Dalle considerazioni sull’esistenza di Dio, passiamo ora
all’analisi del fenomeno religioso, ossia allo studio della “religione”. Tale
studio è importante, perché l’idea di Dio nella storia e nella nostra vita non
la incontriamo a se stante ma all’interno di una religione istituita.
Ora ci chiediamo: da dove nasce la “religione”? Qual è la
sua origine?
Occorre però precisare che la “religione” in quanto tale non esiste, esistono
soltanto le concrete religioni storiche.
Tuttavia bisogna pur dare una sommaria definizione di partenza di quel che
intendiamo per “religione” pur sapendo che non ci sono definizioni
universalmente valide.
Una buona definizione è quella del filosofo A. Aguti (2013) per il quale “la
religione è l’insieme delle esperienze, credenze, atti rituali e comportamenti
morali, tanto individuali che collettivi, che si riferiscono e sono indirizzati
a una o a più divinità, cioè a una o più realtà personali dotate di un potere
che sovrasta l’uomo, che quest’ultimo adora e verso le quali nutre una
devozione totale in vista della propria salvezza”.
Noi tratteremo prima le questioni dell’origine della religione e le sue possibili spiegazioni, considerando i più classici approcci degli studiosi a
tali questioni, con lo scopo di rispondere, se è possibile, alla domanda se il
senso religioso e del sacro sia riferibile alla struttura originaria
dell’esperienza umana o sia invece il prodotto culturale di scelte umane rese
necessarie, o comunque suggerite, in una società resa via via più evoluta e
complessa.
Poi illustreremo le singole
religioni da quelle più antiche a quelle moderne, soffermandoci su quelle
che rivendicano una rivelazione
soprannaturale storica per giustificarne la verità o provenienza divina, e tra queste
ci soffermeremo sui tre monoteismi, con specifico interesse per quello
ebraico-cristiano. Noi siamo interessati al problema
della verità della religione o delle religioni, non tanto a questioni
sociologiche o culturali. Detto ancor più esplicitamente, ci preme sapere se le
religioni possono giustificare una origine divina
soprannaturale o se devono o possono essere considerate solo un prodotto
storico-culturale dell’uomo. Quindi,
per i nostri scopi, possiamo anche considerare semplicemente la religione rivelata come la credenza in
una divinità che si ritiene si sia fatta conoscere all’uomo rivelandogli la sua
origine e il suo destino soprannaturale, e la via per ottenerlo.
Lo studio delle religioni rivelate potrebbe anche farci
conoscere, se venisse accertata la verità di qualche tradizione religiosa, la
vera essenza, identità, o il vero “volto” di Dio, considerato che ad una analisi
filosofico-scientifica del mondo e dell’uomo questi aspetti fondamentali del
divino rimanevano ambigui e problematici. Infatti, si è già detto che, anche
ammesso si potesse raggiungere il Dio dei filosofi e degli scienziati, questo
potrebbe essere la Causa prima, il Creatore o l’ordinatore del mondo, la Mente
o l’Essere: ma come sapere se questo “Dio” è personale o impersonale, se è
interessato a noi, se può e vuole renderci felici, se ci ama, insomma se è
significativo in sé e per la nostra vita o non piuttosto indifferente? La
compresenza del bello e del brutto, del bene e del male, della gioia e del
dolore nella storia e nella vita dell’uomo gettano una luce oscura su quello
che potrebbe essere l’essenza di Dio – benevolo, malevolo o indifferente –
e quindi una eventuale autentica
rivelazione divina potrebbe rassicurarci in merito.
Ma insieme con l’essenza di Dio, se l’uomo derivasse da Dio,
una vera rivelazione divina ci farebbe anche conoscere l’essenza dell’uomo, chi è l’uomo, e con questo ci farebbe
conoscere non solo da dove viene, ma anche dove va, o dove potrebbe arrivare
(il suo destino) se seguisse la via indicata dalla rivelazione stessa.
Alla presentazione di ogni religione seguirà infine una
considerazione sulla credibilità
teologica o meno di tale religione,
in altri termini sulla sua giustificabilità
o ingiustificabilità razionale/esperienziale.
Naturalmente alla religione cristiana dedicheremo un approfondimento molto più
esteso che alle altre.
Dati
sulle origini
Cominciamo dalla questione inerente
l’“origine” della religione: la religione è connaturata con l’uomo o è solo un
suo successivo prodotto culturale? La comparsa dell’uomo è anche la comparsa
della religione? Come si spiega e come
si configura la religione delle origini?
Individuiamo per sommi capi i
percorsi che hanno portato alla comparsa dell’uomo sulla terra.
E’
l’Africa la terra dove si svilupparono i più antichi ominidi, gli
Australopiteci, circa 4-5 milioni di anni fa, dando origine alla linea
evolutiva che avrebbe alla fine portato all’uomo. Questi erano già bipedi.
A
partire da 2,5-2 milioni di anni fa troviamo quello che fu denominato homo habilis caratterizzato da un certo
sviluppo della capacità cranica e dalla
presenza di alcune forme di abilità manuale.
Vengono
classificati come homo erectus i
fossili “umani” che si ritrovano fino a 200.000-100.000 anni fa: il cranio è
più cerebrizzato ed è capace di lavorazioni più progredite (conosce la lingua
articolata, controlla il fuoco, usa utensili, raccoglie e caccia).
Da
questa data in avanti si ha l’homo
sapiens, che si suddivide in homo
sapiens neanderthalensis (sottospecie europea, scomparsa circa 35000 anni
fa) e homo sapiens sapiens, che
risale a circa 100.000 anni fa ed è l’origine dell’uomo attuale. Le più antiche
testimonianze della cultura umana sono i reperti di utensili, le tombe e le
rappresentazioni artistiche (ad es. le pitture nelle caverne) dell’età della
pietra (fino all’8.000 a.C.). Siccome i primi documenti scritti hanno al
massimo 6.000 anni, l’interpretazione dei reperti antichi non può essere
suffragata da testi esplicativi dell’epoca, ma si basa soprattutto su ipotesi.
Si può dire che a cultura della forma sapiens è certamente evoluta, sia nelle lavorazioni su pietra e su
osso, sia nelle raffigurazioni dell’arte parietale e mobiliare, sia nelle
pratiche funerarie, di cui le più antiche inumazioni sono state riconosciute in
Palestina risalenti a 90.000 anni fa.
Uno dei problemi aperti in tema di
evoluzione umana è la identificazione della “soglia” umana, ossia quando si è
passati dall’“animale” all’uomo, ed è un problema arduo. Quando nell’ominide si
manifesta la capacità di progetto e di simbolismo è segno che la scintilla
dell’intelligenza si è accesa in lui. Ma quando ciò è avvenuto? Dobbiamo
riconoscere che le origini dell’uomo e della cultura sono avvolte nell’oscurità
più profonda (F. Facchini).
Certamente
non possono esservi dubbi sul livello umano degli esseri che nel Paleolitico
superiore ci hanno lasciato raffigurazioni nelle grotte o di quelli che 90.000
anni fa incominciarono a seppellire i morti. Ma si può anche retrodatare la
soglia dell’umano? A quando? E con l’avvento dell’umano abbiamo anche l’avvento del senso religioso
nell’uomo?
Alcuni studiosi (ad es. J. Ries e F.
Facchini) riconoscono una capacità simbolica dell'uomo - incluso il
simbolismo spirituale - nelle manifestazioni della cultura, anche in quelle di
ordine strumentale. Anche la primitiva tecnologia, quando esprime creatività e
intenzionalità, rivelerebbe autocoscienza. E nel momento in cui ha avuto
coscienza di sé, l'uomo non può non aver percepito la sua differenza rispetto
agli altri esseri che aveva attorno, non può non essersi posto “domande” su di
sé e sulla realtà esterna. Espressioni di cultura nella storia evolutiva
dell’uomo si trovano non solo nelle fasi recenti con l’homo sapiens che seppellisce i morti e affresca le pareti delle
grotte, ma anche con l’homo erectus o l’homo abilis. L'uomo si
rivela dunque sapiens già in quello
stadio in cui viene definito faber per
la sua tecnologia. In realtà è faber
perché sapiens, fin dalle origini,
perché fa emergere la coscienza riflessa e la capacità simbolica, che ispirano
anche il senso religioso e del sacro. Già certi rituali funerari delle epoche
precedenti a 100.000 anni fa lasciano intendere che l'uomo non è rimasto
indifferente di fronte alla morte e ha sviluppato le sue capacità dì
simbolizzazione attraverso gesti e operazioni che non si collegano a necessità
immediate della specie. A questi studiosi sembra che, se anche non possiamo
stabilire a quali convinzioni religiose fosse legata la fede nell'aldilà, in
molti casi si osservano comportamenti a carattere rituale (offerte,
posizionamento) che hanno attinenza con il sacro e rimandano certamente ad una
sfera soprannaturale.
Altri studiosi sono più prudenti nelle loro interpretazioni,
considerando che non esistono evidenze archeologiche per le quali si possa
ipotizzare un significato religioso più antiche di ottantamila anni (anche se
questo non lo esclude, perché l’enorme durata del sepellimento potrebbe aver
cancellato ogni traccia di comportamento rituale) e che, se è vero che non
conosciamo alcuna civiltà priva di qualsiasi forma di religione, non abbiamo il
diritto di estendere il valore di questa
osservazione su epoche sconosciute del passato, affermando, per es., che la
religione è connaturata all’uomo come tale. Questi studiosi (ad es. F. Fedele e
P. Scarpi) dichiarano che non è possibile ripercorrere l’itinerario
intellettuale e culturale che ha condotto l’uomo a separarsi dalla natura,
elaborando tecnologie e forme di pensiero, nel corso dei lunghi e numerosi
millenni del paleolitico (2.500.000 –
10.000 anni fa), in cui era stato un raccoglitore di cibo e un cacciatore.
Nemmeno è possibile ricostruirne i comportamenti religiosi, al di là di un
superficiale riconoscimento di pratiche funerarie o di elementi che possono far
pensare ad azioni rituali. “Non ogni comportamento rituale è religioso, e non
ogni atto strano e “non utilitario” è rituale” (F. Fedele). La presenza di ocra
rossa nelle sepolture va considerata simbolo del sangue, della vita e della
morte, o traccia dei vestiti in pelle tinti di rosso? I cumuli di ciottoli
sferoidali, selci lavorate, fossili, minerali e denti di mammiferi, vanno
interpretati come depositi votivi o come accumuli di materie prime e merci di
scambio? Meno ambigue sono le sepolture, soprattutto se accompagnate da
offerte, che denotano uno specifico atteggiamento verso la morte. Le sepolture
dovute a uomini neanderthaliani (70.000- 35.000 anni fa) costituiscono una
testimonianza incontestabile del rispetto tributato ai defunti, dimostrando
l’esistenza di preoccupazioni spirituali, ma le eventuali concezioni religiose,
così come i riti connessi con le inumazioni, sfuggono per ora all’indagine.
L’apparire del disegno, coi suoi segni stereotipi, può al più permettere di pensare
ad un linguaggio simbolico. Qualcosa di più sappiamo del neolitico (6000 – 4000 anni fa) - per la presenza di manufatti più
complessi, la domesticazione degli animali, lo sviluppo dell’agricoltura, il
passaggio dal nomadismo a vita sedentaria e quindi lo sviluppo di comunità
proto-urbane - ma non è ancora possibile ricostruire la vita intellettuale e
spirituale degli uomini di quest’epoca perché l’uso della scrittura non si
afferma che a partire per lo meno dal IV millennio a.C.. Sappiamo che il maggior
sviluppo umano e culturale si ha soprattutto nel Vicino Oriente (per l’habitat
naturale favorevole). Quale fosse la cultura di queste popolazioni e quali
forme di culto praticassero resta tuttavia un mistero. Nel neolitico il
fenomeno religioso più macroscopico è la pratica funeraria. I vari reperti
trovati – persone sepolte in posizione flessa e trattate con ocra rossa –
invitano senza dubbio a intravedere una forma di culto, ma non si è in grado di
precisare se ciò comportasse un culto degli antenati, per quanto questo sia
plausibile.
I dati che abbiamo aprono dunque a diversi approcci al problema dell’origine e della spiegazione
del fenomeno religioso.
Approccio
evoluzionistico
Il più classico è rappresentato dalla “scuola evoluzionistica”. Questa partiva dal presupposto che nella
fase primordiale dell'umanità non vi fosse alcuna forma di religiosità e che
l’idea religiosa comparisse in uno stadio successivo, col procedere
dell’evoluzione storica. Le varie fasi suggerite da Lubbock (1834-1913) erano
le seguenti: ateismo, feticismo (o teriomorfismo), culto della natura (o
totemismo), shamanismo, idolatria (o antropomorfismo). L'idea di Dio
apparirebbe solo in una fase successiva. A una concezione evoluzionistica si
ispirò anche E. Burnett Tylor (1832-1917), il quale propose uno sviluppo del
senso religioso a partire dall'animismo, passando per il feticismo,
l'idolatria, il politeismo e sfociando infine nel monoteismo. Condividono
l’approccio evolutivo studiosi come Morgan (1818-1881) e, più recentemente, Sir
James Frazer (1854-1941). Con uno schema che ricorda il positivismo di A.
Comte, si partirebbe dalla magia come prima manifestazione dello spirito umano,
per giungere poi alla religione ed infine alla scienza.
Nell’ipotesi di Tylor l’anima
è concepita come la causa stessa della vita; essa inoltre è considerata come
una sorte di “doppio” dell’individuo in
cui alberga. Un “doppio” dotato anche di un proprio grado di autonomia, in
quanto può staccarsi temporaneamente dal corpo dell’individuo cui è legato per
insinuarsi nella dimensione dei sogni, in cui si manifesta come essenza a sè
stante. L’anima inoltre sopravvive alla morte fisica del soggetto umano: questa
forma di credenza trae origine dal fatto che i fantasmi dei morti continuano ad
essere visti nei sogni. A partire da questo presupposto si compie un passo
ulteriore che porta alla credenza negli spiriti: ciò accade, in concreto,
allorché le anime di determinati antenati sono concepite come entità sovrumane,
elevate al rango di spiriti personali. Infine, tra i tanti spiriti che
sarebbero sorti (anche quelli della natura) ad un certo punto della storia
primitiva ne sarebbe emerso uno cui si sarebbe attribuito il titolo di Essere
supremo. Le critiche
all’evoluzionismo di Tylor sottolineano che la sua ricostruzione si fonda su
ipotesi astratte più che su ricostruzioni storicamente attendibili. Inoltre è
problematico l’utilizzo della nozione di “anima” maturata attraverso la nostra
cultura occidentale moderna come un universale umano, posseduto in principio
come forma rozza e ingenua (dai primitivi) e da ultimo nei modi più colti e
consapevoli che si sono via via elaborati nell’occidente moderno.
Secondo Frazer
all’inizio dell’umanità non è presente la religione bensì la magia, e la
religione farebbe la sua comparsa in una stadio più progredito dell’umanità.
Frazer considera la magia una falsa scienza, un tentativo per agire sulle
realtà naturale per scongiurare un male o rendere meno dura la vita. La
prerogativa essenziale del re-mago è quella di esercitare, a vantaggio della
collettività umana, potere sulla pioggia, sul sole, sul vento. Per religione
invece Frazer intende “il propiziarsi e il conciliarsi le potenze superiori
all’uomo, supposte dirigere e controllare il corso della natura e della vita
umana. Così definita la religione consiste di due elementi, uno teoretico e uno
pratico, e cioè una credenza in potenze superiori all’uomo e un tentativo di
propiziarsele o di piacere loro”. La magia sarebbe la coercizione diretta delle
forze naturali da parte dell’uomo, mentre la religione sarebbe l’atto di
propiziazione delle divinità da parte del credente. Frazer è convinto che tanto
la magia quanto la religione rispondano in modi inadeguati ai medesimi
interrogativi della scienza, ma che solo con l’avvento di questa, in seguito
allo sviluppo del pensiero umano che nel tempo è avanzato, si sarebbe giunti
alla spiegazione reale dei fenomeni naturali.
Malinowski ha criticato Frazer specificando la differenza
tra magia e religione: la magia gira attorno a problemi concreti, specifici,
mentre la religione guarda alle questioni fondamentali dell’esistenza, è più
una visione del mondo; inoltre ha cercato di far vedere che magia, scienza e
religione non sono separabili, ma operano anche contemporaneamente.
Approccio
sociologico
Nell'approccio “sociologico”
di Emile Durkheim (1858-1917) la religione è una proiezione della società,
un’emanazione della coscienza collettiva. È la società stessa che creerebbe il
sacro, distinguendolo dal profano e indicandolo istituzionalmente nel Totem. L’approccio è condiviso da Marcel
Mauss (1873-1950), Henri Hubert (1872-1927) e, in parte, da Lucien Lévy-Bruh1
(1875-1939).
In particolare,
in Durkheim si ha una certa
rivalutazione delle religioni primitive: queste non sono false, ma sono vere
nella loro maniera: rispondono in modi differenti a determinate condizioni
umane. Inoltre esse rappresentano le basi della struttura scientifica e
razionale futura: è infatti nelle rappresentazioni collettive di carattere
religioso che nascono le categorie mentali di spazio, tempo, di genere, di
numero, ecc.. Per lui tra magia e religione non c’è una netta linea di
demarcazione; unica differenza è che la religione è un fatto sociale mentre la
magia è più privato. E’ a partire dalla coscienza collettiva che nascono le
idee. Per lui, tutte le credenze religiose presuppongono una classificazione
delle cose, reali o ideali, in due generi contrapposti: il sacro e il profano.
E’ osservando il comportamento sociale che Durkeim definisce il comportamento
religioso. Causa obiettiva ed universale delle esperienze religiose è la
società. La sua genesi sarebbe così spiegata: secondo lui la religione più
primitiva è il totemismo, religione del clan nell’ambito del quale il totem
rappresenta il sacro per eccellenza. Si tratta di una religione fondata su una
forza anonima e impersonale presente in ogni membro del clan senza però
confondersi con lui: è il mana. “Tale
è la materia prima con la quale sono costruiti gli esseri di ogni tipo che le
relioni di ogni tempo hanno sacralizzato e adorato. Gli spiriti, i demoni, gli
dei di ogni grado non sono che le forme concrete assunte da questa energia”. E’
qui che bisogna cercare anche l’origine degli dei del cielo, del culto dei
morti, dei riti e della loro efficacia. Poiché il totem esprime e simbolizza il
mana, poiché il dio totem è anche il dio del clan, dobbiamo vedere nel totem
l’ipostasi del clan, concludendone che all’origine del sacro c’è il clan. Per
il nostro studioso la società è in grado di suscitare la senzazione del divino;
essa è infatti per i suoi membri ciò che, parallelamente, è un dio per i
fedeli.
A Durkheim si può obiettare
che non tutti gli etnologi condividono il fatto che il totemismo sia una
categoria religiosa: ora se questo fosse vero, cadrebbe il presupposto più
importante su cui si basa la sua teoria. Poi si può osservare che la società
ideale presuppone la religione piuttosto che spiegarla. Forse che la società è
in grado di offrire realizzati valori come giustizia, amore, felicità così come
essi sono realizzati in Dio per il credente? Il mito che la società crea di se
stessa si rivela un mito troppo fragile
per resistere a lungo e per soddisfare
le esigenze profonde dell’uomo.
Il metodo di Levy-Bruhl
si richiama a un radicale relativismo culturale: nega che ci sia una forma
logica unitaria tra pensiero primitivo e quello occidentale moderno: diverso è
il rapporto soggetto umano/mondo, naturale/soprannaturale, ecc. Il mondo
primitivo non si sarebbe basato sul principio di “non contraddizione” quanto su
quello di “partecipazione”: il mondo sensibile e l’altro mondo formerebbero una
cosa sola, gli esseri invisibili sarebbero stati presenti tanto quanto gli
invisibili. Siamo in presenza di una religiosità di tipo mistico, con una
proiezione dell’uomo verso l’alterità non umana. Oggi tale posizione è ritenuta
infondata e si preferisce piuttosto parlare di due “mentalità” che
conviverebbero nell’uomo, a qualunque età o popolo appartenga, e per così dire
si bilancerebbero variamente.
Funzionalismo
Il “funzionalismo”
di Bronislaw Malinowski (1884-1942) cerca il significato della religione
nell'ambito della sua “funzione” all’interno di una determinata civiltà, in
relazione cioè ai bisogni fondamentali di quel gruppo sociale. Esisterebbe
allora, con R. Thurnwald (1866-1954), una certa correlazione tra le espressioni
della religione e le diverse forme economico-sociali. Dalla credenza generale
nella sacralità degli animali (teriomorfismo) durante il periodo dei popoli
predatori, si passerebbe al totemismo delle culture dei cacciatori, alla personificazione
animistica della divinità nelle culture agricole; la credenza in dèi supremi
sarebbe invece specifica dei popoli dediti all’allevamento.
In particolare,
Malinowski contrappone alla successione temporale di magia, religione, mito, la
loro contemporaneità, perché secondo lui una certa concezione scientifica è da
estendere anche all’uomo primitivo. Il nostro autore assegna a magia, religione
e scienza un ambito a ciascuna peculiare, in riferimento alla specificità della
funzione che a ciascuna compete. La cultura nasce per soddisfare i bisogni
umani: infatti lo specifico dell’uomo consiste nella sua peculiare prerogativa
di soddisfare in modo culturale i bisogni fondamentali. Così la magia entra in
funzione quando ci si scontra coi limiti della scienza (cioè nel dominio del
caso, dell’imprevisto, inesplicabile), tanto nelle società primitive che in
quelle progredite. In tal senso Malinowski riconduce la religione al bisogno
umano di fronteggiare le numerose situazioni di crisi sparse lungo l’arco dell’esistenza
umana, individuale e collettiva. “Ogni crisi importante della vita umana
comporta un forte sconvolgimento emotivo, un conflitto mentale e una possibile
disintegrazione. […] La credenza religiosa consiste nella standardizzazione
tradizionale dell’aspetto positivo del conflitto interiore” soddisfacendo sia
un bisogno individuale sia, gestendo pubblicamente queste crisi (con
standardizzazioni e sanzioni soprannaturali), rafforzando i vincoli di coesione
tra gli uomini. Tra le crisi, la più inquietante è quella connessa con la
morte, con il suo potenziale potere di distruzione: la religione aiuta a
gestire questa crisi (con ripercussioni individuali e sociali) elaborando
teorie come quella dell’immortalità.
Metodo
etnologico
Il metodo “etnologico” di Andrew Lang (1844-1912), contro l'animismo di Tylor e la mitologia
naturistica di Max Müller (che vedeva l'origine della religione nei fenomeni
della natura), pose la credenza in un Dio superiore agli inizi della religione,
analogamente con quanto egli osservava presso popoli molto primitivi, come gli
Australiani e gli Andamanesi. L’idea fu ripresa da Wilhelm Schmidt (1868-1954) che sostenne, sulla base di tradizioni
orali raccolte presso gruppi primitivi dell'America, dell'Africa e
dell'Australia, che la prima forma di religione fosse il monoteismo, cioè la
credenza nell'Essere supremo, da ricollegarsi a una rivelazione primitiva.
Questa teoria è stata però criticata dallo storico delle religioni italiano Raffaele Pettazzoni (1877-1955), che ha
studiato la comparsa e lo sviluppo della religione con un metodo “storico”,
comparando i dati offerti dalle religioni classiche dei Greci, dei Romani, dei
Germani, degli Slavi, e che si è occupato in particolare del monoteismo, a
partire dal mondo dei popoli primitivi. Secondo Pettazzoni l'idea che la
credenza in un Essere supremo (generalmente uranico) si sia formata in un dato
punto presso una famiglia umana e si sia poi diffusa sulla terra, come
sostenuto da Schmidt, non sarebbe verosimile. I popoli primitivi attuali che
possiedono questa credenza appartengono a una grande varietà di aree culturali
e rappresentano formazioni distinte maturatesi attraverso processi di durata
considerevole. Diversamente dall’idea di un monoteismo primitivo, l’immagine di
un Essere celeste superiore non avrebbe subito un lento degrado storico, ma
avrebbe immediatamente assunto colorazioni religiose diverse, a seconda dei
vari ambienti culturali in cui sorse. Per Pettazzoni il monoteismo non è
pensabile senza il politeismo che lo preceda, e può essere inteso in un certo
senso solo come critica ad esso.
Approccio
fenomenologico
Altri studiosi hanno
criticato gli approcci evoluzionistico, sociologico e funzionalistico – che
tutti fanno derivare la religione da qualcosa di esterno ad essa – per
rivendicare l’autonomia dell’aspetto religioso dell’uomo. L’approccio “fenomenologico” al problema delle
origini delle religioni è quello operato da Nathan
Söderblom (1866-1931), Rudolf Otto (1869-1937)
e Gerardus van der Leeuw (1890-1950).
Per questi autori la parola chiave della religione sarebbe il «sacro», ancor
più del concetto di «Dio». Una religione può realmente esistere senza una
concezione precisa della divinità, ma non esiste alcuna religione senza la
distinzione tra sacro e profano. Viene così superata la distinzione fra stadio
magico e stadio religioso. Per Otto
l'idea del sacro affonda le sue radici nelle profondità dell'animo umano, in
una sorta di “rivelazione interiore” che porta ad apprezzare il valore del
numinoso, del mistero tremendum et
fascinans, che si manifesta in fatti e avvenimenti. Secondo Otto l’uomo religioso scopre un elemento “dalla qualità
assolutamente speciale che si sottrae a tutto ciò che abbiamo chiamato
razionale, è completamente inaccessibile alla comprensione concettuale e, in
quanto tale, costituisce qualcosa di ineffabile”. Questo elemento è il sacro,
che appare “come un principio vivente in tutte le religioni. Né costituisce la
parte più intima e, in sua assenza, esse non sarebbero più forme della religione”.
Questo elemento primordiale viene chiamato da Otto “numinoso”. Otto descrive la
strada per cui l’uomo scopre e coglie il numinoso. Si presentano quattro tappe.
La prima è quella del
sentimento dello stato di creatura e si tratta della reazione provocata nella
coscienza dall’oggetto numinoso. Questa esperienza fa nascere nell’uomo un vivo
e profondo sentimento di dipendenza.
La seconda tappa della conquista del luminoso è la tappa del
tremendum, del terrore mistico.
Nell’inacessibilità assoluta del numinoso si trovano la potenza, il misticismo
della maestà. E’ questa emozione che fa nascere anche la tensione e l’energia
dell’ascesi, gli atti di una vita eroica.
La terza è quella del
misterium: l’oggetto numinoso si
presenta come il trascendente, il totalmente altro.
La quarta tappa è
quella del valore soggettivo, beatifico per l’uomo: è il fascinans che seduce, rapisce, da cui né discendono l’amore, la
compassione, la benignità. E’ sul piano di questa tappa che Otto colloca ciò
che le religioni chiamano la salvezza: le esperienze di grazia, il nirvana dei
buddisti, l’estasi nell’induismo delle Upanishad e la visione beatifica
nella religione cristiana.
Secondo Otto la categoria “sacro” è un fattore primario che
si trova all’origine di una rivelazione interiore, ma in maniera indipendente
da ogni riflessione mentale: è l’a priori
religioso. E’ in questa rivelazione interiore del divino che bisogna cercare
secondo lui l’origine della religione. Grazie a questa disposizione naturale
dello spirito a cogliere il numinoso, a
interpretarlo, a valutarlo, l’uomo diviene beneficiario di una rivelazione
interiore, ineffabile, mistica, che gli permette di accostarsi al “tutt’altro”.
Tale spiegazione si contrappone alle teorie evoluzionistiche e permette di
respingere tre tesi che hanno avuto il loro momento di gloria: la mitologia
naturista della scuola di M. Muller che
cercava l’origine della religione nei fenomeni della natura; l’animismo di
Spencer e di Tylor che collocava alle origini religiose dell’umanità il culto
degli spiriti ancestrali; e infine la dottrina del mana preconizzata dai sociali. All’origine della religione, gli
evoluzionisti collocavano una cosa o un avvenimento, a partire dai quali si
sarebbe sviluppata una prima forma di pensiero religioso. Per Otto, il punto di
partenza si trova nella ragion pura: il numinoso scaturisce dalla fonte
nascosta nelle profondità dell’anima umana. Al postulato durkheimiano della
coscienza collettiva, egli sostituisce il postulato di una rivelazione interiore, e cioè, in
altri termini, il sacro viene considerato come categoria a priori dello
spirito.
Otto spiega la differenza tra la religione “primitiva” e
quella “compiuta” in base al fatto che nella prima gli uomini esperivano solo
l’aspetto tremendum del sacro, mentre quella compiuta prevede la completezza
dei due aspetti paradossali, fascinum e tremendum; inoltre nella religione
compiuta si ha una maggiore elaborazione razionale e morale che è assente allo
stato “grezzo” della religione. Accanto alla rivelazione personale del sacro
all’uomo religioso, esiste una manifestazione del sacro nella storia. Questa
manifestazione storica, espressa per mezzo di segni, viene riconosciuta da
lettori del sacro che possiedono la facoltà della divinazione: si tratta, da
una parte, dei profeti, geni religiosi, fondatori delle grandi religioni e dei culti; dall’altra, del Figlio, Gesù
Cristo, che manifesta il regno di Dio: da cui deriverebbe la trascendenza
assoluta del cristianesimo.
Approccio
fenomenologico-ermeneutico
Uno sviluppo
dell’approccio di Otto, definito di tipo “fenomenologico-ermeneutico”, è quello di Mircea Eliade (1907-1986). Introducendo il concetto di «ierofania»,
cioè di «manifestazione del sacro» ed utilizzando gli studi comparativi di
Georges Dumézil su concetti, miti, riti e divinità del mondo indoeuropeo, egli
propone un metodo integrale: storico, fenomenologico ed ermeneutico. Storico,
perché ogni fenomeno religioso è prima di tutto un fenomeno storico in quanto
ogni esperienza religiosa avviene in un contesto storico-culturale ben
determinato. Fenomenologico, perché ogni fenomeno religioso dev’essere colto
nella sua modalità specifica - e non verrà compreso nella sua totalità che
superandone gli aspetti storici e socio-culturali - che è quello di esperienza
sui generis provocata dall’incontro dell’uomo con il sacro. Ermeneutico,
perché, a partire da documenti chiaramente definiti grazie alla ricerca storica
e correttamente interpretati dallo
studio fenomenologico, è importante procedere a un lavoro di comparazione,
perchiarire il messaggio contenuto in questi documenti e per farlo conoscere.
Ogni fenomeno religioso è una “ierofania”, cioè un atto di
manifestazione del sacro. L’atto di manifestazione del sacro è sempre un atto
misterioso: “la manifestazione di
qualcosa di totalmente altro, di una realtà che non appartiene al nostro mondo
‘naturale’ e ‘profano’”. Tuttavia, se il sacro si manifesta come una realtà che
dipende da un ordine diverso da quello naturale, il sacro non si presenta mai
in se stesso allo stato puro. “L’atto dialettico resta lo stesso: la
manifestazione del sacro attraverso qualcosa di diverso da esso; esso appare in
oggetti, miti o simboli, ma mai nella sua interezza e in maniera immediata e
nella sua totalità”. Così, accanto
all’omogeneità di natura, le ierofanie
presentano una eterogeneità di forme alquanto sconcertante: riti, miti,
forme divine, oggetti, simboli, uomini, animali, piante, luoghi. “L’homo religiosus crede sempre che esista
una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo, ma che vi si
manifesta e, in questo modo, lo santifica e lo rende reale”. Il sacro per
Eliade è un elemento di una “struttura della coscienza”, non un momento della
“storia della coscienza”. Questa realtà, comunque si manifesti o sia percepita
come oggetto, è il «Totalmente Altro», che trascende il mondo. La storia delle
religioni non è che un accumulo di ierofanie, di cui occorre cercare il
significato attraverso un approccio fenomenologico.
I limiti dell’impostazione
della fenomenologia della religione sono di seguito riassunti.
La maggior parte dei fenomenologi della religione ed Eliade
affermano di usare un approccio empirico, libero da ipotesi e giudizi a priori.
Un simile approccio empirico, descritto come “scientifico” e “obiettivo” parte
raccogliendo documenti religiosi e poi prosegue col decifrare i fenomeni
religiosi descrivendo proprio ciò che rivelano i dati empirici. Affermano che
le loro scoperte delle tipologie esenziali e delle strutture universali sono
basate su generalizzazioni empiriche e induttive. Ma uno degli attacchi più
frequenti rivolti alla fenomenologia della religione è che essa non sia fondata
empiricamente e perciò che sia arbitraria, soggettiva e non scientifica. I
critici affermano che le strutture e i significati universali non si trovano
nei dati empirici e che le scoperte della fenomenologia non possono essere
assoggettate alle prove empiriche di verifica.
I fenomenologi hanno criticato ogni riduzione dei dati
religiosi operata per inserirli in prospettive non religiose, come quelle della
sociologia, della psicologia o dell’economia. Tali riduzionismi - sostengono -
distruggono la specificità, la complessità e l’irriducibile intenzionalità dei
fenomeni religiosi. Il fenomenologo deve rispettare l’“originale”
intenzionalità religiosa esperessa dai dati. Ma molti critici hanno attaccato
l’antiriduzionismo della fenomenologia della religione, sostenendo che esso sia
metodologicamente confuso e ingiustificato, e che nasca dall’intento teologico
di difendere la religione dall’analisi profana. La critica più radicale contro
questo antiriduzionismo si fonda sul fatto che tutti gli approcci metodologici
sono prospettici, limitanti e necessariamente riduzionistici. L’ipotesi
dell’irriducibilità del religioso è essa stessa riduzionista, dato che delimita
quali fenomeni saranno esaminati, quali aspetti dei fenomeni saranno descritti
e quali significati saranno spiegati. I fenomenologi non possono sostenere che
altri approcci riduzionisti siano necessariamente falsi e che solo il loro
approccio renda giustizia a tuttte le dimensioni e componenti delle attività e
manifestazioni relative al mondo della religione.
È inoltre oggetto di discussione se la descrizione
dell’esperienza del sacro proposta da Eliade superi i limiti delle proposta di
Otto e rappresenti quindi un efficace modo per definire e descrivere la
religione. Sociologi ed antropologi mettono in genere in dubbio la sua
verificabilità nella realtà e non condividono l’interpretazione che Eliade
fornisce dei dati. Per loro il sacro è una costruzione ideale: non si tratta di
una autentica realtà empirica. Linguisti, psicologi e filosofi obiettano,
inoltre, che il sacro non è identificabile negli schemi rispettivamente del
linguaggio, dell’esperienza e del pensiero.
Per tutti costoro infine, l’esperienza religiosa costituisce un insieme di
realtà e di esperienze culturali e non è affatto qualcosa di separabile e di
isolabile in sé e per sé. Come dice N.
Smart: “Il senso del numinoso è un fatto, ma l’oggetto che si suppone
riveli non è necessariamente un fatto”. Anche per l’antropologo francese C. Riviére (1998) “è la credenza che
costruisce il sacro e che ne afferma il carattere di rivelazione. Una ierofania
non è una manifestazione del sacro in sé, ma la credenza nel fatto che un
essere (persona o oggetto) rinvii simbolicamente a un significato altro avente
una propria consistenza ontologica. In breve, a partire da una realtà esterna
si elabora fantasmaticamente un’esperienza interna, che si crede sia prodotta
dall’azione esterna di un’entità a cui l’uomo stesso dà il valore di entità
sacra. E’ ancora l’uomo che decide che una potenza superiore è penetrata in
un’essere, in un animale, o in un oggetto, il quale funziona come anello di
congiunzione tra il profano e il sacro. Il fatto che il sacro sia
strutturalmente incorporato nella coscienza dell’homo religiosus non permette di inferirne l’esistenza al di fuori
di questa coscienza”. In conclusione “i limiti di quest’impostazione
(fenomenologica) si riassumono in un soggettivismo incontrollato in conseguenza
del quale il fenomenologo, affidato alla sua capacità divinatrice e artistica,
basa la sua indagine su un intuito che sfugge a qualsiasi controllo
metodico”(G. Filoramo). E l’intuizione non è affatto libera dalla
responsabilità di accertare quale interpretazione di un dato fenomeno sia la
più adeguata, né dal provare perché lo sia.
La
scienza cognitiva della religione
Questo ultimo indirizzo contemporaneo è fortemente critico
nei confronti di una realtà trascendente della religione. Esso prevede
l’utilizzo della teoria dell’evoluzione darwinista combinato coi risultati
delle scienze cognitive. In base a questo modello, si tenta di spiegare il
fenomeno religioso riconducendolo ad un meccanismo cognitivo di base che serve
alla sopravvivenza dell’uomo sia come individuo sia come specie. Il nocciolo
dell’argomentazione tende a dimostrare quella che l’antropologo e psicologo
cognitivista P.Boyer , uno dei
maggiori rappresentanti di questo nuovo indirizzo, ha chiamato la struttura
“parassitaria” della religione, considerata essenzialmente come una
credenza in un certo stato di cose
soprannaturali che si alimenta di un preciso meccanismo cognitivo avente una
funzione ai fini della sopravvivenza dell’uomo (Id., E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione, 2011).
L’argomento della dipendenza della religione dai processi cognitivi presuppone
che il processo evolutivo abbia prodotto il sorgere della coscienza umana e
poi, a partire da funzioni cognitive proprie di quest’ultima, finalizzate alla
sopravvivenza, ne siano sorte altre che si rapportano alle prime in modo più o
meno parassitario. Come ha affermato il filosofo della mente D. Dennet, nel caso della religione è
indifferente che questa funzione derivata coaudiuvi le funzioni cognitive
basilari ordinate alla sopravvivenza oppure sia collaterale a esse o
addirittura le ostacoli (Id., Rompere
l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, 2007). In ogni caso il
fenomeno religioso, per questo nuovo indirizzo, è un fenomeno derivato, che non
possiede una realtà se non quella nella mente degli uomini. Anche autori
italiani – per es. V. Girotto, T. Pievani e G. Vallortigara, nel loro libro Nati
per credere, 2008 - sono convinti
che la mente umana nell’evoluzione, in virtù della selezione naturale, si sia
strutturata in modo da interpretare i processi fisici e biologici in termini di
causalità, di obiettivi e di intenzioni. Per poter controllare il proprio
comportamento e renderlo adeguato alle mutevoli circostanze della vita, molti
animali e certamente gli umani hanno bisogno di rendersi conto delle
conseguenze delle azioni e delle scelte da fare per ottenere un determinato
risultato. Questa struttura sembra sia già presente fin dalla nascita, in ogni
caso sia acquisita fin dai primi mesi della vita. Questa impostazione porta a
pensare che tutto esiste per una ragione e che ogni cosa ha una sua funzione
oltre che una sua causa. Se tutto esiste per una funzione e tutto ha una causa,
viene spontaneo cercare il progettista del mondo. Però in natura ci sono
progetti, ma senza progettista, affermano gli autori, perché la loro
realizzazione passa attraverso tentativi e mutazioni occasionali.
La critica che si
può fare a questo indirizzo è che al massimo sbocca semplicemente
nell’ammissione dell’esistenza di una struttura mentale o cognitiva
sostanzialmente unitaria nell’uomo come individuo e negli uomini di tutte le
culture. Non possiamo certo derivare l’esistenza di Dio dal nostro bisogno,
fosse anche innato, di credere. Ma nemmeno il contrario: il fatto che abbiamo
delle rappresentazioni mentali “religiose” non vuol dire che la “religione” sia
nient’altro che quelle
rappresentazioni, che si esaurisca in esse. Che quello che ci rappresentiamo
mentalmente rimandi a qualcosa di “esterno” di reale oppure no, non si può dire
solo in base a queste rappresentazioni. Le neuroscienze non possono rispondere
alla domanda se Dio esista o se sia soltanto un “prodotto del cervello”, ma
soltanto rilevare quali regioni del cervello si attivano, con maggiore o minore
intensità, in corrispondenza a certe esperienze religiose: “La neurofisiologia
non può fare alcuna affermazione decisiva sui contenuti , il significato, la
qualità e la verità dell’esperienza religiosa” (U. Eibach).

Sintesi
e conclusioni
Riassumiamo così le conclusioni sull’“origine” e spiegazione
della “religione”.
La
religione risale all’origine dell’uomo? Esistono tre
risposte alternative fondamentali. La prima sostiene che si sia data una
comparsa contemporanea del sacro e del profano; per la seconda il sacro è il
risultato di una successiva evoluzione del profano; nella terza si ipotizza
un’iniziale pansacralità (da cui non si distingue il magico; il profano si
sviluppa progressivamente secondo una primordiale secolarizzazione). Il
dibattito resta aperto e non è possibile verificare alcuna teoria sulle origine
e sviluppo della religione. Anche se si potesse considerare il postulato della
nascita della religione con la nascita dell’uomo come quello più probabilmente
corretto, dice lo studioso C. Colpe,
non si può sapere se in origine la religione abbracciava per intero l’esistenza
o se, al contrario, esisteva una visione profana del mondo accanto a quella
religiosa.
Come si
configurava la religione delle origini? È ipotizzabile (estrapolando dai dati archeologici e
soprattutto dalle concezioni religiose delle popolazioni etniche attuali) che
l’ambito soprannaturale sia stato estremamente esteso, che tutto venisse
sacralizzato. I fenomeni naturali venivano interpretati quali manifestazione
immediata della divinità. A ciò si aggiungeva la tendenza alla concezione
antropomorfizzata delle realtà naturali. Piante, animali, e cose acquistavano
tratti umani. Li si venerava e li si temeva come fossero entità personali.
Quanto alla concezione che le religioni primitive dovevano avere della divinità
sembra probabile la credenza nell’esistenza di un essere supremo, insieme ad
altre divinità minori inquadrate nell’ambito dei suoi poteri, che è
onnisciente, vede tutto e giudica, generalmente (ma non necessariamente) è
creatore e signore dell’universo, padrone delle sorti dell’uomo e della storia
e tuttavia ritirato in cielo da cui non segue se non raramente le sorti
dell’uomo e del creato (non è sempre considerato trascendente, ma anche
identificato con il cielo).
Come si
spiega il sorgere e la natura del fenomeno religioso? Ci si trova davanti a due posizioni contrastanti: una, che vede la religione radicata in
una realtà altra, avente una realtà
ontologica variamente denominata: qualcosa (il sacro), o qualcuno (esseri
sovrumani, dèi, Dio), che trascende la dimensione umana, ponendosi insieme come
suo fondamento, e che si manifesta agli uomini in diversi modi (sentimenti di
dipendenza e creaturalità di fronte alla natura o fenomeni o oggetti di
essa; comunicativa presenza di Dio
attraverso la creazione; comunicazioni primordiali, mediate o dirette, del
divino agli uomini, tramite teofanie o ierofanie). L’altra, che vede la religione nient’altro che come risposta
culturale agli interrogativi o preoccupazioni degli uomini a proposito di
realtà o poteri che l’uomo non riesce facilmente a comprendere e a gestire,
come la morte, la vita e il tempo, “proiezione creativa dei nostri bisogni” che
non rimanda ad alcunchè di ontologicamente reale; le credenze religiose così
create non solo permettono di entrare in relazione con gli aspetti
problematici e vitali della realtà, ma
di dominarli, mentalmente (con i miti) e praticamente (con i riti).
Questa alternativa per me rimane indecidibile razionalmente,
è un conflitto che non può essere
risolto perché mancano gli strumenti per la verifica o la falsificazione di
entrambe le prospettive. Nemmeno si vede come una possa essere ritenuta
oggettivamente più plausibile dell’altra.
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