastazione senza precedenti e nel 720 a.C. una significativa parte delle dieci tribù patì l’annientamento e l’esilio. Il regno di Giuda sopravvisse ancora per un secolo (benché come tributario prima dell’Assiria, poi degli egiziani e quindi dei neobabilonesi).
            In questo periodo il re di Giuda Gioisia (640-609 a.C.) realizzò la grande riforma liturgica che contribuì a plasmare in modo definitivo la religione ebraica in quanto religione dell’unico Dio e dell’unico tempio con l’esclusione degli antichi santuari locali. Ma anche Giuda doveva essere punita e così avvenne: nel 586 a.C. con l’ascesa del brutale impero babilonese la terra di Giuda fu decimata e Gerusalemme dato alle fiamme insieme al suo tempio. Gli abitanti della città furono deportati a Babilonia, e Giuda divenne parte di una provincia babilonese.
            La “cattività babilonese” fu per gli ebrei un periodo di riflessione, di riorganizzazione sociale e religiosa, di raccolta e rielaborazione delle tradizioni poi redatte nei libri biblici, di ripensamento della propria identità. Le personalità dominanti nel cinquantennio dell’esilio furono il profeta Geremia (in Giuda), il profeta Ezechiele e il Deuteroisaia in Babilonia. Al ritorno in Giuda (permesso dal re persiano Ciro) si cominciò la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, consacrato nel 515 a.C. (comincia così l’era dell’ebraismo del Secondo Tempio).
            Nei decenni successivi si incontrano i profeti Malachia, Esdra e Neemia. Al periodo persiano (concluso nel 333 a.C.) seguì il periodo ellenistico (333-63 a.C.) durante il quale l’ellenismo, come modello di vita e cultura, è imposto anche ad Israele dalla dinastia dei Seleucidi, originata dalla spartizione dell’Inpero di Alessandro Magno. Si ha in questo periodo (167 a.C.) quello che la bibbia definisce “l’abominazine della desolazione”, cioè viene inaugurato nel tempio il culto di Zeus Olimpio. A questo fece seguito la rivolta dei maccabei che riuscì a liberare quasi completamente Gerusalemme dalla pressione della civiltà greco-ellenistica. Si formano in questo periodo i vari movimenti come i Farisei, gli Esseni e i Sadducei.
            Ma la fragile libertà giudaica non potè resistere all’ingresso della potenza romana in Asia: Pompeo entrò in Siria nel 64 a.C. e nel 63 a.C. occupò Gerusalemme ed espugnò il Tempio. Per oltre vent’anni la comunità giudaica fu retta dal sommo sacerdote Ircano, sotto il controllo del governatore romano della Siria. Ma nel 40 a.C. Erode il Grande viene riconosciuto da Roma re “federato” di un territorio che egli estese a tutta la Palestina. Alla sua morte il regno fu smembrato fra i figli Archelao, Erode Antipa, Filippo e la sorella Salome.
            In questi decenni si colloca la figura di Gesù di Nazaret. Il governo dei procuratori, benchè gli ebrei godessero in patria e in tutto l’impero, di libertà religiosa ed esenzione dal culto imperiale, fu sempre più spesso provocatorio  e repressivo. Scoppiò così la guerra giudaica nel 66 d.C. che finì nel 70 quando Titò sferrò l’attacco finale al Tempio di Gerusalemme, dove si erano ritirati gli ultimi difensori, e fu dato alle fiamme. Con le centinaia di migliaia di morti scomparve anche l’intera struttura socio-religiosa che faceva capo al Tempio, scomparvero i sadducei, gli esseni, gli zeloti, il sommo sacerdozio e il Sinedrio di Gerusalemme. La sopravvivenza degli ebrei e dell’ebraismo dipese dall’esistenza di una vasta e antica diaspora in tutto il bacino mediterraneo, dal distacco che si era prodotto tra la classe sacerdotale sadducea e il popolo, e dall’opera dei farisei, considerati guide spirituali. Ci fu una seconda guerra giudaica nel 132 fino al 135 in cui l’acclamato messia Ben Kosiba riuscì a tenere il tempio per due anni circa. Ma anche da questa guerra la popolazione ebraica palestinese ne uscì decimata, Gerusalemme fu ricostruita come colonia romana, la Giudea ebbe il nome di Palestina, e agli ebrei fu vietato l’ingresso alla città santa. La storia successiva degli ebrei, anche quando riguarda gruppi rimasti in Palestina, è una storia diasporica. 

Il punto di vista storico-critico e il senso dei racconti biblici 

Esaminiamo qui alcuni degli episodi raccontati nella Bibbia ebraica (con buona approssimazione, l’Antico Testamento cristiano) ritenuti basilari per la nascita e la configurazione dell’ebraismo, a partire dalla critica storica per considerarne poi il senso e le finalità spirituali e umane.

La creazione 

            Le parole con cui si apre la Bibbia hanno un’aura arcaica e solenne: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e il vento di Dio si librava sulle acque”(Gen 1,1). È chiaro che non dobbiamo prendere alla lettera tale testo (e il seguito del racconto) come fosse una cronaca, anche perché nessun uomo a quel tempo stava a guardare come stessero andando le cose, per poi poterle raccontare.
“Quando diciamo che Dio ‘crea’ l’universo - dice il teologo K. Ward - vuol dire semplicemente che tutto – per quanto a lungo sia esistito – dipende sempre e in ogni momento da Dio. […] Le storie della Bibbia esprimono significati spirituali, e non vanno intese come verità letterali.” Si sta affermando soltanto che l’universo non è autosufficiente. Le storie della Genesi ci danno la percezione dell’ordine della creazione, della sua dipendenza da Dio. Questo è ciò che esprimono in una meravigliosa opera di poesia. I cosmologi pongono l’accento sul “come” dell’universo – sull’identificazione degli stadi del suo sviluppo, dal big bang a oggi – mentre l’interesse dell’autore della Genesi è centrato sul “perché” dell’universo. Della questione filosofica e scientifica della creazione abbiamo già parlato in precedenza (vedi argomenti cosmologici e teologici di Dio). Se il mondo deriva da una divinità e non “basta a se stesso” per esistere e per essere quello che è (questione appunto dibattuta e controversa), è del tutto inverosimile una creazione diretta del mondo qual è oggi, come è presentata nella Genesi: l’azione di una divinità starebbe eventualmente nel porre in esistenza gli elementi strutturali dell’universo e/o nel guidare il processo evolutivo cosmico e biologico per arrivare alla vita e all’uomo. Una creazione diretta di Dio in sei giorni è solo un racconto antropomorfico mitologico.
            Nel testo si parla di cielo, terra, tenebre, abisso, vento e acque, termini che  evocano quanto vi è di più comune nei miti dedicati alla nascita del cosmo presenti in molte culture. Né vi sono dubbi sul fatto che i redattori del primo capitolo della Genesi conoscessero le grandi narrazioni delle origini diffuse nel Vicino Oriente. Per la maggior parte degli studiosi questo testo è stato concepito e scritto durante o, forse, subito dopo l’esilio babilonese (586-536 a.C.) per una serie di solide ragioni, una fra le quali è l’evidente influsso della mitologia mesopotamica: la descrizione del mondo primordiale come “caos acquatico” (cfr. Genesi 1,2) è tipico della Mesopotamia (pianura attraversata da due grandi fiumi) ma non lo è della terra d’Israele dove il “caos primordiale” viene rappresentato piuttosto come una terra desertica (cfr. Genesi 1,4b-5). Questo non vuol dire che l’autore di Genesi abbia semplicemente copiato testi preesistenti: se è vero che la Genesi rispecchia alcuni aspetti di miti dell’origine già presenti, è altresì vero che se ne discosta su altri: per es. in Mesopotamia la “storia” inizia prima della creazione del mondo e dell’umanità come una “storia” degli dèi che precede la creazione del nostro mondo e che incide sulla natura e sul fine degli uomini, mentre per la Bibbia l’inizio della storia coincide con l’inizio del nostro mondo e in tal modo la libertà umana è meno “predeterminata” che nel mondo mesopotamico. In ogni caso il racconto della creazione in Gn 1 non vuol descrivere con esattezza come Dio ha creato il mondo. Ci spiega piuttosto come gli autori, gli autori sacerdotali del 6° sec. a.C., vedevano l’universo. 

Il diluvio universale 

            Ancor più nel racconto del diluvio rispetto alla Genesi appare evidente la sua derivazione dai miti mesopotamici (poema di Atram-khasis e quello di Gilgamesh): su diversi punti vi sono equivalenze sorprendenti, come sull’arca, il diluvio d’acqua, la salvezza di una sola famiglia, l’invio di uccelli alla fine del diluvio e il sacrificio finale. Del resto, come già detto, l’idea del diluvio non si addice alla configurazione fisica della terra palestinese (colline e montagne), mentre si attaglia benissimo alla vallata del Tigri e dell’Eufrate circondato da montagne, dove per altro era frequente (annuale) il fenomeno dello straripamento dei due fiumi, talvolta di proporzioni importanti.
“Il racconto del diluvio è dunque un tipico “mito di fondazione” che non può e non deve essere “spiegato” come memoria di una qualche catastrofe preistorica; […] anche le testimonianze archeologiche confermano le inondazioni “storiche” e non già un diluvio archetipo” dice lo studioso M. Liverani. Il “modello” del racconto biblico è quindi con ogni probabilità un racconto mesopotamico, conosciuto dal popolo israelita al tempo dell’esilio, adattato, che ne fà il primo episodio della ricorrente vicenda di punizione divina contro la violenza umana.
            Il racconto cerca di rispondere ad una domanda fondamentale all’epoca dell’esilio: a quali condizioni l’universo può sopravvivere? Chi o che cosa impedirà che una catastrofe cosmica possa far scomparire il mondo nel nulla? La risposta alla domanda è duplice. La parte più antica del racconto, che è comunque esilica o postesilica, suggerisce che la sopravvivenza del mondo dipende solamente dalla grazia di Dio, il quale conclude un’alleanza incondizionata con il giusto Noè e la sua famiglia promette di non mandare mai più un diluvio per distruggere il mondo (Gn 6,18; 9,8-17). La seconda risposta, più tardiva, viene data dopo la ricostruzione del tempio e il ripristino del culto (520-515 a.C. ) e suggerisce che l’esistenza del mondo dipende dal culto: Dio promette di non distruggere mai più l’universo perché gradisce il sacrificio di Noè (8,20-22). Le due risposte sono complementari: la prima insiste sulla grazia divina, l’altra sulla necessità dell’iniziativa umana, in questo caso del culto. 

Abramo e i patriarchi 

            Molti autori pensano con buone ragioni che i racconti in Genesi 1-11, vale a dire i racconti sulla creazione del mondo, su Caino e Abele, il diluvio e la torre di Babele, appartengano non tanto alla storia quanto ai miti fondativi della storia dell’umanità, mentre con Abramo e i patriarchi entreremmo nelle vicende della protostoria di Israele. La cosa tuttavia non è del tutto sicura.
Non esiste alcuna prova del fatto che i patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe – e le matriarche, Sara, Rebecca, Lea e Rachele – siano realmente vissuti: nessuna iscrizione, nessun documento extrabiblico, nessun monumento parla di loro.
Alcuni studiosi sostennero che alcuni dettagli nelle storie della Genesi avrebbero potuto convalidarne la storicità: elementi come i nomi di persona, le insolite usanze matrimoniali, le leggi per l’acquisto della terra e la descrizione dello stile di vita nomade e i percorsi affrontati avrebbero forse potuto trovare riscontro nell’archeologia e in documenti mesopotamici risalenti nel II millennio a.C., periodo in cui sarebbero vissuti i patriarchi.
La ricerca è stata però alquanto deludente. L’archeologia dimostrò come fosse del tutto infondata la convinzione che in quell’epoca ci fosse stato un improvviso e massiccio spostamento della popolazione dalla Mesopotamia verso Canaan; le apparenti analogie tra le leggi mesopotamiche  e gli usi del II millennio a.C.  da un lato e quelli descritti nel ciclo dei patriarchi dall’altro, erano così generiche che potevano adattarsi quasi ad ogni epoca della storia del Vicino Oriente Antico. Anzi, i riferimenti nei testi biblici ai cammelli, alle mercanzie arabe, ai filistei, a luoghi, ad altre nazioni, indicano un’epoca di composizione dei testi di circa un millennio successiva (8° e 7° sec a.C.) a quella in cui, secondo la Bibbia, sarebbero vissuti i patriarchi. E’ possibile che alcune tradizioni siano più antiche, ma l’uso che se ne fa e l’ordine in cui sono organizzate fanno emergere il tentativo letterario di ridefinire l’unità del popolo d’Israele da parte di Giuda nel 7° sec..
            Ma anche qui occorre dire che l’intenzione dei testi biblici non è quella di “informare” sulla storia quanto piuttosto di “formare” la coscienza religiosa di un popolo: questo non esclude che ci siano elementi storici ma presuppone che il modo dei racconti segua un altro fine. Il caso dei racconti patriarcali è simile a quello di molte leggende, in cui i personaggi non sono necessariamente inventati – se la loro figura non è ben ancorata nella tradizione di un popolo non ha possibilità concrete di essere accettata e ancor meno di diventare parte del patrimonio letterario di un popolo - ma molto di quello che si racconta nelle leggende è davvero “leggendario” ed è difficile, anzi in molti casi impossibile, separare gli elementi leggendari da quelli che sono strettamente “storici”.
Gli scopi dei racconti sugli antenati sono molteplici: essi vogliono affermare l’identità del popolo d’Israele e lo fanno a partire da una “genealogia”, che li differenzia dagli altri popoli perché hanno antenati diversi, e fonda alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla terra di Canaan e alle altre benedizioni promesse da Dio al suo popolo; inoltre gli antenati sono presentati come modelli da seguire, modelli di fede e di obbedienza. Con ogni probabilità, l’ultima redazione di questi racconti è effettivamente avvenuta in epoca postesilica, quando Israele non possedeva più la sua terra. Essi rappresentano la speranza che, nonostante l’infedeltà d’Israele abbia causato l’esilio, Dio mantenga la promessa fatta ad Abramo, legata ad una alleanza incondizionata, di affidare al suo popolo una terra e una numerosa discendenza.   

Mosè (piaghe d’Egitto, attraversata del Mar Rosso, deserto, Sinai) 

            La figura di Mosè e la storia della liberazione degli israeliti dalla schiavitù dell’Egitto sono così importanti che i libri biblici dell’Esodo, del Levitico, dei Numeri e del Deuteronomio (ossia non meno dei quattro quinti del testo sacro fondamentale di Israele) sono dedicati agli eventi vissuti da una singola generazione in poco più di quarant’ anni. In questi scritti si racconta dei miracoli del roveto ardente, delle piaghe d’Egitto, della divisione delle acque del Mar Rosso, dell’apparizione della manna nel deserto e della rivelazione della Legge di Dio sul Sinai. Il Dio di Israele, prima noto solo attraverso rivelazioni private ai patriarchi, qui si mostra a tutta la nazione come divinità universale. Ma quanto si tratta di storia e quanto di leggenda?
Bisogna ammettere che, anche se Mosè, la sua storia e quella di Israele ad essa collegata, costituiscono il nucleo dell’Antico Testamento, le fonti archeologiche e documenti extra-biblici non sono attualmente in grado di darci precise informazioni al riguardo.
Il passaggio di Mosè alla corte del Faraone, il suo intervento a favore del popolo ebreo e le sua lunghe battaglie con il successore di questo faraone, sono rimasti senza echi nella storia egiziana. Di Mosè è certo solo che il suo nome è di origine egiziana (significa “generato da”) e questo rende verosimile che non può essere stato facilmente inventato, perché se gli israeliti avessero voluto darsi un eroe nazionale non gli avrebbero dato un nome egiziano ma semmai tipicamente semitico. Però è difficile poter dire di più. Certamente non significa che tutto quello che la Bibbia racconta a proposito di Mosè sia accaduto letteralmente come viene descritto. Con ogni probabilità Mosè è diventato un personaggio chiave della storia di Israele nell’epoca postesilica, in cui la monarchia era scomparsa e nessuno sapeva se e quando si sarebbe restaurata. Per aggirare le difficoltà, Israele ricercò nella sua tradizione un fondamento più solido della monarchia, di più antico, che fosse sopravvissuto alla catastrofe dell’esilio, ed era la tradizione mosaica. Secondo questa tradizione, Israele era nato e aveva ricevuto tutte le sue istituzioni sacrali e civili prima della monarchia e quindi poteva anche esistere senza la monarchia o dopo la monarchia. Mosè era quindi indispensabile all’esistenza di Israele.
            Fonti storiche e archeologiche documentano abbondantemente la situazione di base descritta nell’Esodo, il fenomeno di popolazioni che scendono in Egitto da Canaan, soprattutto per la siccità. Ma, se abbiamo documenti egizi che si riferiscono a Israele come a un gruppo di persone che già viveva a Canaan nel 13°sec. a.C., non abbiamo alcun indizio sugli antichi israeliti in Egitto, spiegano gli archeologi I. Finkelstein e N. Silberman.
Israele non è presente né tra i possibili nemici dell’Egitto, né fra gli amici né fra le nazioni ridotte in schiavitù. Forse però tale mancanza di testimonianze specifiche di schiavi ebrei in Egitto - ma solo di popolazioni semitiche - si può spiegare col fatto che c’erano stati tanti schiavi in Egitto durante la storia antica di questo paese, e tenendo conto che gli israeliti sono stati in Egitto per un lasso di tempo limitato.
            Non ci sono riferimenti storici evidenti nemmeno riguardo l’esodo ebraico.
Per alcuni studiosi sembra molto improbabile che un gruppo tutt’altro che insignificante sia sfuggito al controllo egiziano all’epoca di Ramsete II, come pure che questo stesso gruppo abbia attraversato il deserto e sia entrato a Canaan.  Nel 13° sec. l’Egitto era all’apice della sua forza: il confine egiziano era protetto da un sistema di fortificazioni strettamente sorvegliate. Qualsiasi compagine che avesse abbandonato l’Egitto contro la volontà del faraone avrebbe potuto essere rintracciata facilmente dai soldati egiziani. Per altri studiosi esiste qualche possibilità di una spiegazione alternativa. Esistono infatti antichi testi egiziani che documentano il passaggio di schiavi fuggiaschi che lasciavano l’Egitto, anche attraverso zone paludose, per tornare a vivere liberi nel deserto. Di più però non si può dire.
Anche precisare la data dell’eventuale esodo biblico è impossibile: dati i numerosi episodi di schiavi fuggiti dall’Egitto è impossibile dire quale fra di essi sarebbe proprio quello di cui parla la Bibbia. Non risulta poi registrata negli archivi egiziani alcuna scomparsa di un esercito egiziano nel mare mentre inseguiva un gruppo di israeliti usciti sotto la guida di un certo Mosè, e non ricordano nemmeno la morte di un Faraone annegato in mare. Ma è anche vero che le cronache del tempo non registravano facilmente le sconfitte, e che l’esodo è stato un evento fondamentale per la fede d’Israele e non per la storia dell’Egitto.
            Secondo il racconto biblico, poi, gli israeliti si sarebbero spostati nel deserto e fra le montagne della penisola del Sinai vagando e accampandosi in luoghi diversi per circa quarant’anni. Tuttavia non è mai stata identificata nel Sinai nemmeno una traccia di un insediamento risalente all’ epoca in cui si suppone sia avvenuto l’esodo (13° sec a.C.), nonostante i numerosi scavi effettuati con le più moderne tecniche archeologiche.
            Facciamo anche qualche considerazione sui numerosi racconti di fenomeni miracolosi presentati nella Bibbia.
I fenomeni descritti come miracolosi nel racconto biblico delle piaghe d’Egitto - mandate da Dio, tramite Mosè, al Faraone perché liberasse Israele - sono fenomeni naturali comuni in Egitto.
Per esempio si può osservare, o si poteva prima della costruzione della diga di Assuan, ogni anno l’acqua cambiarsi in “sangue” quando il Nilo, in primavera, ingrossato dalle piogge cadute in Africa centrale, trasporta argilla rossa. Anche rane, zanzare, mosche, cavallette, malattie ed epidemie erano fenomeni comuni nell’antichità. Solo la grandine è un fenomeno molto raro in Egitto, ma non è impossibile. La piaga delle tenebre può spiegarsi con le tempeste di sabbia. La morte dei primogeniti si spiega più difficilmente, specialmente se tutti i primogeniti sono morti nella stessa notte, compresi i primogeniti degli animali. Bisogna però anche considerare il linguaggio iperbolico del racconto e il suo sviluppo a tappe: probabilmente dalla morte del solo primogenito del Faraone come in Es 4,23 si è passati poi all’amplificazione come in Es 12. Esiste peraltro anche una malattia particolare che colpisce solo i primogeniti. 
Anche il famoso “passaggio del Mar Rosso” può essere facilmente spiegato. Innanzitutto vi sono almeno tre possibilità circa l’itinerario percorso per l’esodo (avvenimento forse probabile ma non confermato): o l’attraversamento del Mar Rosso, o i cosiddetti “Laghi Amari” o una laguna vicina al Mediterraneo chiamata Lago Menzaleh. Abitualmente si parla del Mar Rosso ma è improbabile che gli israeliti abbiano scelto questo itinerario perché questo mare è troppo profondo (in ogni caso “Mar Rosso” si traduce oggi con più esattezza con Mar dei Giunchi). La regione dove si trova attualmente il canale di Suez era nell’antichità una regione di laghi. E’ molto più probabile che si debba cercare in questa regione il racconto di Esodo 14, presso uno dei laghi o vicino a una laguna. In questo modo è verosimile che gli ebrei abbiano superato gli acquitrini che separano l’Egitto dal deserto, mentre i carri degli egiziani, arrivati al tramonto abbiano inizialmente trovato il modo di inoltrarsi nelle lagune (per es. un forte vento dall’est potrebbe aver scoperto una parte della sponda del lago), ma al mattino, trovando diverse condizioni fisiche (per es. il vento caduto e il ritorno delle acque nel suo posto abituale) si siano arenati nel fango.
Anche per i racconti sui “miracoli” avvenuti nei presunti quarant’anni (numero simbolico) trascorsi nel deserto, si possono ridurre a normali fenomeni naturali. Per esempio, la manna di cui si parla in Es 16 e Numeri 11 è la secrezione di un insetto che si nutre della linfa di un cespuglio presente in questa regione. Il colore di questa secrezione è bianco e il suo gusto è dolce. Anche per il “miracolo dell’acqua” che esce dalla roccia (Es 17,1 e Numeri 20,1-13), si può pensare trattarsi dell’umidità che si condensa e si accumula di notte nelle crepe delle rocce. Così riguardo il racconto dove Mosè rende potabili “acque amare” (Es 15,22-25) si può pensare all’uso del legno di certi alberi conosciuti dalle popolazioni del deserto capaci di rendere salubri acque non potabili. Le migrazioni di quaglie (Es 16 e Numeri 11) e altri uccelli sono ben note agli abitanti della costa mediterranea e del deserto del Sinai. La teofania del Sinai può descrivere un violento temporale.
            Ma, in generale, anche riguardo i racconti di miracoli occorre uno sguardo diverso, occorre considerare quello che gli autori volevano dire: per esempio, quelli delle “piaghe”, potevano significare che il potere del Dio d’Israele era più grande di quello del Faraone. Lo scopo di questi racconti non è di presentare i fenomeni come inconsueti e inesplicabili naturalmente, ma al contrario, quello di mostrare che solo Dio è padrone della natura. Né il Faraone né i suoi maghi sono capaci di comandare al Nilo, agli insetti, alle cavallette, al vento, alla grandine, alla luce e alle tenebre. Sono anche incapaci di impedire le malattie degli uomini e degli animali.  In poche parole, il potere del Faraone è limitato non perchè non riesce a causare fenomeni inauditi, ma perché non può comandare alla “natura”. Infatti, la mentalità antica non distingue come facciamo noi oggi fra i fenomeni “naturali”, spiegabili dalla scienza, e quelli “soprannaturali” che la scienza non riesce a spiegare. Per il mondo antico, il primo miracolo è il fatto che vi sia un mondo popolato da esseri viventi. Ogni fenomeno naturale è dunque un “miracolo” per gli antichi perché niente accade senza l’intervento di Dio nella natura e nel mondo degli uomini. Il racconto biblico vuol dimostrare questa verità essenziale della fede con i mezzi letterari a sua disposizione. Così se nel deserto, luogo dove è quasi impossibile la vita, avvengono fenomeni naturali che la rendono possibile, questi vengono considerati come un intervento divino.
            I numerosi riferimenti circa le attività edilizie pubbliche egiziane, nomi egiziani, luoghi, riportati nel racconto di Mosè indicano, per la loro specificità, che il racconto dell’Esodo abbia raggiunto la sua forma finale all’epoca della XXVI dinastia egiziana, fra la seconda metà del 7° e la prima metà del 6° sec. a.C.. Non tutta la narrazione sarà stata composta nel 7° sec. a.C., perché accenni all’esodo si trovano anche in scritti anteriori di un secolo (Amos e Osea), ma è difficile stabilire di che genere di memoria si trattasse.
            Possiamo quindi considerare la composizione del racconto dell’Esodo secondo questa prospettiva: proprio come la forma scritta dei racconti patriarcali unì insieme tradizioni sulle origini al servizio del fermento nazionalistico presente in Giuda nel 7° sec. a.C., la storia pienamente elaborata del conflitto con l’Egitto, del grande potere del Dio d’Israele e del suo miracoloso intervento salvifico in favore del suo popolo, fu posta al servizio di uno scopo militare, politico e religioso ancora più immediato. L’epopea dell’Esodo non è né verità storica né finzione letteraria: è una potente espressione della memoria e delle speranze nate in un mondo in procinto di cambiare. 

Conquista di Canaan 

            Il libro di Giosuè racconta la storia di una campagna militare fulminea durante la quale i potenti re di Canaan furono sconfitti in battaglia e le tribù di Israele ereditarono le loro terre. Si descrive la caduta delle mura di Gerico al suono delle trombe, il sole che si ferma a Gabaon e l’incendio della grande città Cananea di Hazor. Realtà o mito?
Benché le antiche città di Gerico, Ai, Gabaon, Lakish, Hazor e quasi tutte le altre nominate nella storia biblica siano state localizzate e portate alla luce, le testimonianze in favore di una conquista storica di Canaan da parte degli israeliti sono certamente deboli.
Le città di Cannan nell’età del tardo bronzo (1550-1150 a.C.) erano vassalle dell’Egitto, governate da re con scarso potere e niente affatto protette da fortificazioni e cinta muraria. Nel caso di Gerico, nel XIII sec. a. C. non c’erano tracce di alcun insediamento, mentre nel 14° sec. era stato un piccolo e povero centro privo di fortificazioni. Il popolo d’Israele, sotto la guida di Giosuè, si è quindi trovato davanti a città non occupate, distrutte e in rovina: ben diversamente dai potenti nemici e città fortificate descritte dalla Bibbia! Probabilmente furono le invasioni di gruppi violenti conosciuti come “popoli del mare”, nomadi venuti da occidente per terra e per mare, che in questi secoli devastarono le zone di Canaan. In ogni caso, le testimonianze archeologiche dimostrano che queste città sono state distrutte in un lasso di tempo di oltre un secolo, a causa o di invasioni, o rimescolamenti sociali, o guerra civile, non certo per una campagna militare condotta da un'unica forza militare.
            Occorre allora chiedersi come “Israele” si sia concretamente stabilito nella terra di Canaan.
Vi sono varie teorie: la teoria più comune fino a qualche anno fa dava credito appunto al racconto biblico della conquista militare, teoria di cui abbiamo visto la scarsa plausibilità in seguito a scoperte archeologiche recenti; un’altra teoria sostituisce alla rapida conquista militare una infiltrazione lenta e inizialmente pacifica di pastori seminomadi venuti da regioni desertiche – identificati con gli israeliti - che si sono progressivamente sedentarizzati nella terra di Canaan e che per espandersi sarebbero poi entrati in conflitto con le popolazioni contadine locali: sulla base però  di più dettagliati dati etnografici e teorie antropologiche non sembra che il rapporto tra nomadismo pastorale e comunità sedentarie in Medio Oriente dovesse risultare problematico; una terza teoria ipotizza che i primi israeliti non fossero stati né predoni invasori né nomadi infiltrati, ma contadini ribelli che, per il deteriorarsi della loro situazione economica a Canaan, avevano abbandonato la città per rifugiarsi sull’altipiano disabitato. Forse vennero in contatto con un piccolo gruppo di persone venute dall’Egitto con idee religiose non ortodosse (il cosiddetto monoteismo di Akhenathon) e attorno a questo si formarono come popolo e come religione. Anche questa teoria però trova smentita nelle testimonianze archeologiche che non presentano traccia di gente sradicata che lascia il proprio villaggio in pianura alla ricerca di una nuova vita sull’altipiano.
Oggi, in seguito a indagini intensive sull’altopiano israelita, con la scoperta dei resti di una fitta rete di villaggi, tutti apparentemente fondati nell’arco di poche generazioni, si ritiene che intorno al 1200 a.C. ci sia stata un’importante trasformazione sociale nell’area delle alture centrali di Canaan: non c’erano segni d’invasione violenta o anche d’infiltrazione di un gruppo etnico chiaramente definito, sembra piuttosto che ci sia stata una rivoluzione nel modo di vivere che avrebbe portato ad un aumento progressivo della popolazione: erano questi i primi israeliti, pastori stanziatesi e diventati agricoltori permanenti, residenti dapprima in piccole comunità rurali e sviluppatesi via via in grandi città.
            Quindi, per una conoscenza esatta dell’insediamento di Israele nella terra di Canaan il racconto biblico di Giosuè e Giudici è nell’insieme meno utile dei dati forniti dall’archeologia. Questo non vuol dire che la Bibbia non sia basata su alcun evento storico. Per esempio, il popolo d’Israele non è un popolo mitologico, e la terra promessa non è un paese di leggenda. Lo scopo primario dei libri biblici analizzati non è quello di fornire dati in merito agli avvenimenti del periodo premonarchico. I dati storici, quando sono presenti, sono sempre al servizio di un disegno di ordine letterario e teologico, ed è in questo senso che occorre leggerli.
Il libro di Giosuè è uno dei pochi esempi di letteratura “epica” nella Bibbia. Il carattere epico del libro si manifesta soprattutto nel modo di descrivere le battaglie di Israele contro le popolazioni del paese: tranne in un caso - per il primo tentativo di conquista di Ai, in cui si fa ricadere la colpa su altri -  Giosuè vince e stravince contro tutti. Come nell’epopea non esistono vittorie a metà, ma sono complete o non ci sono. Inoltre servono ad esaltare un momento felice di Israele perché è fedele al suo Dio, e questo spiega il successo della conquista. Questo racconto cerca di esaltare il suo eroe, di celebrare più che descrivere e di promuovere nel lettore sentimenti di ammirazione. Questa epopea si è rivelata necessaria quando Israele era diventato una piccola provincia di grandi imperi: l’apparente miseria del presente non doveva far dimenticare che all’origine Israele era vincitore e nessuno riuscì a fermare l’esercito condotto da Giosuè. Se Dio sembrava ora, ossia nel 6° e 7° sec., trascurare il suo popolo, non era stato così quando regalava vittoria su vittoria al suo popolo perché osservava scrupolosamente la sua legge. La lezione è abbastanza chiara: se volete rivivere un tempo simile, dovete comportarvi come la generazione di quell’epoca.
Se è vero quello che dicono le teorie più recenti, e cioè che il popolo di Israele si sarebbe semplicemente formato a partire dalle popolazioni autoctone che vivevano nella regione centrale delle colline, allora il racconto biblico ha solo trasformato il processo lento, e per lo più pacifico, in una serie di gesta epiche atte ad enfatizzare la potenza e l’intervento di Dio a favore del suo popolo. 

Davide e Salomone 

            Per secoli i lettori della bibbia hanno guardato indietro all’epoca di Davide e di Salomone come all’età dell’oro della storia di Israele, e molti studiosi fino a qualche tempo fa consideravano il periodo monastico come effettivamente storico. Tuttavia, le scoperte archeologiche costringono a ridimensionare, e di molto, tali concezioni.
Possiamo solo essere certi dell’esistenza di un personaggio chiamato Davide – in base alla scoperta di una iscrizione da parte di un re arameo che riporta la vittoria contro la “Casa di David” – ma riguardo la potenza e l’estensione del suo regno, l’archeologia testimonia che è altamente improbabile che questa regione scarsamente popolata di Giuda e il piccolo villaggio di Gerusalemme potessero essere diventati il centro di un grande impero che si estendeva dal Mar Rosso a sud fino alla Siria al nord. Non c’è assolutamente alcuna indicazione archeologica della ricchezza, della disponibilità di uomini e del livello di organizzazione che sarebbero stati necessari a sostenere in campo grandi eserciti, anche solo per brevi periodi.
Così riguardo anche la presunta gloriosa monarchia fondata dal suo successore Salomone: la bibbia racconta di come Salomone ricostruì le città settentrionali di Meghiddo, Hazor e Ghezer, facendo costruire imponenti palazzi ed edifici monumentali. L’archeologia tuttavia indica che il regno di Giuda, patria di Davide e Salomone, non era né così ricco né così sviluppato come racconta la bibbia, che i resti di palazzi ritrovati, ascritti in passato a Salomone, sono ora molto più plausibilmente attribuiti ad altri re, e che Gerusalemme, che sarebbe dovuta essere la capitale dell’impero, non era che un piccolo villaggio sperduto e arretrato rispetto ad altre città.
Inoltre se la descrizione dei libri di Samuele e del primo libro dei Re fosse una descrizione realistica, non si capirebbe perché gli imperi vicini non ne avrebbero sentito parlare e non ne avrebbero conservato alcuna notizia (ricordiamo che secondo la Bibbia Salomone avrebbe sposato la figlia di un Faraone).
            Tuttavia bisogna riflettere sulle ragioni per cui questo regno davidico di dimensioni modeste acquistò nella memoria collettiva d’Israele dimensioni favolose e quasi leggendarie solo dopo la caduta di Samaria nel 721 a.C. per mano degli assiri. In quel momento, Gerusalemme prese la successione di Samaria e divenne la città più importante della regione. I re di Giuda, che appartenevano alla “casa di Davide”, fecero del loro antenato il primo re di un grande regno che corrispondeva forse più ai loro sogni che alla realtà storica. Nel mondo antico, di cui fa parte la bibbia, il passato giustificava il presente. La storia di Davide e Salomone giustificava le pretese dei re di Giuda sui territori del nord del paese che erano passati sotto l’egemonia assira. In seguito, indebolito l’impero assiro, i re di Giuda poterono estendere la loro zona di influsso verso il nord, specialmente sotto il re Gioisia (640 - 609 a.C.).
La storia biblica di Davide e Salomone è pertanto per certi versi opera di propaganda politica, ma contiene anche un significato religioso – la descrizione del tempio di Salomone ha lo scopo di mostrare che all’inizio del regno d’Israele esisteva un culto unico e riconosciuto da tutte le tribù, e questo serviva per legittimare la riforma religiosa introdotta sotto Gioisia dell’unico culto nell’unico tempio a Gerusalemme – e perché entrambe queste operazioni fossero credibili dovevano comunque basarsi su qualche fatto storico, seppur interpretato. 

La riforma monoteistica 

            Dopo la morte di Salomone ci fu il crollo della monarchia e la divisione dello stato nei regni di Israele e di Giuda. L’interpretazione della Bibbia sulla situazione di una presunta passata unità nazionale, sulle cause della divisione, e sulla sorte del regno d’Israele e la sopravvivenza di Giuda, non sempre converge con la ricerca storico-archeologica.
Ma ci soffermeremo solo sull’aspetto delle origini del monoteismo biblico.
La Bibbia presenta il monoteismo come già compiuto sin dalle origini della storia d’Israele, e poi perpetuatesi immutato nel tempo. L’enigmatica autopresentazione di Yahvè a Mosè (Io sono colui che sono) in Es 3,13-14, funge da momento fondante per le religione ebraica. Da dove viene il rigoroso monoteismo del popolo ebraico se tutte le religioni antiche sono invece politeiste? Perché l’ebreo, sin dall’origine della sua storia, non immagina il cielo popolato da una miriade di dèi ma giunge subito ad un Dio solo? Queste sono le domande espresse da una certa apologetica che trova poi la risposta nell’affermazione che solo un intervento di Dio nella storia poteva rivelare quel suo volto cui la sapienza degli uomini non poteva giungere.
            Questo però non è corretto.
            Innanzitutto la nostra prima notizia di insegnamenti monoteistici sembra essere quella relativa al faraone egiziano Akhenaton, che governò nel 14° sec. a.C.. Akhenaton introdusse il culto di una divinità, Aton, uno spirito universale e onnipresente creatore e reggitore del mondo. Ma la religione di Akhenaton fu soppressa da quella del suo successore, Tutankhamon, e non pare abbia poi avuto un seguito nella religiosità egizia dei secoli a venire.
            E poi, in realtà la religione tradizionale di Giuda era sì l’adorazione di Yahvè ma insieme a una varietà di dèi e dee noti o adottati dai culti dei popoli vicini. In poche parole Yahvè era adorato in una grande varietà di modi. Dalla testimonianza indiretta (e decisamente negativa) del libro dei Re, apprendiamo che i sacerdoti di tutto il paese bruciavano regolarmente incenso al sole, alla luna e alle stelle. Esiste un’ampia documentazione biblica e archeologica della fioritura del culto sincretico di Yavhè anche in Gerusalemme e in tarda epoca monarchica. La condanna dei veri profeti di Giuda è una prova abbastanza evidente del fatto che Yahvè era adorato a Gerusalemme insieme con altre divinità, come Baal, Ashera, le schiere celesti e anche le divinità nazionali dei paesi vicini. Anche in Israele sembra ci dovrebbe essere stata una simile varietà di pratiche religiose.
Ma la straordinaria trasformazione sociale intervenuta alla fine dell’8° secolo a.C. portò con sé un intenso conflitto religioso direttamente connesso con l’emergere della Bibbia quale la conosciamo oggi. L’influenza demografica, economica e politica di Gerusalemme era diventata enorme e si accompagnava ad un nuovo progetto politico e territoriale: l’unificazione di tutto Israele. Di conseguenza crebbe la determinazione con cui la casta dei profeti e dei sacerdoti si sforzava di definire i “giusti” metodi di culto per tutto il popolo di Giuda, e naturalmente per quegli israeliti che vivevano sotto il governo assiro del nord. A un certo momento, nel tardo 8° secolo ci fu l’apparizione di una scuola di pensiero sempre più forte che affermava che si doveva adorare solo Yahvè e dichiarava sacrileghi gli altri culti del paese.
            Con re Gioisia, che regnò dal 640 al 609 a.C., questo obiettivo venne raggiunto.
Per l’autore della storia deuteronomistica il regno di Gioisia segnò un momento di importanza paragonabile a quella del patto di Dio con Abramo, dell’esodo dall’Egitto o della promessa divina a re Davide. Stando alla Bibbia, nel 622 a.C., al suo diciottesimo anno di regno, Gioisia ordinò di rinnovare il tempio di Gerusalemme, e durante questi lavori il sommo sacerdote Hilqiyya vi scoprì il “libro della legge” il cui impatto fu enorme: vi si diceva infatti che Yahvè è l’unico Dio e che la pratica tradizionale del culto di Yahvè insieme ad altre divinità avuta finora era scorretta. Subito Gioisia radunò tutto il popolo di Giuda per concludere un solenne voto affinchè si consacrasse interamente ai comandamenti divini secondo le disposizioni del libro appena scoperto.
“Salta agli occhi – scrive M. Liverani - l’espediente del ritrovamento di un manoscritto “antico” per conferire il crisma dell’autorità tradizionale a quella che doveva essere invece una riforma innovativa”.
Allora, per una radicale decontaminazione del culto di Yahvè, Gioisia lanciò la più intensa riforma puritana della storia di Giuda: i suoi primi obiettivi furono i riti pagani professati a Gerusalemme e addirittura all’interno del Tempio. Egli sradicò i santuari dei culti stranieri a Gerusalemme e poi mise fine ai riti sacrificali che i sacerdoti delle campagne mantenevano vivi celebrandoli in santuari di tutto il paese. Ci sono pochi dubbi che il libro della Legge nominato in 2Re fosse una versione originale del Deuteronomio e che comunque non fosse un vecchio libro ritrovato per caso ma piuttosto un’opera scritta nel 7° sec. a.C. poco prima o durante il regno di Gioisia. L’obiettivo era arrivare ad un unico Dio, un unico tempio, un unico popolo, un unico Israele. Purtroppo però nel 586 Gerusalemme fu conquistata dai babilonesi.
Nei decenni successivi alla conquista babilonese, durante la deportazione e poi il ritorno in Giuda, i testi del Pentateuco e della Storia Deuteronomistica subirono ulteriori aggiunte, revisioni ed elaborazioni (sia di materiale recente sia di fonti precedenti) arrivando ad assumere quella che è in sostanza la forma attuale. 

Considerazioni sulla credibilità teologica della Bibbia ebraica o Antico Testamento cristiano           

La dottrina dell’ispirazione divina dei testi biblici 

            Per garantire il valore teologico della Bibbia, ossia per assicurare che i testi biblici contengano veramente la parola di Dio consegnata agli uomini, la Chiesa Cattolica si avvale della dottrina dell’ispirazione divina delle scritture: i libri sacri sarebbero tali “perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei libri sacri Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché agendo Egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva fossero scritte” (DV 11). La Bibbia presenterebbe allora due nature: da un lato parole eterne divine; ma dall’altro incarnate in una storia, in un linguaggio umano. Come parola di Dio, la Bibbia esige che ci sia una guida trascendente, capace di far cogliere la verità di fede e di vita che è deposta nel testo storico-letterario. Allo stesso tempo occorre tener conto che queste verità sono state rivelate all’interno di eventi storici e di parole umane e che quindi è necessario una strumentazione storico-critica adatta a sciogliere i nodi delle vicende e del linguaggio umano, legato a coordinate temporali, spaziali e culturali differenti dalla nostre (G. Ravasi).
Nonostante questo tentativo dottrinale di garantire l’intervento divino sulle scritture e di conciliarlo con l’operato umano, bisogna anche ammettere le difficoltà a cui va incontro una simile convinzione.
Si presume che si sia dato un intervento divino – di carattere extraordinario e in definitiva miracoloso – sulla natura o sullo psichismo umano, con il quale Dio avrebbe manifestato a determinate persone verità non raggiungibili dalla ragione che poi dovrebbero diffondere agli altri uomini. Può essere sotto forma di una visione di se stesso o di un suo rappresentante, o in un sogno notturno o in una apparizione diurna, in cui l’uomo scelto vede o sente qualcosa che trascende la sua abituale esperienza corporea.
Ma innanzitutto, non è immediato accettare tali presunte rivelazioni trascendenti (come abbiamo già detto, in generale, nell’articolo sull’“esperienza religiosa”). Ci si dovrebbe fidare delle affermazioni di un altro, che possiamo conoscere o non conoscere (da altre testimonianze, altre fonti storiche, ecc.), che potrebbe anche illudersi riguardo a ciò che dice di aver colto (o al limite anche voler ingannare) e che ci parla di una esperienza che avrebbe esperito, esperienza diversa dalle normali esperienze empiriche che facciamo tutti e che sarebbe stata data da una entità Altra invisibile, e non dal suo stato mentale soggettivo. Gli altri dovrebbero credere a quelle verità inaccessibili perché il testimone-profeta “dice che Dio glielo ha detto”, senza che possano avere alcun accesso diretto alla verità del messaggio, e senza disporre di alcuna possibilità per verificarla da loro stessi.
Inoltre nella storia delle religioni si danno rivelazioni diverse e contrastanti riferite tutte a quell’unica fonte che dovrebbe essere la medesima divinità. Contro tale obiezione si è detto che potrebbero essere diverse perché diversi sono gli individui riceventi e le loro culture, ma questo non è sempre convincente, né in ogni caso è verificabile, e comporterebbe comunque problemi sull’interpretazione del messaggio e sull’identità della fonte divina: se non è da intendersi alla lettera, perché mediato dal linguaggio e dalla cultura del ricevente, come si deve interpretare? E se la fonte divina cui si riferisce è essa stessa mutuata dall’individualità e dalla cultura del soggetto, in sé, chi o come sarà? Comunque sia, consideriamo che seguaci di altre religioni hanno la stessa pretesa di verità riguardo i loro diversi testi sacri.
Ma ritorniamo alla questione specifica dell’ispirazione divina della Bibbia. Innanzitutto essa è stata intesa in vari modi nella storia della teologia: si è passati dal considerarla come una sorta di “dettato” divino, al concetto di “ispirazione reale” in cui solo i contenuti della scrittura sarebbero ispirati da Dio, fino al concetto di “ispirazione conseguente”, facendo coincidere l’ispirazione con la successiva approvazione di un libro da parte della Chiesa.
Inoltre di certo una Bibbia “dettata” da Dio non “copierebbe” testi di altre religioni, come appare nei racconti della creazione e del diluvio, in molti salmi, in tutta la tradizione sapienziale e perfino nel fenomeno profetico; né porterebbe in tutte e in ognuna delle sue pagine i segni e le ferite del lavoro umano, con progressi e retrocessioni, splendide intuizioni e cadute nell’oscurità.
Si pensi anche solo ai tanti testi della Bibbia ebraica che ci rimandano ad una immagine di un Dio collerico, vendicativo e violento. Accenniamo solo a qualche esempio, che emerge da un primo sguardo sommario del testo. Anche sorvolando sul tanto discusso racconto su “Adamo ed Eva” (dove il Dio biblico impone un divieto che sarà poi inesorabilmente trasgredito dalla prima coppia umana e che trascinerà tutta l’umanità verso un ciclo di rivolte e di spietate repressioni), qualche capitolo dopo si narra che Dio stesso fa annegare tutta la razza umana, ad eccezione di Noè e della sua famiglia. In seguito si racconta la distruzione della città e della torre di Babele. Dio si presenta poi come uno che esige o accetta i sacrifici di bambini: dalla richiesta del sacrificio del figlio Isacco ad Abramo (Gen 22), al sacrificio della figlia di Jefte (Giudici 11), fino all’eliminazione dei primogeniti degli egiziani nella notte precedente l’esodo.  Si può ricordare ancora la violenza che sarebbe stata ordinata da Dio ai suoi mediatori. Nel Deuteronomio, per incarico di Dio, Mosè impone agli israeliti, una volta entrati nella terra promessa di Canaan, di attuare il cosidetto “interdetto” sulle genti che prima abitavano il paese, e cioè distruggere indiscriminatamente tutti gli uomini, donne e bambini maschi, insieme a tutto il bestiame ed ad ogni bene. La pratica veniva motivata con la necessità che gli israeliti conservassero la loro fede in Dio immune da tutti i pericoli derivanti dall’influenza che la religione dei popoli precedenti avrebbe potuto esercitare. Infine, in diversi salmi (ad es. il 137) si conclude invitando a prendere i neonati dei nemici e a massacrarli sfracellando il loro tenero cranio contro le pietre.
È possibile pensare che questi ordini siano stati ispirati dallo Spirito di Dio? Pensiamo ragionevolmente di no. Questo ci dice che la Bibbia non può essere presa alla lettera, che non è un libro dettato da Dio. È un testo che abbisogna di essere letto tenendo conto delle circostanze storiche e culturali in cui è venuto formandosi. Se dovessimo prenderla alla lettera perché dettata da Dio e quindi senza considerare il contributo umano (con tutti i suoi limiti) che vi è impresso, sarebbe facilmente criticabile: “Se la Bibbia fosse un’opera ispirata da Dio, non dovrebbe essere corretta, coerente, veritiera, intelligente, giusta e bella? E come mai trabocca invece di assurdità scientifiche, contraddizioni logiche, falsità storiche, sciocchezze umane, perversioni etiche e bruttezze letterarie?” (P. Odifreddi). Nemmeno basterebbe dire che alcuni testi della sacra scrittura sarebbero parola umana, altri invece parola di Dio. In base a quale criterio infatti dovremmo operare una simile scelta? 
Tra l’altro nella Bibbia non ci sono testi in cui si affermi espressamente che lo Spirito opera nella composizione del libro, ma ci sono solo allusioni implicite in cui la potenza dello Spirito è vista all’opera nei testi scritti (Is 34,16; Ne 9,3.30, Zc 7,12). L’idea di una ispirazione delle Scritture viene alla luce soprattutto nei testi più tardivi del Nuovo Testamento (1Pt 1,10-12; 2 Tm 3,16). 
Sembra allora ragionevole concludere che la dottrina teologica dell’ispirazione divina che vorrebbe salvaguardare l’unità del messaggio e dare la garanzia divina sulla verità di quanto vi è scritto pur essendo scritto da uomini, in qualunque senso la si voglia intendere - più si  sottolinea il “contributo” di Dio più incorre in critiche testuali, scientifiche, storiche, etiche; e più si sottolinea il contributo dell’uomo e più tale dottrina diventa insignificante - è da considerarsi solo un enunciato di pura fede, quantomeno inverificabile, che non può trovare alcun minimo appoggio razionale: non abbiamo modo di sapere alcunchè sull’eventuale apporto divino dato agli scrittori della Bibbia, anche e soprattutto tenendo conto della storia complicata dei testi (autori e situazioni, condizionamenti di vario genere, contraddizioni, ecc.).  

Fede e verifica storica 

            Escluso dunque l’accertamento della verità della Bibbia ebraica in base al concetto teologico di ispirazione divina della scrittura, non rimane altro che quello della verifica storica. Per l’Antico Testamento (e vedremo poi per il Nuovo) il legame tra fede e storia è essenziale, perché il Dio della Bibbia è un Dio che agisce nella storia, che guida il suo popolo in tutte le vicende della sua storia. È un Dio che si presenta spesso come “il Signore che vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”, e se a questa e ad altre affermazioni non corrisponde alcuna realtà concreta, alcun avvenimento in qualche modo accertabile, è difficile vedere su cosa appoggi la fede d’Israele.
Dal punto di vista della “storicità” dobbiamo ammettere che i racconti biblici non ci rivelano molto sul mondo che descrivono (il “mondo del testo”) ma piuttosto sul “mondo degli autori”. In altre parole, il primo livello di “storia” che possiamo raggiungere quando leggiamo la Bibbia è quello di chi ha scritto. I racconti testimoniano quindi preoccupazioni, interessi, dibattiti e una visione del mondo dell’epoca dei loro autori. La Bibbia è stata scritta molto tempo fa, in un altro mondo, in un’altra cultura e per rispondere alle domande di questo mondo antico. Anche i modi di scrivere e raccontare sono diversi dai nostri e anche il modo stesso di concepire la “storia” e il modo di scriverla sono diversi. Si pensi al fatto che nella Bibbia in genere non troviamo una sola opinione, nitida, semplice, unilaterale e incontestabile, ma diverse opinioni che si completano in certi casi, ma che si possono anche contraddire in altri (per es. si vedano i due racconti della creazione Gn 1,1-2,3 e 2,4-25). Solo dopo aver preso queste distanze e aver messo ogni cosa nel suo contesto appropriato, si può iniziare a capire quello che ci vuol trasmettere la Bibbia.
“Nella Bibbia che cosa troviamo? Resoconti esatti dei fatti? Cronache di testimoni oculari? Opere di storici? O opere d’arte? Forse troviamo un po’di tutto, mescolato. Però, in genere, abbiamo piuttosto opere d’arte. Queste opere non sono sofisticate e raffinate, appartengono piuttosto all’arte popolare. Il loro scopo comunque è quello dell’opera d’arte: trasmettere un messaggio su quello che è accaduto. Non cercano tanto di fornire particolari storici, vogliono piuttosto formare la coscienza di un popolo che cerca di capire qual è il suo destino in questo mondo” (J. L. Ska).
            Si tratta in altre parole di una interpretazione teologica di certi fatti storici, di uno sguardo particolare di chi ha confidato o sperato nell’azione di Dio nella storia del suo popolo. Sono libri soprattutto di fede. Di una fede che non può essere confermata né smentita dalla ricerca storica.
            Non può essere confermata sia perché la storia e l’archeologia hanno mostrato che molti eventi della storia biblica non si sono verificati in quel periodo specifico o nel modo descritto dalla Bibbia e altri sono stati inventati, sia ancor più perché quello che la storia può offrire è, eventualmente, solo la conferma di una “cornice” di un tale avvenimento (periodo, personaggi storici, luoghi, etc.), ma non potrà mai appurare se veramente lì un Dio fosse all’opera.
            Allo stesso modo, non può essere smentita perché, anche se la storia e l’archeologia hanno confutato certi racconti o ridimensionato e resi incerti altri, o ha messo in risalto i condizionamenti sociali e politici come fondativi di certi avvenimenti e scelte, tuttavia la Bibbia, non essendo dettata direttamente da Dio, è normale che riporti i condizionamenti e gli errori degli uomini. La storia poi si può muovere solo al livello della “cornice” degli avvenimenti, ma non potrà mai dimostrare che Dio non fosse all’opera in quella persona o in quell’avvenimento.
            In conclusione, che la Bibbia ebraica (Antico Testamento cristiano) sia nient’altro che un prodotto dell’immaginazione umana nata in risposta alle pressioni, alle difficoltà, alle sfide e alle speranze di un esiguo popolo per poter sopravvivere, oppure sia invece il racconto umano di una storia in cui anche Dio era realmente anche se misteriosamente intervenuto e presente, non è possibile stabilirlo oggettivamente. Quanto all’assegnare maggior credibilità ad una alternativa piuttosto che all’altra, questa rimane una decisione a carattere personale.

BIBLIOGRAFIA

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