L’angoscia
della morte ha condotto i nostri lontani progenitori, centinaia di migliaia di
anni fa, a scavare le prime tombe e, nel tempo, ad arricchirle di utensili,
doni, ornamenti per accompagnare il defunto nell’altro mondo. Tale pratica
indicherebbe la coscienza della finitezza dell’uomo e la speranza che questa non
sia definitiva ma superabile in una dimensione trascendente, speranza ancora
presente in tanti uomini d’oggi.
E' probabilmente vero che non si è
trovato nessun popolo o tribù senza un qualche contrassegno di religione, ma è
anche vero che la rappresentazione di una sopravvivenza dopo la morte è forse
non sempre presente e comunque variamente e ambiguamente descritta e creduta.
Presento una brevissima carrellata
storica.
Come
abbiamo già detto sembra che i popoli
primitivi credessero in una qualche sopravvivenza del singolo dopo la
morte, e per quanto riguarda alla loro concezione della sopravvivenza, qualcuno
ipotizza che non pensavano a più di un sopravvivere spettrale, o ad una
sopravvivenza dell’anima (confortata dall’apparizione dei defunti nei sogni)
(vedi anche il post “Origine e spiegazione della religione”).
Nelle
popolazioni etnologiche odierne si
riscontra un interesse quasi universale nella vita dopo la morte, anche se
alcune di esse (per es. i Pigmei baka nella foresta equatoriale dell’Africa)
sembrerebbero non aver un’idea dell’aldilà e pertanto crederebbero che con la
morte terminerebbe la vita dell’individuo. La vita nell’aldilà in queste
popolazioni viene perlopiù concepita sul modello della vita terrena: così le
tribù indiane del Nord-America vi percorrono territori di caccia
meravigliosamente ricchi di selvaggina, i popoli africani se lo rappresentano
come una contrada in cui ci si sposa, si festeggia, in cui si abitano dei
villaggi.
Nell’antico Egitto gli egiziani credevano che
il defunto avesse bisogno di un corpo ben conservato e di una tomba in cui lo
spirito potesse ritornare per cibarsi. A tal fine le tombe erano fornite di
oggetti di uso quotidiano e religioso, secondo la ricchezza dell’individuo. Il
culto di Osiride nel Regno medio (ca.1900 a.C.) ottenne una diffusa popolarità
perché offriva ai suoi seguaci, indipendentemente dal loro stato sociale, la
promessa della resurrezione e di una vita eterna passata a coltivare la terra
nei “Campi dei giunchi”, qualora il giudizio fosse risultato positivo.
Nell’escatologia greca più antica tutte le anime
scendevano nell’Ade, il sotterraneo e buio regno dei morti. Successivamente i
Misteri e l’Orfismo promisero agli iniziati una vita beata, simile a quella
degli dèi. La reincarnazione rimase una credenza marginale. Nel 5° sec. a.C.
apparve una credenza nell’immortalità celestiale/astrale, con molte varianti.
Tutte queste credenze coesistevano con dubbi sulla vita ultraterrena.
Nelle
popolazioni del Vicino Oriente antico
(hittiti, fenici, sumeri), nonostante siano state trovate tombe regali (2500
a.C.) e altre sepolture, la mitologia pervenutaci attraverso le fonti
letterarie indica tuttavia una credenza nell’immortalità solo degli dèi, anche
se perfino essi potevano morire. L’uomo comune non nutriva alcuna speranza di
sopravvivere dopo la morte, oppure scendeva in un buio mondo sotterraneo dove
la vita rispecchiava molto pallidamente le gioie della vita terrena.
Le
religioni orientali per lo più
credono nella reincarnazione che porterà l’individuo all’estinzione di ogni
desiderio, alla liberazione nell’Infinito, al nirvana o alla reintegrazione
cosmica.
Nell’Islam si annuncia la fine del mondo presente, la risurrezione dei
morti e il giudizio finale con le sue conseguenze. L’inferno è riservato ai non
credenti, ai politeisti, ai calunniatori del profeta. Il paradiso si apre ai
fedeli che vi abiteranno nella “gioia divina”. È nota la rappresentazione
alquanto antropomorfica del “paradiso”: luogo di godimento, come un’oasi senza
confini, in cui scorrono fiumi di latte, di miele e dove sono a disposizione
del devoto un buon numero di fanciulle vergini, anche se per i teologi islamici
più liberali queste descrizioni devono essere intese in senso metaforico.
Nell’ebraismo, come già detto, non si è
creduto per oltre un millennio alla risurrezione ma solo in una permanenza
umbratile, in un luogo di tenebra e silenzio, di inedia e di oblio, nel quale
gli uomini sono condannati ad un’esistenza spettrale (“scheol”), incapace di
incidere su una vita vissuta nell’oggi. L’immortalità era per lui la continuità
della generazione del padre nei figli.
E col cristianesimo l’idea della risurrezione viene ribadita con il
messaggio della risurrezione di Gesù come garanzia e anticipo della
risurrezione di tutti gli uomini.
Quindi da un punto di vista storico,
le convinzioni sull’aldilà sono sì generalmente anche se non sempre presenti,
colpiscono però le loro varianti piuttosto che per la loro uniformità, e
appaiono storicamente condizionate per le loro rappresentazioni.
Ma valutiamo ora su cosa si fondano, che grado di conoscenza
possiamo avere noi oggi circa la prospettiva di una eventuale vita oltre la
morte.
Nell’uomo esistono in pratica tre
grandi maniere di rappresentare la vita eterna: l’immortalità dell’anima, la reincarnazione
e la risurrezione.
1. L’IMMORTALITÁ
DELL’ANIMA
L’immortalità dell’anima risulta essere la prospettiva e la questione
più importante, perché implicata, in maggior o minor misura, anche nelle altre
due prospettive indicate (reincarnazione e risurrezione), e pertanto sarà
quella più approfondita.
Questa concezione si basa sull’idea che nell’uomo esista un’anima, o comunque un principio
spirituale, che sopravviverà alla morte del corpo in quanto non dipenderebbe da
esso.
Il problema fondamentale qui è quello di poter giustificare
razionalmente l’esistenza dell’anima e la sua eventuale immortalità.
In termini tradizionali l’anima è stata considerata “il
principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali (comunque
intese e classificate) in quanto costituente una unità a sé o sostanza” (N.
Abbagnano). Quindi l’insieme delle operazioni o di eventi quelli appunto detti
“psichici” o “mentali” o “spirituali” costituirebbero le manifestazioni di un
principio autonomo, appunto l’anima, irreducibile, per la sua originalità, ad
altre realtà, sebbene in rapporto con esse.
La questione dell’esistenza dell’anima è connessa con il
così detto problema mente-corpo.
Nel mondo sembrano esservi due tipi di cose del tutto
differenti: le cose che appartengono alla realtà fisica, che molte persone differenti possono osservare dall’esterno,
e le altre cose che appartengono alla realtà mentale, che ciascuno di noi sperimenta al suo interno. Ora, la
realtà mentale deriva dalla realtà fisica o ha un fondamento diverso? In altri
termini: la nostra mente è qualcosa di diverso dal nostro cervello, sebbene ad
esso connessa, oppure è il nostro
cervello? Detto ancora più esplicitamente: il darsi delle realtà mentali
richiede l’esistenza dell’anima (o di una “mente”, sussistente come entità
indipendente) o deriva semplicemente dal corpo (cioè dal cervello)?
Dalle risposte a queste domande si avranno maggiori o minori
possibilità di giustificare l’esistenza dell’anima (la sua natura, e la sua
eventuale immortalità).
Provo dunque ad affrontare tale questione, in modo molto
sommario e sintetico, sicuramente incompleto, ma spero sufficiente per avere (e
per dare) una prima idea delle possibilità e dei limiti conoscitivi rispetto a
questa questione.
Accenno innanzitutto alle diverse concezioni riguardo al
rapporto mente/corpo o anima/ corpo: sono molte e le più diverse, ciascuna con
i suoi sostenitori e i suoi detrattori, nessuna che non sia controversa,
nessuna che oltre alle possibilità che offre non presenti anche dei limiti, che
fanno scontrare i rispettivi sostenitori in una interminabile disputa, tuttora
molto vivace.
In
modo approssimativo, si possono riassumere queste diverse concezioni in tre classi fondamentali, che al loro
interno presentano numerose varianti (tali da rendere anche difficile un loro
inquadramento): il dualismo, il fisicalismo e il fisicalismo non riduttivo.
1. Il dualismo afferma
che deve esservi un’anima “attaccata” al corpo in un certo modo che consente
loro di interagire; e allora noi saremmo costituiti da un organismo fisico e da
un’anima puramente mentale, a cui si devono le attività “superiori” dell’uomo.
Esistono due principali tipi di dualismo (oltre ad altri): il dualismo delle
sostanze, il dualismo delle proprietà.
Il dualismo delle sostanze
- o dualismo proprio - introduce la nozione di sostanza: la mente non è un insieme
di pensieri, ma è ciò che pensa, una sostanza immateriale (distinta da quella
materiale). Questa visione è quella che tradizionalmente appartiene alle
visioni religiose dell’uomo. L’esistenza di un’anima creata da Dio, immortale,
distinta dal corpo, è una verità della fede cattolica e un elemento di credenza
ampiamente diffuso anche in ambito cristiano riformato. Nel Catechismo della
chiesa cattolica viene affermato come verità di fede che la persona umana “è un
essere insieme corporeo e spirituale” (n. 362) e che l’anima “è immortale: essa
non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte” (n. 366)
(poi certo nel cristianesimo si sottolinea anche l’aspetto della risurrezione
dei corpi a scapito della sola immortalità dell’anima) .
Il dualismo delle proprietà
invece sostiene che esiste un solo tipo di sostanza o di entità, con proprietà
fondamentali fisiche e mentali; in altri termini possono esserci enti fisici
che posseggono proprietà non fisiche, non riducibili alla fisica: a tale ruolo
si candidano, in particolare, le persone e i cervelli.
2. All’opposto si trova il materialismo (monistico) o fisicalismo,
la visione secondo cui le persone non sarebbero fatte che di materia fisica, e
i loro stati mentali sarebbero stati fisici del loro cervello; insomma, la
mente e il cervello alla fine sarebbero la stessa cosa. Non è che questi
filosofi neghino la coscienza, i pensieri e la logica; semplicemente sostengono
che questi elementi non sarebbero spirituali, e sarebbero invece operazioni sofisticate
e complesse del cervello aventi una natura fisica.
Anche questa posizione contempla
diverse varianti, tra cui l’eliminativismo, quella dell’identità tra mente e
cervello, il comportamentismo logico, il funzionalismo, ecc., tutte teorie che
vedremo in seguito.
3. In una posizione intermedia,
si ammette la possibilità che alcune caratteristiche della vita mentale non
siano fisiche, pur considerandole prodotte dal cervello e quindi dipendenti da
esso; oppure si sostiene che tutti gli eventi sono eventi fisici, ma alcuni
eventi fisici hanno anche proprietà non fisiche, ma mentali. Anche in questa
“zona grigia” si possono trovare numerose teorie, tra le quali segnalo qui
quella dell’emergentismo, secondo cui
quando la natura raggiunge un adeguato livello di complessità, essa dà vita a
fenomeni nuovi, imprevedibili e irriducibili a quelli del livello base, ovvero
emergono proprietà mentali eccedenti e
(forse) capaci di esercitare un’influenza causale sul fisico.
Ma riprendiamo e approfondiamo la questione.
Il problema mente-corpo riguarda dunque il modo di spiegare
come stati, eventi e processi mentali siano in relazione con stati, eventi e
processi fisici del corpo; o, alternativamente, come trovare posto alla mente
in una concezione naturalistica del mondo che la considera prodotto
dell’evoluzione biologica grazie ad un substrato fisico-chimico. I due problemi
sono collegati e portano a formulare le due domande principali più frequenti:
se il mentale non è fisico, come possiamo spiegare la sua
interazione causale con il fisico?
E se invece il mentale è fisico, come possiamo spiegare i
fenomeni della coscienza?
Ma cos’è il mentale
e cosa lo differenzia dal fisico?
C’è sufficiente accordo sul fatto che per attività o stati
mentali si intenda il sentire, il percepire, il pensare e l’esser coscienti. In
sintesi, il mentale – in opposizione al fisico – si caratterizza per l’unità
(il flusso di coscienza e il focus dell’attenzione sono convergenti e
indivisibili, anche se la questione non è immune da difficoltà), l’immediatezza
(conoscenza introspettiva diretta, non inferenziale, dei nostri stati interni),
l’immunità dall’errore rispetto all’ascrizione degli stati (uno stato che ci
sembra nostro non può che essere nostro, a differenza, ad esempio, del
contenuto di un ricordo) e la fenomenologia (l’effetto che fa essere se stessi
o esperire certe sensazioni). Gli stati mentali ci appaiono “in prima persona”,
con il carattere della “privatezza”: la prospettiva di prima persona è quella
che differenzia la soggettività dall’oggettività scientifica espressa “in terza
persona”. L’altra caratteristica fondamentale del mentale è data
dall’intenzionalità, cioè da quella capacità della mente per cui gli stati
mentali hanno sempre un contenuto, ovvero si riferiscono a un oggetto, vertono
a cose, diversi da se stessi; hanno cioè un contenuto, un elemento mentale con
proprietà rappresentazionali (non necessariamente esistente: si può pensare ad un ippogrifo).
Che cosa sia il fisico
può sembrare più semplice (anche se forse proprio così non è) e con
approssimazione, in contrapposizione al mentale, si fa riferimento al corpo, e
al cervello in particolare. Ma è anche
difficile sostenere una discontinuità tra il corpo e la realtà esterna (siamo
fatti di atomi come gli oggetti, seppur organizzati diversamente). Comunque
oggi nel fisico rientrano gli elementi di base (particelle, campi di forza,
energia costante) e le qualità primarie (dimensione, forma, movimento, numero,
tessitura). Fare appello alla scienza fisica, inoltre, implica accettare il
riduzionismo, in quanto la spiegazione scientifica è intrinsecamente
riduzionistica: la complessità viene ridotta alla semplicità, gli interi
scomposti in parti.
Detto questo, presento meglio il dualismo e soprattutto gli
argomenti più noti atti a giustificarlo.
IL DUALISMO E GLI ARGOMENTI A SUO FAVORE
La presentazione (e la difesa) più emblematica del dualismo
- filosoficamente nato con Platone - è avvenuta nella filosofia moderna ad
opera di Cartesio (1596-1650). Lo presento
così come viene spiegato da B. Sweetman
(2014, p.149-151). Cartesio ha sostenuto che il corpo e la mente sono due
entità distinte, ovvero due sostanze (dualismo delle sostanze) . La mente non è
una entità fisica e ha una natura spirituale, il cervello è invece una entità
fisica. Secondo questa concezione, quindi, la mente è una entità indipendente,
non è prodotta dal cervello e non dipende necessariamente da quest’ultimo per
la sua esistenza.
Il dualista ritiene che il corpo e la mente abbiano una
relazione simile a quella esistente nel motore di un’auto tra l’alternatore e
la batteria. Sono entità distinte, ma collegate tra loro; l’una non produce
l’altra, e se l’una viene rimossa, l’altra per questo non cessa di esistere.
Sebbene non si tratti di un’analogia perfetta, essa ci dà comunque una buona
illustrazione della posizione dualistica.
Un punto cruciale di essa è la sua posizione antiriduzionistica nel rapporto tra
mente e cervello. Il riduzionismo è il tentativo messo in atto da alcuni
filosofi di spiegare una certa serie di fenomeni abitualmente problematici e
apparentemente non di natura fisica nei termini di un’altra serie di fenomeni
più semplici e più facilmente comprensibili. Di fatto si tratta di spiegare
l’entità più complicata, la mente, nei termini di quella più semplice, il
cervello. Ora, Cartesio ha sostenuto che il riduzionismo non può riuscire
perché la mente è una entità distinta, le cui proprietà non possono essere
spiegate in termini scientifici, per cui anche se arrivassimo a comprendere
totalmente il funzionamento del cervello, questo non ci consentirebbe di
comprendere ancora del tutto la mente.
Cartesio e altri dualisti sostengono un’altra tesi
fondamentale, cioè che la mente ha un potere
causale sul cervello, il che è una chiara indicazione della sua autonomia
metafisica. Come si vedrà poi, questa interazione causale tra mente e cervello,
due sostanze del tutto diverse tra loro secondo il dualista, sarà uno dei più
grossi problemi che deve affrontare il dualismo e un punto di forza dei
fisicalisti. Comunque, un esempio del potere causale della mente sul cervello e
viceversa, lo si può brevemente illustrare con l’esempio dei processi fisici e
mentali che accompagnano la sensazione della fame. Lo stomaco manda segnali al cervello e allora
si inizia a pensare (come parte dei processi di pensiero consci) al cibo. Si
può iniziare a pensare che è ora di pranzo, al luogo in cui si è e a quello in
cui si vorrebbe mangiare, a che cosa si potrebbe mangiare, ecc. La tesi dei
dualisti è che il cervello stimola la mente a pensare al cibo, ma che quando
uno pensa e decide cosa fare, la mente agisce sul cervello mandando quei
segnali al corpo che alla fine lo fanno andare al ristorante. La mente
interagisce con il corpo e entrambi hanno un potere causale uno sull’altro.
Tornando ad oggi, è senz’altro vero che i resoconti
filosofici contemporanei della natura umana, compresa quella della mente, sono
in gran parte materialistici; e tuttavia, come dice il filosofo americano C. Taliaferro, “vi è un crescente
riconoscimento del problema insito nel progetto materialistico di riduzione o
di identificazione degli stati e delle proprietà coscienti agli stati del
cervello e al comportamento corporeo. Nessuna delle riduzioni o delle
identificazioni delle scienze fisiche ci dà alcun indizio di come la coscienza
possa essere identica a uno stato o a un processo fisico”. Anche il materialista M. Lockwood ammette che “sembra tuttavia evidente che nessuna
descrizione di qualche attività cerebrale rilevante, formulata nei linguaggi
oggi disponibili della fisica, della fisiologia, dei ruoli funzionali o
computazionali, sia lontanamente in grado di catturare ciò che è distintivo
della coscienza” (2003).
Insomma, sembra che le neuroscienze non possano sostituire
con spiegazioni neurologiche la vasta gamma delle spiegazioni psicologiche
ordinarie delle attività umane nei termini di ragioni, intenzioni, scopi,
obiettivi, valori, regole e convenzioni (Bennet-Hacker, 2003).
Quindi passo ora a considerare i più importanti argomenti in
favore del dualismo.
Argomento
dell’identità e della semplicità personale
Almeno da Butler
(1736) e Reid (1785) vi è una lunga
tradizione secondo la quale l’identità delle persone nel tempo non è questione
di convenzione, ma si configurerebbe come un fatto ultimo, irriducibile e non
analizzabile nei termini di fenomeni osservabili o esperibili coi sensi.
R. Swinburne (1984) parte dell’incapacità del materialismo di rendere
conto del fatto evidente che noi siamo soggetti unitari e perduranti nel tempo.
Secondo lui, la continuità del corpo e dei ricordi ad esso associati sono
inessenziali per la continuità del soggetto, della persona, che per questa
ragione non può quindi identificarsi con esse. Per Swinburne l’unico modo di
dar conto della nostra intuizione di esistere come soggetti perduranti di
esperienza è supporre la persistenza di una sostanza immateriale semplice, che
sarebbe alla base della nostra identità personale.
Un altro argomento celebre in favore della distinzione tra
mente e corpo afferma che essa è ricavabile dalla constatazione che il corpo
appare divisibile, in contrapposizione alla mente che invece è intrinsecamente
indivisibile: nella “Sesta meditazione” Cartesio afferma che, in quanto cosa
pensante, io “non posso distinguere in me parte alcuna, ma concepisco di essere
una realtà una e intera”, mentre questo non è affatto vero per il mio corpo. Nè
la presenza di differenti facoltà del volere, del sentire, del concepire è un
esempio di disunità dell’io, perché comunque sempre una e identica è la mente
che vuole, sente e concepisce.
Sempre dell’argomento dell’unità della coscienza aveva
parlato anche Leibniz (1720) nel noto
passo in cui dice che, se anche potessimo immaginare una macchina che possa
pensare, sentire, percepire, e vi potessimo entrare come in un mulino,
troveremmo parti meccaniche in funzione e nulla più: per questo “la percezione dovremmo
cercarla nella sostanza semplice e non nel composto o macchina”. Ovvero, uno
stato complesso di coscienza non può esistere distribuito tra le parti di un
oggetto complesso. W. Hasker allora
domanda: “chi o cosa è consapevole dello stato cosciente come di un tutto?”
perchè è un fatto che si è consapevoli
del proprio stato cosciente come di un dato unitario. Allora al materialista
chiediamo: quando sono consapevole di uno stato cosciente complesso, quale entità fisica è consapevole di quello
stato? Sono convinto che non ci sia una risposta plausibile. Sembra invece che
l’entità cosciente, la cosa che è consapevole dei nostri stati di pensiero e di
sensazione, sia qualcosa di diverso dal corpo (in Lavazza, 2008).
Argomento
della conoscenza (o dei qualia)
Per rendere manifesta la peculiarità e l’eccedenza della
realtà mentale su quella fisica è stato escogitato un esperimento mentale,
diventato emblematico (anche se molto discusso), dal filosofo Jackson (1982).
Mary è una neurofisiologa che sa tutto quello che c’è da sapere sul funzionamento del cervello,
sulla sua biochimica, anatomia, fisiologia, patologia, sul modo in cui processa
l’informazione, ecc. Mary, però, per un motivo qualsiasi, deve condurre le sue
ricerche dall’interno di una stanza in bianco e nero, attraverso monitor
anch’essi in bianco e nero. Malgrado questo handicap, Mary diventa una grande
specialista della neurofisiologia della visione, giungendo a conoscere tutto di come il cervello elabori la
percezione cromatica.
La questione che Jackson
pone è: una volta che Mary finalmente uscisse dalla sua stanza e vedesse il
mondo a colori, imparerebbe qualcosa di nuovo? Una volta che Mary venisse posta
difronte ad un pomodoro maturo, bello rosso, cosa accadrebbe? L’intuizione è
che Mary imparerebbe qualcosa di nuovo, che direbbe “ecco cosa si prova a
vedere rosso”, e via proseguendo per tutte le altre esperienze. In breve Mary
acquisirebbe della conoscenza che non può essere riportata sui libri, proprio
perché richiede una esperienza diretta. Tuttavia, se i colori sono proprietà
fisiche, come dobbiamo convenire, e non tutti i dati di conoscenza di tali
proprietà fisiche sono esplicitabili riportando i puri fatti fisici relativi al
colore, ne segue che la conoscenza su queste proprietà non può essere esaurita
tramite descrizioni oggettive e intersoggettive. Quindi se ne dovrebbe dedurre
che i fatti fisici non sono gli unici fatti che popolano il nostro mondo, e di
conseguenza che il fisicalismo sarebbe incompleto o falso (Gozzano 2009).
Questo argomento ci consente di introdurre il concetto di qualia, molto usato per l’argomento
della coscienza. Un quale possiamo
identificarlo con il carattere fenomenico di un’esperienza di qualsivoglia
genere, ma in particolare di quelle di tipo percettivo. È ciò che proviamo
quando recepiamo un certo odore (quale olfattivo), o quanto esperiamo quando
assaggiamo qualcosa (quale gustativo) o ciò che esperiamo quando osserviamo un
determinato colore (quale visivo). Insomma è “cosa si prova”. La coscienza
dunque è essenzialmente caratterizzata dal cosa
si prova, da che effetto fa
essere un determinato organismo. Il carattere soggettivo dell’esperienza, dice T. Nagel, è proprio l’ostacolo
principale all’analisi scientifica dei fenomeni coscienti.
Argomento
della concepibilità (o argomenti modale, dello zombie e delle inversioni)
Ci sono degli argomenti che hanno radici nella “Sesta
meditazione” di Cartesio, laddove
egli con un argomento a priori cerca
di mostrare la distinzione di principio tra mente e corpo.
L’idea è semplice: se sono in grado di concepire in modo
chiaro e distinto che una cosa esiste indipendentemente da un’altra, allora non
vi è dubbio che esse non sono la stessa cosa, poiché è quanto meno possibile
che Dio le abbia “poste separatamente”. Di fatto io posso ben concepire la
mente come esistente indipendente dal corpo: è impossibile quindi che si tratti
della stessa entità.
Ci sono diverse varianti di questo tipo di argomento: H. Robinson (2003), in versione più
prettamente modale, lo espone come segue:
“E 'immaginabile che esista una mente senza il corpo, quindi
è concepibile che esista una mente senza il corpo, quindi
è possibile che esista una mente senza il corpo, quindi
la mente è una entità distinta, diversa dal corpo”.
Un’argomento affine, molto noto e discusso, è quello
dell’esperimento mentale dello zombie. Con
zombie si intende una entità
fisicamente identica ad un essere umano, ma priva degli stati di esperienza
soggettiva che si accompagnano alla nostra configurazione fisica. Ora, se
ammettiamo la concepibilità del mio
gemello zombie, ovvero la possibilità
logica di un mondo possibile in cui un individuo identico atomo per atomo a me
stesso sia privo di stati di coscienza, allora avremmo provato l’impossibilità
di una spiegazione meramente fisica dell’esperienza fenomenica. Io e il mio
gemello, infatti, siamo indistinguibili dal punto di vista fisico. Quindi il
mio possesso dell’ulteriore proprietà di essere un soggetto di esperienza, va oltre i limiti della fisica; essa, se
esiste, cade al di fuori delle scienze naturali, dato che non esistono
differenze fisiche nelle due situazioni.
A sostenere il concetto di zombie ci viene incontro anche una rara malattia psichiatrica, la sindrome di Cotard: i soggetti affetti
da tale patologia possono affermare di non avere più determinate parti del
corpo, oppure “di non aver sentimenti”, fino a sostenere di non esistere
affatto. In sostanza, sembra che essi siano la migliore approssimazione della
condizione di uno zombie.
Dunque “il cuore dell’argomentazione è il seguente: possiamo
immaginare o concepire un essere fisicamente identico a ciascuno di noi che
tuttavia differisce per le proprietà coscienti. Se tale essere è concepibile,
allora esso è possibile; da ciò consegue che non possiamo procedere
all’identificazione delle proprietà coscienti con quelle fisiche, come vuole il
fisicalista, pena, data l’ipotesi dello zombie,
la scomparsa delle proprietà coscienti” (Gozzano 2009, p. 93-94).
Un altro argomento simile è quello delle
“inversioni” (o dello “spettro invertito”).
Questo argomento risale a J. Locke (1690), e ci dice che potremmo immaginare che lo stesso
oggetto esterno potrebbe produrre idee diverse nella mente di diversi uomini al
medesimo tempo. Ad esempio se lo spettro cromatico che io percepisco fosse
invertito rispetto al tuo, a parità di addestramento linguistico, ci troveremmo
nell’impossibilità di rilevare tale inversione. Posto di fronte a una violetta io asserisco “è di colore viola”, e davanti
all’arancia matura affermo “è di colore
arancio”, ma le mie sensazioni interne sono invertite rispetto a quelle che tu
provi quando sei nella mia stessa situazione: io ho la sensazione di viola in presenza di arance e quella di arancio in presenza di viole,
eppure sono stato addestrato a chiamare “viola” la sensazione che tu chiami
“arancio” e viceversa. Poiché quindi l’eventualità dell’inversione dello
spettro cromatico è perfettamente intelligibile, ne consegue che abbiamo un
argomento a priori – ossia indipendente dall’esperienza e frutto di
ragionamenti – per mostrare che a parità di relazione e comportamento fisico
abbiamo una inversione di fenomenologia mentale. Possiamo quindi asserire di
aver un argomento per marcare la distanza tra il mondo fisico, che tratta i
comportamenti fisici, e il mondo della fenomenologia cosciente, che si occupa
delle nostre esperienze interne (Gozzano 2009, p. 20).
Argomento
dello iato esplicativo
Oggi l’insieme di problematiche sopra esposte - argomento
della conoscenza, dello “spettro invertito” e zombie - è riunito sotto l’espressione di iato esplicativo: tra la spiegazione neurologica e quella
fenomenologica, si afferma, esiste un vuoto esplicativo, un salto, che le
neuroscienze non sono in grado di colmare. Questo non sembra un problema
esclusivamente epistemologico, bensì metafisico: se tutte le proprietà fisiche
sono insufficienti a spiegare il fenomeno della coscienza, non dobbiamo allora
richiamarci a proprietà speciali per affrontare un simile fenomeno? Non
dobbiamo aggiungere queste proprietà al catalogo fondamentale di ciò che c’è
nel nostro universo?
Argomento
della libertà
Questo della libertà si tratta di un argomento indiretto, in
quanto concerne un aspetto che non è strettamente dipendente dal problema
mente-corpo, sebbene ne sia influenzato.
Qui posso solo accennare all’argomento, per cercare di
capire che si tratta di una proprietà notevole e complessa dell’essere umano e
questo è il motivo per cui molti pensatori credono che l’esistenza del libero
arbitrio sia un argomento importante contro ogni teoria materialistica della
mente umana.
Seguiamo qui il ragionamento di B. Sweetman: il libero arbitrio può essere definito come l’abilità
degli esseri umani a fare una scelta autentica tra alternative, una scelta che
non è determinata da leggi scientifiche operanti a livello atomico o molecolare
o dalla combinazione di particelle nel cervello. Sebbene sia evidente che il
libero arbitrio comporti anche processi di causa ed effetto, vi è in esso un
aspetto non causale che è essenziale, altrimenti non sarebbe libero arbitrio.
Pensiamo ad esempio a tutte le dinamiche che si succedono
nel nostro corpo e nella nostra mente quando sentiamo fame: da eventi biologici
in cui segnali vengono mandati al cervello, al susseguirsi di idee, pensieri,
immagini e ragionamenti su dove pranzerò, su che cosa mangerò e quando. Queste
decisioni mi consentono di esercitare un potere causale sul mio cervello e sul
mio corpo in modo da muovere quest’ultimo verso il ristorante così da andare a
pranzare. Le decisioni che ho preso sono scaturite in modo un po’ misterioso
dal processo mentale che mi porta a pensare al pranzo: tuttavia ho delle
ragioni per esse. Queste ragioni non mi determinano in modo necessario.
Diversamente da una macchina che potrebbe essere programmata per fare
apparentemente una scelta, io sono realmente libero di prendere una decisione.
I sostenitori del dualismo e quelli che parteggiano per la dottrina del libero
arbitrio sostengono che non è possibile dare un resoconto scientifico del
libero arbitrio perché si tratterebbe di una contraddizione in termini: sarebbe
come chiedere una spiegazione scientifico-causale di qualche cosa che non è
soggetto a un certo tipo di spiegazione.
Quello che quindi possiamo dire del libero arbitrio è che è reale, ma sta al di
là della fisica e oltre il metodo
scientifico.
I dualisti ritengono che la presenza del libero arbitrio
infici la validità del materialismo.
Infatti per i materialisti si tratta di un problema spinoso dal momento
che, affermando che tutte la nostre azioni si radicano nel cervello o nel
sistema nervoso centrale, essi devono anche affermare che tutte le nostre
“scelte” sono esplicabili in termini di leggi casuali scientifiche che operano
sulla materia. Noi saremmo quindi simili a robot molto sofisticati, le cui
azioni sono determinate da sequenze casuali operanti secondo le leggi
scientifiche. In breve, non vi è spazio per il libero arbitrio in un universo
naturalistico (B. Sweetman 2014, p.156-163).
Termino la difesa del dualismo (in senso ampio) riassumendo
brevemente due prospettive rilevanti, quella dei filosofi D. Chalmers (Affrontare il problema della coscienza,
in Lavazza, 2008, pp.208-239) e W. Hasker
(Dualismo emergente: una prospettiva di mediazione sulla natura degli esseri
umani, in Lavazza, 2008, pp. 240-255).
Chalmers afferma che tanti fenomeni della coscienza sono spiegabili,
o lo saranno, in termini cognitivi o neurofisiologici. Questi sono i problemi
semplici, perché riguardano la spiegazione di capacità e di funzioni cognitive.
Ma il problema davvero complesso della coscienza è il problema dell’esperienza
(o della coscienza fenomenica o qualia):
come dice Nagel fa un certo effetto
essere un organismo cosciente, si prova qualcosa. È l’aspetto soggettivo.
Perché lo svolgimento di queste funzioni è accompagnato dall’esperienza? La
spiegazione semplice delle funzioni lascia aperto questo quesito. Perché tutta
l’elaborazione dell’informazione non si svolge al “buio”, libera da ogni
sensazione interna?
Ci sono diverse teorie che vorrebbero spiegare la coscienza.
La “teoria neurobiologica della coscienza” di Crick e Koch (1990)
ipotizza che certe oscillazioni delle scariche neuronali della corteccia
cerebrale a 35/75 hertz siano la base della coscienza, ovvero i correlati
neuronali dell’esperienza. Ma seppur la si accetta, la domanda esplicativa
rimane: perché le oscillazioni delle scariche neuronali danno origine
all’esperienza? Il modello del “darwinismo neuronale” di Edelman (1989) prende ad esempio in considerazione le domande sulla
consapevolezza percettiva e sul concetto di sé, ma non dice nulla del motivo
per cui deve esservi anche l’esperienza. Il modello delle “versioni multiple”
di Dennett (1991) è diretto in gran
parte a spiegare la riportabilità di certi contenuti mentali. La teoria del
“livello intermedio” di Jackendoff
(1987) fornisce un resoconto di alcuni processi computazionali che sottostanno
alla coscienza, ma egli stesso sottolinea che il modo in cui essi “proiettano”
nell’esperienza cosciente rimane misterioso.
La stessa critica in definitiva si applica a qualunque spiegazione puramente fisica
della coscienza. Per ogni processo fisico che noi specifichiamo, vi sarà una
domanda senza risposta: perché questo processo dovrebbe dare vita
all’esperienza? Dato uno qualunque di questi processi, è concettualmente coerente
che esso possa venire instanziato in assenza dell’esperienza. Ne segue che
nessuna spiegazione dei processi fisici ci dirà perché sorge l’esperienza.
L’emergere dell’esperienza va oltre ciò che può essere derivato da una teoria
fisica. L’esperienza può sorgere dal
fisico, ma non è implicata dal
fisico.
Allora dato che la spiegazione riduzionistica fallisce - ne
deduce Chalmers - la scelta più ovvia cade sulla spiegazione non
riduzionistica.
Chalmers suggerisce che una teoria della coscienza debba considerare
l’esperienza come fondamentale, ovvero come qualcosa che non può essere
spiegato con nulla di più semplice, che sono basilari (come la massa e lo
spazio-tempo). Una teoria della coscienza richiederà l’aggiunta di qualcosa di fondamentale alla nostra
ontologia. Dove esiste una proprietà fondamentale, vi sono anche leggi
fondamentali. Una teoria non riduzionistica dell’esperienza aggiungerà nuovi
principi alla dotazione delle leggi di base della natura. In particolare,
questa teoria specificherà i principi base che ci dicono il modo in cui
l’esperienza dipende da elementi fisici del mondo. Questi principi psico-fisici non interferiranno con le
leggi fisiche (sembra infatti che le leggi fisiche formino già un sistema
chiuso). Piuttosto, saranno un elemento aggiuntivo a una teoria fisica. Una
teoria fisica fornisce una teoria dei processi fisici, e una teoria
psico-fisica ci dice il modo in cui questi processi danno origine
all’esperienza. (Ovviamente, considerando l’esperienza come fondamentale, vi è
un senso in cui tale approccio non ci dirà perché l’esperienza esiste, ma lo
stesso accade per qualunque teoria fondamentale: niente in fisica ci dice
perché primariamente esiste la materia, ma non lo consideriamo un fatto che
ostacoli teorie della materia).
Questa posizione si qualifica come una varietà di dualismo,
dato che postula proprietà basilari al di là delle proprietà invocate dalla
fisica. Ma è una versione innocente di dualismo, totalmente compatibile con una
visione scientifica del mondo. Nulla in questo approcciò contraddice alcuna
teoria fisica, occorre solo aggiungere ulteriori principi ponte per spiegare il modo in cui l’esperienza sorge dai processi
fisici. Non vi è nulla di particolarmente spirituale o mistico in questa
teoria; la sua forma complessiva è simile a quella di una teoria fisica. Si potrebbe chiamare dualismo naturalistico. Infine Chalmers
cerca di abbozzare la sua teoria, che definisce alla fine speculativa (e più
un’idea che una teoria), ma sempre meglio, dice, che negare il fenomeno, o
spiegare qualcos’altro o innalzare il problema a mistero eterno, come fanno la
maggior parte delle teorie esistenti sulla coscienza.
W. Hasker ripropone invece l’idea dell’emergentismo: quando elementi di un certo tipo sono assemblati nel
modo giusto, qualcosa di nuovo viene in essere, qualcosa che non vi era in
precedenza. Si supponga che da certe molecole chimiche, in quantità appropriata
e disposte in modo particolare, si ottenga qualcosa di nuovo, una cellula
vivente. E si supponga che dato un numero sufficiente di cellule del tipo
giusto, organizzate in modo appropriato, sorga il prodigio della
consapevolezza, che implica sensazione, emozione e pensiero razionale. Se si
guardano questi fenomeni alla luce dell’emergenza non si penserà al nuovo
elemento come a qualcosa di “aggiunto dall’esterno”, piuttosto come a qualcosa
che sorge in qualche modo dai costituenti originali.
Ora si consideri la seguente possibilità: un cervello
animale o umano sono fatti di atomi o molecole ordinari, soggetti alle leggi
della fisica e della chimica. Si supponga però che data la particolare
disposizione di questi atomi e di queste molecole nel cervello, entrino in
gioco nuove leggi, nuovi sistemi di
interazione tra atomi, ecc. Queste nuove leggi inoltre svolgono un ruolo
fondamentale in attività mentali peculiari, quali il pensiero razionale e
l’assunzione di decisioni. Le nuove leggi tuttavia non sono individuabili in
qualche configurazione più semplice, anche in loro presenza il comportamento
degli atomi e delle molecole è spiegato dalle leggi ordinarie della fisica e
della chimica. Si tratta allora di leggi
emenrgenti e i poteri che il cervello ha in virtù di esse possono dirsi poteri causali emergenti (certo questo è
controverso, molti si oppongono a tale ipotesi partendo dal successo delle
ordinarie spiegazione fisico-chimiche; e tuttavia numerosi filosofi si sentono
spinti ad affermare l’esistenza di poteri casuali emergenti: sostengono che i
fatti più importanti della nostra vita mentale non possono venire spiegati in
altro modo).
Si supponga infine che, come esito della struttura e del
funzionamento del cervello, appaia anche una nuova entità, la mente, che non consiste di atomi e
molecole, o di qualunque altro costituente fisico. Se così fosse, avremmo un individuo emergente, un individuo che viene all’esistenza come risultato di
una certa configurazione del cervello e del sistema nervoso, ma che non è composto della materia che
costituisce quel sistema nervoso. Tale teoria sarebbe una varietà del dualismo,
un dualismo emergente: l’idea è che
come conseguenza di una certa configurazione e di un certo funzionamento del
cervello e del sistema nervoso, una nuova entità venga in essere, e cioè la
mente o l’anima; questa sarebbe una “sostanza”, dipende dal cervello sia per la
sua origine che per la sua continuità,
ma non è fatta della materia del cervello. Si potrebbe fare questa
analogia: come il magnete genera il suo campo magnetico, così un organismo
genera il suo campo cosciente. Un suo punto forte è che stabilisce una stretta
connessione tra mente-anima e organismo biologico, una connessione che risulta
molto più debole in altre forme di dualismo (evita per esempio la divisione
della persona in due entità distinte). La mente–anima è sia generata sia
sostenuta dall’organismo biologico, mentre le sue attività sono subordinate al
funzionamento dell’organismo e rese possibili da esso.
Altro merito è che si concilia meglio con l’evoluzione
biologica di quanto facciano sia dualismo tradizionale che il materialismo riduzionistico
(perché la coscienza diventa “invisibile” alla selezione evolutiva che opera
solo su strutture e comportamenti fisici, mentre secondo il dualismo emergente
la coscienza co-evolve insieme all’organismo che la genera e la sostiene).
Dato che la mente è generata e sostenuta dall’organismo
biologico, il dualismo emergente rimane coerente con la prospettiva secondo
cui, con la morte dell’organismo anche la mente si estingue. Ma poiché la
mente-anima è un individuo ontologicamente distinto dall’organismo biologico,
la sua esistenza separata dal corpo è almeno logicamente possibile (per tornare
ancora all’analogia mente/campo magnetico, è stato dimostrato a livello teorico
che un campo magnetico sufficientemente intenso può mantenersi unito grazie alla
gravità quand’anche venga rimosso il magnete che l’ha generato (Thorne, 1994)).
Un’altra possibilità è che la mente-anima sia tenuta in vita non per facoltà
proprie ma da un Dio.
In effetti, e per concludere, se invece di partire dalla
prospettiva materialistica del cosmo oggi ampiamente diffusa, si abbraccia la
visione teistica alternativa, aumentano le prospettive del dualismo: se il teismo ha ragione, la coscienza è sì emersa, ma è emersa da un universo di processi fisici e chimici e da una potente realtà cosciente precedente, Dio, che vuole che vi sia un cosmo in cui è importante e prezioso essere coscienti.
CRITICHE AL DUALISMO
Bisogna ammettere che il dualismo oggi (soprattutto quello
cartesiano, ma non solo) non ha vita facile. “Il dualismo – filosoficamente
fondato da Platone ed espresso nella forma moderna da Cartesio – pur andando
raffinandosi nel confronto con lo sviluppo dell’ontologia, della logica, della
fisica e delle neuroscienze, è diventato certamente minoritario” ammette lo stesso
studioso dualista A. Lavazza, che
prosegue comunque dicendo che “ in realtà, le persistenti aporie del
riduzionismo fisicalistico riguardo la mente e i suoi aspetti fenomenologici ne
giustificano tuttora la considerazione…” (Lavazza 2008, p. 3).
In diverse introduzioni alla filosofia della mente ad opera
di autorevoli autori italiani contemporanei, il dualismo viene rifiutato. “Il
dualismo appare oggi inverosimile alla grande maggioranza degli studiosi
principalmente perché mal si accorda con alcuni capisaldi dell’immagine
scientifica del mondo” (Paternoster, 2002, p.6); “ben difficilmente oggigiorno
si potrà trovare qualcuno – filosofo, psicologo o neuroscienziato – che non sia
disposto a sottoscrivere la tesi secondo cui i processi cognitivi umani sono
riconducibili a processi neurocerebrali” (Marraffa, 2002, p 18); “mai come oggi
nella storia dell’umanità è sembrato plausibile che come si può, dopo Darwin,
fare a meno di Dio per spiegare la vita, così si può fare a meno dell’anima per
spiegare l’intelligenza”( Nannini, 2002, p 207).
“Malgrado le notevolissime differenze tra i vari punti d
vista, quasi tutti gli studiosi che si occupano della questione sembrano
condividere l’adesione a quello che viene definito l’approccio naturalistico”, afferma Di Francesco (2002), e quindi mi
appresto a considerare tale prospettiva, e con questa, le critiche ai diversi argomenti sopra esposti che difendevano il
dualismo.
Critiche
agli argomenti dell’identità e della semplicità personale
Anche prima degli sviluppi recenti delle neuroscienze, il
concetto di anima (e della sua immortalità) era entrato in crisi.
Tradizionalmente si diceva che la caratteristica principale dell’anima, ossia
il suo essere sostanza, cioè realtà
nel senso forte del termine, essenza autonomamente esistente, era quella che la
rendeva immortale. Infatti “ciò che ha l’essere per sé non può essere generato
e corrotto” perché “l’essere per sé è proprio della forma in quanto è atto” (S.
Tommaso); inoltre corollario della tesi della sostanzialità dell’anima era la
sua semplicità, per cui l’anima non
potrebbe corrompersi perché la corruzione implica composizione. Ma la critica
radicale di questo argomento fu fatta da Kant
nella sua “Critica della ragion pura” che dimostrò il carattere sofistico
dell’affermazione della sostanzialità dell’anima, in quanto tale affermazione
non fa che trasformare surrettiziamente in sostanza il semplice rapporto
funzionale che il soggetto pensante ha con se stesso, cioè l’Io penso. Inoltre
anche una sostanza “semplice”, che non può essere scomposta nelle sue parti
costituenti, potrebbe sempre diminuire gradualmente fino a sparire del tutto.
Anche il concetto di “io unitario” (oltre che indivisibile)
cui sembra fare appello il dualismo (e che ci verrebbe rivelato dall’introspezione)
non sembra oggi particolarmente adatto a sostenere il peso del dualismo e, al
contrario, ne rappresenta uno dei principali punti di debolezza (Di Francesco,
2002, p 50).
Accenno solo a qualche problema.
Molto nota è la tesi di Hume secondo cui non esiste affatto
una percezione che rimanga costante per tuto il resto della vita di un
individuo e che posa giustificare l’io cartesiano: “non riesco mai a trovare me stesso senza una percezione e a
cogliervi altro che la percezione” e da ciò la nota conclusione che “noi non
siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono
con una inconcepibile rapidità in un continuo flusso e movimento”. Da ciò ne
segue la metafora humeana della mente come “una specie di teatro, dove le
diverse rappresentazioni si susseguono…”.
Altrettanto presente alla consapevolezza odierna è la teoria
psicanalitica di Freud, che sembra ipotizzare vaste “regioni” della mente
precluse alla coscienza che appaiono in conflitto tra loro.
Ma soprattutto le neuroscienze e la scienza cognitiva hanno
raccolto una ricca messe di dati empirici che mettono in discussione
l’intuizione dell’unità dell’“io” e dell’indivisibilità della mente. Anche trascurando la problematica discussione
dei controversi casi di “personalità multipla”, lo studio del comportamento di
soggetti sottoposti a commessurotomia
(la separazione chirurgica dei due emisferi di cui si compone il cervello), i cosidetti
“cervelli divisi”, sono inquietanti. Tali ricerche hanno non solo mostrato la
lateralizzazione (ovvero la specializzazione dei due emisferi) rispetto a molte
funzioni cerebrali, ma nel caso dei pazienti in cui i contatti con i due
emisferi venivano interrotti, sono emerse numerose e sorprendenti dissociazioni
nelle prestazioni cognitive che hanno addirittura fatto pensare alla presenza
di due differenti flussi di coscienza
nello stesso individuo. Altri studi di carattere neurobiologico, relativi a
disturbi della coscienza, sembrerebbero rafforzare tali considerazioni e
suggerire una natura modulare di quest’ultima.
Dennet (1991) ha elaborato
certi argomenti contro la tesi di un centro della coscienza, affermando che l’illusione dell’esistenza di un centro
del sé sorge in modo naturale a partire da un cattivo modello di noi stessi,
che deve essere sostituito da un modello migliore e più rispettoso
dell’effettivo funzionamento del cervello.
Al di là delle critiche e diverse interpretazioni che si
possono portare in merito, la tensione tra “l’ordinaria e semplice idea di una
persona singola” (Nagel) e i sorprendenti risultati della ricerca scientifica è
una delle problematiche filosofiche più rilevanti nell’odierna filosofia della
mente (Di Francesco, 2002)
Critiche
agli argomenti della concepibilità
Senza entrare nella disputa specialistica sulle critiche e
controcritiche agli argomenti della concepibilità (soprattutto sulla versione
modale) dico solo che l’obiezione generale fondamentale a questi argomenti è
naturalmente quella sulla legittimità del passaggio
tra la concepibilità (e prima ancora l’immaginabilità) e la possibilità (logica
prima e reale poi), per non parlare del passaggio dalla possibilità (anche
reale) alla realtà di fatto.
Come ammette anche lo studioso dualista A. Lavazza (2008, p. 41,42) “derivare direttamente considerazioni
ontologiche (ciò che è possibile) da considerazioni epistemiche (ciò che è
concepibile) è controverso dal punto di vista logico e filosofico generale”.
La critica all’argomento a
priori di Cartesio venne già
formulata fin dalla sua apparizione. Una di queste è quella di A. Arnauld (1612-1694) che afferma che
il ragionamento di Cartesio dimostra solamente che io posso acquisire una certa
conoscenza di me stesso senza presupporre una conoscenza del corpo, ma questo
non implica che la natura corporea non possa esser parte della mia essenza,
senza che io lo sappia.
Passando all’argomento dello zombie, il suo punto più critico è quello di determinare quanto sia
realistico questo esempio che contempla la figura di quello che chiamiamo zombie. L’argomento dice che, dato che è
possibile immaginare o concepire un simile individuo, allora
il fisicalismo è falso. Chiaramente la difficoltà è che si fissa
un’implicazione dal concepibile al possibile, sta nel valutare l’effettiva
concepibilità e possibilità degli zombie. Va infatti osservato che un soggetto
con la sindrome di Cotard non è fisicamente identico a me, e quindi non
costituisce ipso facto un esempio
effettivo di zombie nel senso richiesto dall’argomento (Gozzano).
Oltre a questo problema principale, ci sarebbero anche altri
problemi, come quello del cosidetto “problema della altre menti” e al problema
se gli stati coscienti siano efficaci o no sul nostro comportamento (corpo).
Solo per accennare: come sappiamo che le altre persone hanno
una mente? Ciò su cui ci basiamo sono le risposte verbali e comportamentali,
non certo la possibilità di esperire ciò che gli altri provano in un
determinato istante. E ciò potrebbe andare incontro all’obiezione che il
significato di zombie non può essere
controllato in alcun modo, come quello di quale
applicato ad un individuo diverso da me (naturalmente ci possono essere
critiche a ciò).
E l’altro problema: gli stati coscienti sono casualmente
efficaci o si tratta di epifenomeni,
cioè di stati o proprietà mentali che non hanno però alcuna causazione sul
corpo? Perché se si accetta l’eventualità dello zombie, che è ricordiamolo un individuo che ha il mio stesso
comportamento esterno, allora ne segue che per far ciò che faccio, scrivere di
coscienza, parlare, esprimere emozioni (esprimerle, non averle) e via dicendo,
non è affatto necessario avere degli stati qualitativi e di coscienza. E quindi
l’ipotesi che esistano gli zombi è implicata o compatibile con l’idea che gli
stati coscienti non abbiano alcun effetto sui nostri comportamenti fisici e i
nostri stati cerebrali. Infatti, se avessero un qualche effetto causale allora
il mio gemello zombie mostrerebbe, prima o poi, un comportamento divergente da
mio. E allora i difensori dell’importanza dei qualia starebbero rendendo plausibile l’epifenomenismo (che non è
certo un punto a favore per chi difende l’importanza della coscienza).
Possiamo accennare anche a qualche critica all’argomento delle inversioni.
L‘originario esperimento di pensiero di Locke
che suggeriva l’impossibilità di distinguere un soggetto le cui sensazioni
cromatiche fossero invertite rispetto alle nostre, concludeva al problema della
compatibilità di una eventuale inversione qualitativa con la tesi naturalistica
sulla coscienza. Come per il caso degli zombie, due individui che presentassero
inversione qualitativa pur avendo le medesime proprietà fisiche o biologiche,
dunque naturali, mostrerebbero l’insufficienza
delle spiegazioni naturalistiche a cogliere le differenze
fenomenologiche della coscienza.
Ora, per esempio, A.
Byrne (2008) nota che i tentativi di interpretare in termini empirici
un’inversione cromatica debbono essere però considerati fallimentari: non
esiste un perfetto isomorfismo nella rappresentazione qualitativa di una scena
cromatica quando si opera una
qualsivoglia inversione, tra le varie possibili, della medesima scena. Come
hanno anche messo in evidenza Hilbert e
Kalderon (2000) qualsiasi spettro è
qualitativamente asimmetrico, rendendo impossibile una inversione
perfetta. Essi infatti notano che le tre proprietà sulle quali si definisce
ciascun singolo colore – luminanza, saturazione e tonalità –possono essere
invertite in modi diversi, nessuno dei quali produce i risultati auspicati
dall’esempio (Gozzano, 2009, p. 97-98).
Critiche
all’argomento della conoscenza (e allo iato esplicativo)
Quali sono gli argomenti contrari ai qualia, alla coscienza fenomenica?
Ci sono studiosi che addirittura negano l’esistenza dei qualia, mentre altri li interpretano in
senso fisicalistico.
L’accesso privilegiato ai nostri stati mentali è rigettato
da vari studiosi. Un primo modo di criticarlo è indiretto e consiste nella
delegittimazione del concetto di coscienza come vago, confuso ed eterogeneo.
Tutta la tradizione psicologica, da Freud in poi, mostra come i giudizi
introspettivi siano spesso prodotti da confabulazioni. È la critica mossa anche
da Dennett, secondo il quale, molte volte, le persone inventano letteralmente i
propri stati mentali per spiegare il proprio comportamento in modi attesi o
accettabili, quindi tutti i resoconti in prima persona possono essere trattati
come utili finzioni.
Ma approfondiamo (sinteticamente, rifacendoci a Di Francesco
2002, p. 215-217) le critiche del noto filosofo della mente Dennett. Egli ha scritto sui qualia: “Nego che tali proprietà
esistano. Ma […] concedo di tutto cuore che sembra che i qualia esistano” (1991). Dennett ha oscillato tra l’eliminativismo
(che nega l’esistenza dei qualia) e
una posizione che, non negando la legittimità di parlare di stati di coscienza
(che sono realizzati da complesse attività cerebrali) nega però che tali stati
possiedano un carattere qualitativo, inteso come il possesso di qualità
intrinseche e non rappresentazionali. La sua idea è di smettere di tentare di
spiegare i qualia e di limitarsi a
farli fuori, non riducendoli a qualcosa d’altro, ma trattandoli come vere e
proprie illusioni. La negazione dei qualia
è del resto essenziale per la teoria funzionalistica di Dennett, che afferma
che il nostro io fenomenologico di fatto è solo un’astrazione cui non
corrisponde nulla di reale (in seguito, quando parlerò del problema
dell’interazione anima-corpo, tratterò della teoria funzionalistica). Secondo Dennett chi postula i qualia si basa sull’idea che gli stati
qualitativi devono essere qualcosa, ma ritenendo che la scienza abbia mostrato
che essi non possono essere oggetti esterni (non vi sono colori nel mondo, ma
solo radiazioni elettromagnetiche), allora ne deduce che siano oggetti interni, entità non fisiche
albergate nella nostra mente.
L’attacco di Dennett ai qualia
si basa su una sapiente misura di delegittimazione dei resoconti introspettivi,
critica delle concezioni ingenue di cosa siano i colori, i suoni, ecc.,
spiegazione (spesso in termini evoluzionistici) dell’apparente “ineffabilità” e
refrattarietà alle definizioni delle qualità secondarie, messe in ridicolo
dall’esistenza di cose come il modo
in cui una cantata inedita di Bach sarebbe stata vissuta dagli abitanti di
Lipsia nel 1725; ma soprattutto si incentra sulla critica alla possibilità di
un riferimento a opera del soggetto a un suo stato qualitativo privato e
incomunicabile.
Per Dennett i qualia
non hanno altro ruolo che quello di segnalare “un complesso di disposizioni”.
Secondo questa impostazione, cerca di mostrare come una serie di esperimenti
mentali volti a dimostrare la differenza tra stati qualitativi ed eventi
cerebrali si basino su “differenze impossibili da rilevare”, implichino
l’impossibilità di una “comparazione intersoggettiva dei qualia”.
Ovviamente la visione del linguaggio a cui fa appello, per
quanto autorevole, non è l’unica possibile. Comunque si voglia valutare la
strategia di Dennett, il suo esito è quello del riduzionismo eliminativo
rispetto ai qualia .
Anche sullo specifico “esperimento mentale di Mary” si sono
fatte diverse critiche.
Esso, nelle intenzioni di Jackson, mirerebbe a mostrare come
esistano delle “cose”, degli aspetti dell’esperienza, che non sono descrivibili
in termini fisici. La condanna del fisicalismo è radicale: la somma totale di
tutto quello che può dirsi del cervello (funzionamento, evoluzione, natura) non
potrà evitare di trascurare (e quindi lasciare inspiegati) la pruriginosità del
prurito, le fitte di gelosia, il gusto del limone, l’odore di una rosa.
L’argomentazione di Jackson è molto efficace sul piano
intuitivo, ma può essere criticata.
Dennett (1991) la definisce un cattivo esperimento mentale,
generato dalla sindrome dei filosofi: scambiare una carenza dell’immaginazione
per l’intuizione di una necessità. Per lui immaginare il possesso da parte di
Mary di tutte le informazioni fisiche rilevanti è un progetto così ridicolmente
immenso che nemmeno ci si può provare. Se Mary sapesse davvero tutto sulla
neurofisiologia, allora saprebbe anche quali sarebbero le proprie reazioni nel
caso di ogni particolare configurazione fisica assunta dal suo cervello in
presenza di un dato odore.
Una delle
varie strategie dei fisicalisti è quella di affermare che la soggettività
dell’esperienza cosciente non sarebbe altro che una manifestazione del fatto
che ciascuno vi si riferisce con il pronome personale “io” (Lycan, 1996; Tye,
1995). Se gli altri possono parlare di me, come del mio comportamento e dei
miei pensieri, nessuno però è in grado di comprendere ciò che sto facendo o
pensando quando dico: “Sto scrivendo queste frasi”. Ciò è inaccessibile a tutti
ad eccezione del soggetto, ma non si tratta di nulla di misterioso: è solo il
modo in cui opera il concetto di “io”; costituisce un dato di fatto che ogni
soggetto rappresenti la propria esperienza in modo privato.
Oppure i fisicalisti ribattono che Mary, uscendo dalla
stanza in bianco e nero, acquisisce soltanto un nuovo modo di comprendere
qualcosa che già conosceva.
Recentemente, anche il suo proponente Jackson ha ritirato il sostegno all’argomento. Jackson (2003) ritiene che Mary non apprenda nuove verità; verrebbe
qui utilizzato un concetto erroneo di esperienza sensoriale, da sostituire con
il rappresentazionalismo, la
posizione per cui gli stati fenomenici sono stati rappresentazionali.
Le teorie
rappresentazionali, di stampo naturalistico, riconoscono che i fenomeni
coscienti altro non sono che stati rappresentazionali: le teorie rappresentazionali
del “primo ordine” ritengono che si tratti di rappresentazioni che possiamo
usare direttamente nell’azione e che non comportano forme elaborate di
pensiero, mentre quelle di “secondo ordine” asseriscono che tali fenomeni
presuppongono un sofisticato apparato di riflessioni sui propri stati
interiori, che come tale non può che presentarsi in esseri dai pensieri
altrettanto sofisticati (per qui e il seguito riassumo Gozzano, 2009, p
100-114).
Nella sua risposta fisicalista, Loar (1990) ragiona come segue: assumiamo che gli stati fenomenici
siano in effetti stati fisici. Questi ultimi, tuttavia, possono essere
concettualizzati non solo il classico formato proposizionale, tipicamente
rappresentato da ciò che è scritto nei libri di Mary, ma anche attraverso forme
di esperienza diretta. Avere o fare esperienza, prosegue Loar, comporta una
concettualizzazione del tutto particolare, ossia l’uso di specifici “concetti
fenomenici”, come li chiama, i quali si riferiscono al carattere qualitativo
dell’esperienza e la cui acquisizione implica necessariamente un punto di
vista. Tali concetti fenomenici sono quindi di tipo riconoscitivo e operano
tramite espressioni indicali (ho provato questa
sensazione; vedo quel giallo senape)
palesi o implicite. Tuttavia, pur essendo riconoscitivi, si tratta pur sempre
di concetti, perché, per loro tramite, possiamo compiere inferenze e
ragionamenti di vario genere. Ad esempio possiamo affermare, o insegnare, che
se il pesce odora così allora è
marcio, se la cartina di tornasole diventa di questo colore allora è stata a contatto con una sostanza basica, e
via dicendo.
L’aspetto cruciale della risposta di Loar è che i concetti fenomenici e quelli classici di tipo
proposizionale vanno a cogliere la medesima proprietà del mondo, ovvero hanno
il medesimo referente, ad esempio il giallo senape, ma lo fanno sotto diversi
“modi di presentazione” e quindi del tutto indipendentemente gli uni dagli
altri. Quindi Loar riesce sia a
dimostrare che il caso di Mary non introduce nessuna nuova proprietà
essenzialmente non riducibile alle proprietà fisiche, sia a chiarire che in
effetti Mary acquisisce qualcosa di nuovo, ossia un concetto fenomenico legato
a un’esperienza, che non potrebbe acquisire se non trovandosi in quella
particolare condizione soggettiva nella quale si trova quando esce dalla stanza
in bianco e nero. Loar quindi restringe il caso di Mary al solo piano
epistemologico anestetizzando qualsivoglia conseguenza ontologica.
Così Loar giudica
il gap esplicativo: “Il problema del gap esplicativo origina da un’illusione.
Esso è generato dal mancato riconoscimento che possono esserci due modi
indipendenti di “cogliere direttamente” una sola essenza. Vale a dire,
afferrare l’essenza dimostrativamente esperendola e afferrarla in termini
teorici. L’illusione è quella della trasparenza
attesa: afferrare direttamente una proprietà dovrebbe metterci in contatto
diretto con la sua costituzione fisica e se ciò non avviene allora non c’è
costituzione fisica. L’errore sta nel pensare che afferrare direttamente
un’essenza sia trasparente, dopotutto un’aspettativa naturale” (Loar 1990, p.
609, cit. in Gozzano 2009, p.108).
[Gozzano presenterebbe ora altre critiche del
rappresentazionalismo (soprattutto di ordine superiore) che a giudizio di
alcuni autori (Carruther 2000, Shoemaker 1996 e 2003) consentirebbero una
risposta diretta ad efficace alle obiezioni di Chalmers sulla compatibilità tra
l’approccio fisicista e l’accettazione dei fenomeni coscienti, ma la
trattazione diventa troppo tecnica e specialistica e quindi troppo difficile
per il sottoscritto, che si limita a rimandare al libro per chi volesse
approfondire: Gozzano 2009, pp. 112-114] .
Comunque si valutino queste critiche agli “argomenti della
conoscenza” nella direzione del gap esplicativo tra visione fisicistica e gli
aspetti fenomenici della coscienza, altri importanti autori – per esempio,
Nagel, Searle, McGinn - rimangono convinti che non possiamo ora dare
spiegazioni complete, e forse (o probabilmente), non potremmo mai farlo. Nagel
e Searle, ritengono che il gap rimarrà tale per via del fatto che, sebbene la
natura degli stati qualitativi sia fisica, essi nondimeno, dato il loro
carattere soggettivo, non saranno mai afferrabili entro i canoni scientifici
dell’oggettività.
Si noti però che l’appello al mistero non implica per Nagel e per altri antiriduzionisti dei qualia, alcun connotato mistico: esso
sarebbe anzi compatibile con l’immagine scientifica del mondo, la quale
riconosce e prevede che qualunque specie naturale abbia delle capacità e dei
limiti cognitivi intrinseci: dice Nagel che noi uomini “rimaniamo parti del
mondo, con un accesso limitato alla natura reale del resto di esso e di noi
stessi” e “non c’è modo di dire quanta realtà si estenda oltre la portata
dell’oggettività presente e futura, o di qualsiasi altra forma di comprensione
umana” (1986). Secondo McGinn (1991),
convinto che sulla coscienza ignoramus et
ignorabimus, sebbene la natura del gap sia solo epistemologica, per
colmarla occorrerebbe una rivoluzione concettuale la cui portata è al di là
delle nostre portate cognitive. Quindi il mistero della coscienza è destinato a
rimanere tale sebbene in ultima analisi non si tratti che di proprietà fisiche.
La
possibile illusione del libero arbitrio
Non espongo qui tutte le critiche che un materialista
opporrebbe alla convinzione del libero arbitrio. Dico solo che il determinista
ritiene che la mente abbia una natura totalmente fisica, che operi in accordo
con le leggi causali che regolano la materia fisica, e così questo significa
che ogni stato attuale del cervello è causato da stati anteriori. In questo
modo la mente opera come ogni altro organo del corpo, come il cuore per
esempio. Il determinista ritiene che le azioni dell’uomo non siano veramente libere,
ovvero che esista un processo causale che porti necessariamente a fare certe
azioni, con il risultato che la credenza e la sensazione che abbiamo di essere
liberi sono un’illusione e un errore.
Quando, per esempio, pensiamo a che cosa mangiare per pranzo, il
determinista ritiene che la nostra “scelta” tra il pollo e il vitello sia di
fatto causata, con il risultato che quello che noi facciamo è il termine di un
processo causale. Possiamo pensare di fare una scelta libera e ovviamente
crediamo di essere liberi, ma in realtà non lo siamo. Il determinista non
pretende di sapere come funziona questo processo che è enormemente sofisticato
e complesso, ma scoprire questo funzionamento diviene per lui un programma di
ricerca futuro.
La
difficoltà dell’interazione mente-corpo
Come afferma Di
Francesco “oggi pochi filosofi si definirebbero dualisti in questo senso
così forte [cartesiano]. E con solide ragioni. La principale, com’è noto, è la
difficoltà di ipotizzare una qualche interrelazione tra sostanze ontologicamente
differenti come la res cogitans e la res extensa […]”(prefazione a Lavazza
2008, p. IX). Secondo il dualismo proprio, nell’esistenza mortale la persona è
composta di due sostanze strettamente collegate. Il problema deriva dal modo di
questa “unità”, e massimamente, dalle modalità di interazione tra mente e
corpo. Secondo Cartesio, si tratta di un’esperienza quotidiana, una semplice
constatazione, “come quando, dal solo fatto che vogliamo camminare, segue che
le nostre gambe si muovano”. Invece si
tratterebbe di un’aporia difficilmente colmabile.
Già a Cartesio era stato chiesto da Elisabetta di Boemia
“come l’anima dell’uomo può determinare gli spiriti del corpo per le azioni
volontarie”, dato che sembrano necessari contatto ed estensione per propagare
il moto; e si potrebbe aggiungere, come può la mente ricevere sensazioni
corporee? Cartesio aveva risposto che non è dimostrabile l’impossibilità
dell’azione reciproca tra sostanze distinte e che esiste una “terza nozione”
primitiva di unione tra esse, tale da consentirne la congiunzione e
l’interazione, quella della ghiandola pineale (l’epifisi), che, posta al centro
del cervello, per le caratteristiche di mollezza e di facilità ad essere
“inclinata”, può disporre gli spiriti animali (cioè gli elementi che portano
informazione e movimento nei canali del sistema nervoso) ad andare in una
direzione piuttosto che in un’altra.
Ma già Hobbes
obietterà che il moto non può provenire che dal moto e postulare leggi
psico-fisiche non chiarisce il mistero.
Il problema dell’interazionismo consiste nello spiegare in
che senso gli stati mentali (cedenze, desideri, intenzioni) risultino efficaci
casualmente, ovvero siano in grado di “fare la differenza” anche nel mondo
fisico. Si può infatti sostenere che ciò che non ha potere causale non serva ad
alcuno scopo o che addirittura non sia reale.
Cerchiamo di approfondire la questione (rifacendomi
ampiamente a Ferber, 2009). Questa
interazione di corpo e coscienza, di soma e psiche è una vecchia esperienza
dell’umanità e accessibile a ognuno. Un piede slogato per esempio può causare
dolore. Il dolore è qualcosa di psichico. Allo stesso modo la coscienza
dell’uomo può essere alterata a causa di un’azione esterna, come medicine,
droghe o lesioni al cervello. Ma anche la coscienza può agire sul corpo.
Abbiamo percezioni psichiche, come percezioni di dolore, di fame, di sete, che
mi possono indurre ad andare dal dentista, o a mangiare un pezzo di pane, o a
bere un sorso d’acqua. Già la mia volontà di piegare o distendere un mignolo
può piegarlo o distenderlo. Inoltre, come è noto, molte malattie sono causate
dalla psiche o sono di natura psicosomatica.
Il problema è capire come questo accade se supponiamo che
corpo e anima siano due sostanze diverse.
Come può infatti la mia volontà fare in modo che io mi
muova e faccia quindi un lavoro fisico e
abbia energia cinetica? Poiché l’atto di volontà stesso è un fenomeno della
coscienza e perciò per Cartesio ha dimensione ed energia zero, questa energia
non può provenire dall’atto di volontà. L’energia non può essere né generata né
annullata all’improvviso, ma può essere soltanto trasferita da una forma
all’altra, per esempio dal moto al calore. Ora però non si può attribuire alla
coscienza né moto né calore, cioè appunto energia: infatti come potrebbe avere
energia la mia coscienza inestesa?
Come un puro spirito, per esempio, un angelo, non può
guidare un’auto, così un fenomeno non-fisico non può comportarsi come causa di
un fenomeno fisico. Anzi, l’ambito delle azioni fisiche è chiuso dal punto di
vista causale. Vale a dire che nessun effetto fisico può avere una causa che
non sia essa stessa fisica. Si tratta del problema
della causalità mentale: la natura e la possibilità della causa mentale,
cioè la possibilità degli stati mentali di essere considerati cause genuine del
comportamento degli agenti cognitivi e dei soggetti umani in particolare. Il
problema nasce dalla difficoltà di conciliare l’efficacia causale degli stati
mentali con la visione del mondo elaborata a partire dalla scienza moderna,
secondo cui soltanto le leggi della fisica sono responsabili dei mutamenti che
avvengono nell’ordine naturale. Il problema della causalità mentale deriva dal
fatto che, essendo gli agenti cognitivi parti del mondo naturale, secondo la tesi
della chiusura causale, le cause del loro comportamento devono essere descritte
in termini fisici.
Tuttavia a quanto pare anche dei fenomeni non-fisici, cioè
psichici, come la mia volontà, possono agire sul mio corpo e sul mio
comportamento e perciò produrre un cambiamento nel mondo fisico.
Ma allora: come si può spiegare l’interazione tra lo
psichico e il fisico nonostante la chiusura del mondo fisico dal punto di vista
causale? O ancora, detto con un’immagine: come può un angelo guidare un’auto?
Come già detto, Cartesio aveva indicato nell’epifisi il
luogo dove la coscienza o l’anima poteva agire sul corpo: immaginava che ci
fossero degli “spiriti animali” che si muovevano atrraverso la ghiandola. E che
facessero da tramite tra anima e corpo. Ma rimarrebbe il mistero di come la
volontà immateriale possa influire sugli spiriti animali materiali, affinchè
questi si muovano: la coscienza non può dare un urto alla ghiandola pineale per
muovere con esso gli “spiriti”.
Un tentativo odierno di interazionismo è del neurofisiologo J. Eccles (1903-1997), dualista e
interazionista, cioè sostiene sia il dualismo di cervello e coscienza sia la
loro interazione. Eccles considera la mente analoga o identica a un “campo
probabilistico” della fisica, cioè quel concetto definito dalla distribuzione
di una certa quantità fisica, come la temperatura, la densità della massa,
l’energia potenziale su diversi punti dello spazio. Ora, (tralasciando tutta la
descrizione tecnica), se la mente umana è analoga al campo probabilistico, come
può essa produrre i cambiamenti di probabilità nei processi del cervello? E se
invece la mente umana fosse il campo probabilstico, come può possedere la
prospettiva in prima persona e l’intenzionalità?
Non si può non rimproverare a Cartesio e ad Eccles che da
una parte introducono la mente come una causa immateriale, dall’altra però,
spiegano il movimento del corpo umano con cause materiali o fisiche, cioè gli
“spiriti animali” da un lato, o il
“campo probabilistico” dall’altro.
Lasciano ancora senza risposta la questione di come la mente
possa influenzare il corpo, e viceversa.
Per le posizioni materialistiche invece non ci sono questi
problemi (o sono più ridotti).
Se partiamo dal materialismo
classico, dobbiamo menzionare innanzitutto Democrito, secondo cui l’uomo è nient’altro che un’aggregazione di
atomi, e quindi neanche l’anima o la mente sono qualcosa di immateriale, ma di
materiale. Nell’età moderna ricordiamo La
Mettrie (1709-51) secondo cui l’uomo consiste soltanto di materia e il
pensiero, o la coscienza, sembra essere una proprietà della materia. A
differenza di Cartesio, dal fatto che la coscienza dipende dal corpo egli non
solo trae la conclusione che il corpo esercita un’azione sulla coscienza, ma
anche che la coscienza è una proprietà del corpo. Il suo è un materialismo
riduzionista e monista. Per lui “l’uomo è una macchina, e in tutto l’universo
c’è una sola sostanza diversamente modificata”: la materia si trova in forma
inanimata, animata e cosciente.
In epoca attuale hanno riproposto questo materialismo
riduzionista i fondatori del materialismo australiano J.J. Smart (1920) e U.T.
Place (1924-2000). Come il fulmine è una scarica elettrica, così, secondo
Smart, un processo di coscienza consiste in un processo cerebrale. Secondo lui
l’uomo si compone “di un’enorme organizzazione di particelle fisiche”, ma non
ci sono “oltre a ciò anche sensazioni o stati di coscienza”. Anche il filosofo D. Lewis (1941-2001) è dell’idea che “il
mondo è come la fisica dice che è, e non c’è nient’altro da dire”, ovvero non
c’è nient’altro da aggiungere a quel che dice la fisica sull’uomo. Anche il materialismo biologico di Searle sostiene un’ipotesi affine, che
però coinvolge esplicitamente la biologia: “La coscienza è una proprietà di
sistema causalmente emergente. In particolare, è un a ‘proprietà emergente’ di
determinati sistemi di neuroni nello stesso senso in cui solidità e liquidità
sono ‘proprietà emergenti’ dei sistemi di certe molecole” (1994). Per questi
materialismi non compare il problema dell’interazione anima – corpo, perché la
coscienza stessa è qualcosa di materiale o una proprietà della materia.
Tuttavia neanche il materialismo può spiegare quale parte del cervello sia la
portatrice della “materia della coscienza”: Searle dice che “Il senso del
mistero deriva piuttosto dal fatto che, attualmente, non soltanto non sappiamo
come il cervello funziona, ma non abbiamo nemmeno una idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per
causare la coscienza” (1998). Un angelo potrebbe dunque guidare un’auto, perché
egli stesso non è un essere spirituale, anche se oggi non comprendiamo ancora i
“particolari” dell’interazione.
Una nuova versione del materialismo è il comportamentismo logico o filosofico, di
cui uno dei principali esponenti è stato G.
Ryle (1900- 76). Per Ryle dal concetto cartesiano di spirito si è fatto un
mito che si è consolidato in un dogma, “il dogma dello spettro nella macchina”.
Dall’attività di fenomeni psichici inferiamo dunque erroneamente l’esistenza di
uno spirito nella nostra “macchina”, allo stesso modo che il contadino, a causa
del chiasso nella sua camera, di cui non conosce le cause, suppone l’esistenza
di un fantasma. Perciò, secondo Ryle, sarebbe un errore categoriale dire che la
coscienza sia una cosa, anche se questa non fosse una cosa estesa, ma una cosa
pensante: “parlare della mente di qualcuno è come parlare delle sue abilità,
tendenze e inclinazioni a fare o subire
certi tipi di azioni”. Quindi le frasi su fatti psichici non trattano di cose
presenti in un luogo, per esempio di “cose nella testa”, ma si possono tradurre
in frasi su disposizioni, cioè inclinazioni o tendenze. Se conosciamo
perfettamente una lingua straniera, per esempio il francese, non vuol dire
anche che parleremo sempre il francese. Significa solo che, ove sia necessario,
possiamo parlare francese. Perciò le
frasi sugli stati di coscienza, a un’analisi logica, si rivelano come frasi che
non affermano singoli fatti, ma indicano certe tendenze del comportamento del
corpo umano. Ora, secondo Ryle, il comportamentismo logico risolve il problema
corpo-anima: se il problema corpo-anima si può interpretare come distinzione di
tipi tra disposizioni e attività, allora scompare il mitico conflitto. Un
angelo, cioè per Ryle, uno spettro, può dunque guidare un’auto, perché, secondo
l’analisi logica delle frasi nelle quali parliamo di lui, egli non è un essere
spirituale non osservabile, ma la disposizione di un auto a viaggiare.
Altra versione del materialismo è il materialismo funzionalistico o funzionalismo. Fu fondato dai filosofi W. Sellars (1912-89) e H.
Putnam (1926). Per il funzionalismo gli stati di coscienza non sono
qualcosa di immediatamente dato. Il loro darsi immediato è piuttosto un mito,
il “mito del dato”. Gli stati di coscienza nascono solo per il fatto che
oggettiviamo i significati delle parole
con le quali esprimiamo le impressioni sensoriali, e poi diamo a questi
significati oggettivati il nome di “stati di coscienza”. Perciò per il
funzionalismo gli stati di coscienza non hanno una esistenza reale ma solo
semantica: sono cioè i significati oggettivati delle parole con le quali
designiamo i nostri stati di coscienza. La nostra coscienza non consiste in
nient’altro che nel calcolare con i significati di simboli linguistici. Al
tempo stesso attribuiamo a questi significati un ruolo funzionale. A partire
dal saggio di Putnam, Menti e macchine (1960), il
funzionalismo impiega volentieri anche il paragone con un calcolatore. Gli
stati di coscienza sarebbero quindi il software
o il programma, mentre gli stati fisici sarebbero l’hardware con cui il programma viene fisicamente realizzato. Ora,
come l’hardware di un calcolatore mette in moto il software col trasferimento
di energia fisica, così il corpo produce gli stati di coscienza col
trasferimento di energia fisica. Inoltre come il software di un calcolatore può
essere realizzato in un hardware diverso (per esempio in uno meccanico o uno
elettrico), così noi, riguardo alla nostra “composizione” siamo plastici,
potremmo anche consistere di un “materiale” totalmente diverso, perché per il
funzionalismo, la nostra coscienza rappresenta soltanto una determinata forma
che non è legata ad alcuna materia specifica , similmente ad Aristotele. Per
Aristotele l’anima non è una sostanza ontologicamente separata dal corpo, ma né
è la forma, ciò che permette alla materia del corpo vivente di esercitare quei
caratteri che lo rendono tale, rendono animato un corpo. Avere un’anima
significa essere un organismo biologico in grado di svolgere le proprie
funzioni vitali. Contro Platone con la sua idea di anima e corpo separati,
Aristotele dice che l’anima è impossibile che preesista a o sopravviva al
corpo; essa non è il genere di cosa che esiste indipendentemente: come
potrebbero sopravvivermi le mie abilità, il mio temperamento, il mio carattere?
La posizione di Aristotele concepisce la mente in termini di capacità piuttosto
che di entità.
Così il funzionalismo risponde alla domanda decisiva del
problema corpo-anima sull’interazione tra il mondo psichico e il mondo fisico.
Gli stati di coscienza infatti non sono nient’altro che un software realizzato
fisicamente in un hardware, per cui non si pone il problema di come sia
possibile una causazione mentale, poiché si tratta di una trasmissione di
energia fisica. La coscienza e i suoi qualia
non sono né identici agli stati cerebrali, né possono ridursi a una
disposizione del corpo. Essi hanno piuttosto una propria specie di esistenza,
sebbene non reale, ma semantica. Un angelo dunque può guidare un’auto, perché
egli può essere concepito come un “oggetto” semantico o come un
“programma-software” che guida un’auto.
Anche per il monismo
anomalo del filosofo americano di D.
Davidson i fenomeni fisici sono identici a quelli fisici, anche se le
parole che usiamo per descrivere i fenomeni psichici non sono riducibili al
vocabolario della neurofisiologia o della fisica.
Se diciamo che i fenomeni psichici stanno in interazione con
quelli fisici, allora devono esserci leggi rigorose che collegano tra di loro i
fenomeni psichici e fisici, leggi che riferiscono l’uno all’altro come causa ed
effetto i due fenomeni. Ora da tali leggi si devono poter trarre precise
previsioni in modo che i fenomeni psichici si possano esattamente prevedere
mediante quelli fisici. Ma per Davidson, non vi sono leggi psicofisiche
rigorose, cioè leggi che descrivano precisamente, esplicitamente e il più
possibile senza eccezioni l’interazione tra fenomeni psichici e fisici.
Parimenti non c’è una legge per cui un certo dolore psichico comporta sempre
una certe specie di emicrania o
viceversa. Soltanto le leggi fisiche possono valere precisamente,
esplicitamente e in tutti i punti spaziali e temporali, anche se queste leggi,
come nella meccanica quantistica, sono di natura statistica. I fenomeni
psichici, come per esempio i dolori, non appartengono alle specie naturali le
cui proprietà, come le proprietà di tali specie, per esempio il colore verde
degli smeraldi, possono proiettarsi nel futuro. Ma senza tali progetti
proiettabili non si possono formulare precisi enunciati di legge, ma solo vaghi
enunciati di regolarità. Perciò l’affermata interazione tra fenomeni fisici e
psichici non può essere descritta precisamente mediante leggi psicofisiche, ma
soltanto mediante leggi fisiche. Ciò significa che noi descriviamo fisicamente
i fenomeni psichici. Ne consegue per Davidson che il fenomeno psichico diventa
fisico.
Davidson sostiene un monismo, ma non un monismo sostanziale,
quanto piuttosto un monismo della spiegazione, secondo cui il mondo è
spiegabile soltanto con le leggi fisiche. Questo monismo però è un monismo
anomalo, in quanto contrariamente al monismo materialistico, contesta la
possibilità di leggi psicofisiche rigorose.
I fenomeni psichici sono certamente identici a quelli fisici, però visti
alla luce di un’altra descrizione. Per comprendere il loro carattere anomalo
Davidson ha coniato il concetto della sopravvenienza
dello psichico sul fisico: “sebbene neghi l’esistenza di leggi psicofisiche,
[…] le caratteristiche mentali sono in un certo senso dipendenti dalle, o
sopravvenienti alle, caratteristiche fisiche. Questa sopravvenienza può essere
così intesa: non ci possono essere due eventi simili sotto tutti gli aspetti,
ma differenti per qualche aspetto mentale; oppure: un oggetto non può cambiare
in qualche aspetto mentale senza cambiare in qualche aspetto fisico. Questa
specie di dipendenza o sopravvenienza non comporta la riducibilità mediante una
legge o una definizione”.
In altre parole ciò significa: poiché non ci sono leggi
psicofisiche rigorose, non c’è neppure una scienza esatta della mente. Il
concetto di sopravvenienza dei fenomeni psichici su quelli fisici esprime sia
la dipendenza dei fenomeni psichici da quelli fisici, che la loro eccedenza
rispetto ad essi (eccedenza concettuale a quelli fisici, poiché non si possono
ricondurre a quelli fisici). Nonostante l’identità o l’unità dello psichico con
il fisico per i monisti anomali lo psichico viene concepito in modo
inevitabilmente diverso dal fisico. Secondo il monismo anomalo, dunque, un
angelo è identico a un essere fisico e come essere fisico può anche guidare un
auto. Però il nostro linguaggio mentalistico descrive l’angelo in un modo che è
“eccedente” rispetto al linguaggio fisico e neurofisiologico.
In conclusione, è vero che sono stati compiuti tentativi da
parte dei dualisti di risolvere o, meglio, ridimensionare il problema
dell’interazione anima-corpo – per esempio dicendo che è anche vero che non
comprendiamo nemmeno come i processi casuali operino tra oggetti fisici, o
chiedendo perché non potrebbero interagire cose che si trovano in regni
metafisicamente diversi, oppure facendo ricorso alla teoria quantistica
contemporanea (che ha svelato un mondo in cui si hanno azioni a distanza e
altre connessioni causali apparentemente “devianti”), ecc. – ma tale problema
rimane ed è una delle pietre d’inciampo per il dualismo. Anche il noto dualista
Swinburne non fa che confermare tale
problematicità quando afferma che “l’interazionismo è un fatto evidente, che
accade continuamente, ma noi non siamo onniscienti e non sappiamo spiegarlo”
(in A. Lavazza 2008, p. 56).
Il
problema della (in)dipendenza della mente(anima) dal cervello
Oltre al problema dell’interazione mente-cervello c’è anche
il problema della dipendenza della mente dal cervello e dai suoi stati. La
mente ha bisogno del cervello per l’informazione sul mondo fisico nonché come
canale per agire sul corpo e quindi sulla realtà esterna. La ricerca
neuroscientifica mette in evidenza con sempre maggior precisione la
correlazione empirica tra stati cerebrali e funzioni mentali. Droghe e farmaci,
il sonno, patologie e lesioni, manipolazioni di vario tipo (ipnosi e
stimolazione magnetica transcranica) alterano sia la fenomenologia del soggetto
sia le sue manifestazioni esteriori. E una serie di evidenze cliniche indica in
modo sempre più dettagliato le perdite parziali o gli apparenti mutamenti di
identità personale che discendono da malfunzionamenti di specifiche aree
cerebrali. Una volta che tale dipendenza di mente-cervello viene precisata
minuziosamente, diventa sempre più difficile mantenere l’indipendenza della
mente dal cervello e dal corpo, indipendenza che costituisce l’elemento
distintivo della posizione cartesiana. La mente è “la cosa che pensa”, e forse
è così, ma sembra che lo sia soltanto quando è sostenuta in modo assai
complesso dai processi cerebrali.
Naturalmente il dualista dirà che il cervello è necessario
ma non sufficiente affinchè si dia un soggetto con le proprietà
mentali-fenomeniche peculiari della coscienza. Ma la sfida del naturalismo è
proprio di eliminare la differenza tra il piano empirico e quello filosofico.
Si dice che, se il dualismo è vero, l’anima dovrebbe essere
in grado di esistere per conto suo e avere una vita mentale senza l’aiuto del
corpo. Tuttavia, come dice il filosofo T.
Nagel, una vita dopo la morte potrebbe
essere possibile se il dualismo fosse vero, perché potrebbe anche non essere possibile,
poichè la sopravvivenza dell’anima, e il permanere della sua coscienza,
potrebbero dipendere interamente dal sostegno e dalla stimolazione che essa
ricava dal corpo in cui è alloggiata. Quindi, anche se l’anima esistesse, non è
detto che sia immortale, e potrebbe perire con la morte del corpo.
Il
problema del rapporto tra evoluzione e anima
Un’ulteriore punto controverso riguarda il rapporto tra
l’evoluzione biologica e il concetto di anima. Se si accetta che l’uomo, in
quanto essere vivente, proviene da un unico progenitore unicellulare, dal quale
si è differenziato grazie al processo biologico darwiniano di mutazione e
adattamento, si pone l’interrogativo sul modo in cui l’elemento mentale ha
fatto la sua comparsa nella storia evolutiva della specie homo sapiens sapiens.
Solo l’emergenza della proprietà mentale sembra immediatamente compatibile con
la storia naturale, mentre il dualismo cartesiano deve fare i conti con il
problema della differente origine delle diverse sostanze.
Resta infatti un enigma il modo in cui le anime create in
forma speciale (e individuale) dovrebbero adattarsi alla storia
evoluzionistica. Dopo che un organismo di nuovo tipo si è evoluto, Dio crea per
esso un’anima con facoltà potenziate in modo da pareggiare lo sviluppo fisico
dell’organismo? O le anime di nuovo modello vengono prima e svolgono un ruolo
nello sviluppo fisico dell’organismo? Nessuna prospettiva sembra
particolarmente attraente o plausibile.
E poi il problema per i dualisti è anche quella di
specificare quali tra le altre creature oltre l’uomo, se ve ne sono, da quelle
più “basse” a quelle più “alte” nella progressione dell’evoluzione – dai
batteri, agli insetti, alle piovre, ai cani, alle scimmie – possiederebbero
anime immateriali. Sfortunatamente sembra che qualunque risposta suoni
implausibile o imbarazzante. Per Cartesio solo gli uomini avevano l’anima, non
gli animali, perché non vi sarebbe ragione di crederlo per qualche animale
piuttosto che per tutti. Ma tale ipotesi oggi ha pochi difensori. Ma anche
attribuire le anime solo agli animali “superiori” – diciamo i mammiferi e gli
uccelli – suona arbitrario. D’altra
parte, più si scende lungo la scala degli esseri viventi, e meno il quadro
diventa credibile (si dovrebbe pensare che Dio crei anime individuali per vermi
e parassiti intestinali).
CONCLUSIONI SUL DUALISMO
Considerate le diversissime opinioni degli esperti sulla
questione dell’esistenza indipendente dell’anima-mente (o coscienza) non è
facile trarre delle conclusioni ponderate su questo argomento.
Si può senz’altro dire che finora, tutti i tentativi di
spiegare la coscienza, con le sue caratteristiche peculiari (privatezza,
soggettività, qualia, ecc.) in
termini scientifici, lasciano insoddisfatti, non sono completi. D’altra parte,
anche una concezione dell’anima-coscienza come indipendente dal corpo
(cervello) va incontro a numerosi problemi.
Forse in futuro
sapremo spiegare in modo più completo la coscienza (in termini scientifici o
comunque razionali), ma per ora siamo lontani da questo traguardo. Per ora la
coscienza rimane ancora un mistero,
che potrà essere risolto dall’uomo o forse no, e risolto in senso naturalistico
oppure spirituale. Quale sia l’ipotesi più plausibile, per un profano come il
sottoscritto, non è dato saperlo. Mi limito a concludere che rimane ancora possibile, anche se certamente
problematica, una spiegazione metafisica o spirituale dell’anima.
Quindi se pensiamo che “io
sopravviverò alla morte se e solo se la
mia anima sopravviverà alla morte”(A), questa convinzione dipenderà dalla
verità o meno del dualismo. Se il dualismo è vero, l’anima potrebbe essere in
grado di esistere per conto suo e avere una vita mentale senza l’aiuto del
corpo. Ma se il dualismo non è vero, e i processi mentali si verificano nel
cervello e sono interamente dipendenti dal funzionamento biologico del cervello
e del resto dell’organismo, allora la vita dopo la morte del corpo non è
possibile, oppure richiederebbe la restaurazione della vita fisica (come
avverrebbe nella risurrezione).
Ma c’è un’altra possibilità. Alcuni
filosofi hanno rifiutato di pensare alla sopravvivenza solo in termini di
sopravvivenza dell’”anima”, perché secondo loro la mia sopravvivenza consiste,
in ultima analisi, nella sopravvivenza di “informazione”, piuttosto che nella
sopravvivenza dell’anima in cui quell’informazione è immagazzinata. Questi
filosofi fanno riferimento alla sopravvivenza del mio software, anziché alla sopravvivenza del mio hardware (materiale o immateriale che sia). Questi direbbero
alternativamente ad A: “sopravviverò alla morte se i miei stati mentali ante-mortem sono continui con gli stati mentali di
una persona esistente dopo la mia morte” (B). Il filosofo J. Hick parla di trasferimento di informazione. Se la sopravvivenza
dell’informazione immagazzinata nel mio cervello basta per la mia
sopravvivenza, che ragione c’è per supporre che Dio non farà in modo che io sopravviva alla mia morte, mediante la
ricollocazione di quella informazione in un altro cervello o in un altro
“supporto” (materiale o immateriale)? Anche il teologo C. Molari ritiene che se la nostra identità corrisponde ad una
determinata struttura cerebrale, la rete di connessioni sinaptiche, essa
potrebbe essere “registrata” o trasferita su un supporto non umano e consegnate
all’eternità: si avrebbe così una vera e propria immortalità dell’“io”.
Un altro problema sull’immortalità
dell’anima, e quindi sull’esistenza indipendente dell’anima, è quello di sapere
che tipo di vita sarebbe quella di un’anima senza sostrato fisico.
Come possiamo immaginarci una
esistenza incorporea?
J.
Hospers
ci invita ad immaginare un’esistenza solo mentale, eliminando del tutto il
corpo. Una notte andate a dormire, alcune ore dopo vi svegliate, vedete il sole
penetrare dalla finestra, l’orologio fa le otto, c’è lo specchio dall’altra
parte della stanza, e vi domandate cosa farete oggi. Ancora a letto, guardate
in basso per vedere dov’è il vostro corpo, ma non c’è più. Coperte e lenzuola
sono lì, ma sotto non c’è alcun corpo. Sbigottiti, guardate lo specchio e
vedete riflessi il letto, i cuscini, le coperte, ma non il vostro viso, il
vostro corpo. Cercate di toccarvi, ma non c’è niente da toccare. Una persona
che entrasse in camera non sarebbe in grado di vedervi o toccarvi. Cercate di
andare verso lo specchio, ma non avete piedi. Siete in grado di avere le
esperienze visive che avreste avvicinandovi allo specchio, ma ovviamente non
avendo un corpo, non potete camminare. Siamo così riusciti ad immaginare
un’esistenza senza corpo? Non del tutto. Ci sono riferimenti nascosti al corpo
anche in questa descrizione. Dite di vedere…con gli occhi? Ma non avete occhi.
Guardate verso i piedi del letto… ma come potete guardare in una direzione e
poi in un’altra se non avete la testa? Non potete toccare il vostro corpo
perché non c’è, e del resto, con cosa lo tocchereste? Avete allungato le dita?
Ma ovviamente non avete dita… né mani, né braccia, nient’altro. Vi muovete, o
sembrate muovervi, verso lo specchio…ma cos’è ciò che si muove o pare muoversi?
Non il vostro corpo, che non avete. Vi avvicinate alle cose, ma con cosa? Con i
piedi? Non avete piedi. Insomma, noi ci muoviamo nel mondo usando i cinque
sensi, ma se non li abbiamo, cosa possiamo fare o sperimentare o percepire?
Resta qualcosa del concetto di esistenza incorporea?
Cartesio credeva di essere una
mente, un “nucleo cosciente”. Il corpo è soltanto un rivestimento esterno,
sosteneva Agostino, che viene eliminato con la morte. Esistono pensieri, e
siccome i pensieri non possono esistere senza un essere pensante, allora esiste
un essere pensante. E che cos’è un essere pensante, e come può lui/lei/esso
essere distinto da ogni altra cosa? Si può cercare di immaginarlo all’interno,
poniamo, di una comunità di altre menti o spiriti? Ma privo di un corpo, come
potrebbe tale spirito avere anche la più elementare delle interazioni con il
mondo? (Come sarebbe possibile anche solo distinguere lui o lei da esso?). E
come potrebbero fare qualcosa queste menti incorporee?
Il problema consiste soltanto nel
fatto che siamo abituati a pensarci come aventi un corpo, e non siamo in grado
di superare quest’abitudine? È dovuto solo alla nostra scarsa immaginazione a
pensare ad alternative forme di vita, magari superiori alla nostra attuale -
per esempio come immagini nei sogni, telepaticamente interagenti? Oppure si
tratta di problemi concettuali, o logici? Queste domande restano.
Inoltre, c’è il problema se questo
tipo di vita incorporea sarebbe o no in continuità
con la nostra identità, visto che finchè eravamo in vita c’era un’intima
relazione tra i nostri stati mentali e le condizioni corporee. Non pare infatti
sia solo una circostanza accidentale della nostra esistenza il fatto che siamo
creature dotate di un corpo e un sesso, che usano il linguaggio, leggono,
sentono e interagiscono con gli altri. Una vita di anime disincarnate sarebbe
un tipo di vita molto diversa da quella che abbiamo ora e non è chiaro come una
tale vita potrebbe essere una continuazione di quella che stiamo vivendo. In
altre parole, quell’anima incorporea sarò ancora io? Esistono diverse ipotesi speculative per superare tale
problema, nessuna del tutto convincente, ma nemmeno del tutto confutabile,
pertanto la questione rimane ancora aperta.
Infine, tale eventuale esistenza,
sarà significativa per noi? Per esempio
B. Croce diceva che noi non abbiamo
bisogno di Dio e della trascendenza, perché desideriamo soltanto le cose che
abbiamo vissuto in questa vita. Quindi, se subiamo qualche grave lutto e
proviamo un dolore pungente, ad esempio, per il bambino o la sposa che abbiamo
perduto, in realtà non desideriamo ritrovare il bambino angelicato, o baciare
labbra che non baciano. Noi vogliamo il bambino in carne ed ossa, che faceva il
birichino con noi; vogliamo la donna che abbiamo amato, ma non la vogliamo
trasfigurata o “spirituale” o impercettibile.
Nondimeno, in tutte queste
considerazioni sulle presunte caratteristiche di una esistenza incorporea,
dobbiamo stare attenti a non trasporre i nostri schemi spazio-temporali umani
in un’altra dimensione, trascendente. Certi giudizi sulla vita eterna
(dell’anima o del nostro io) sono ingenui e fuorvianti (come, per esempio, la
noia che ne deriverebbe), e tradiscono la nostra limitata umana prospettiva
spazio temporale. È chiaro che per noi una eventuale vita incorporea (o come
vedremo poi, anche corporea) post mortem,
rimane qualcosa di irrappresentabile, inafferrabile, indeterminabile, inconoscibile.
Lascia quindi aperte tante possibilità, ma anche tante incertezze.
Un argomento recente per
l’immortalità dell’anima è quello proposto dal teologo V. Mancuso (“L’anima e il suo destino”, 2007). Mancuso, partendo
dal presupposto che tutto il reale sia energia, e che tutto il cosmo tenda ad
una maggior ordine e complessificazione, intende l’anima spirituale dell’uomo
come il livello più elevato di ordine
dell’energia che noi siamo. Inoltre ritiene che sulla base dell’intrinseca
tendenza all’ordine - ordine garantito in ultima analisi da Dio che agisce nel
mondo all’interno della natura solo mediante un impersonale principio
ordinatore che procede da lui e che a partire dal puntino cosmico del big bang
ha portato alla vastità della materia, da questa alla vita, da questa alla
complessità dell’intelligenza, e da questa alla vita morale come bene e
giustizia – non sia implausibile pensare che l’ultimo e più perfetto degli
stadi raggiunti dal cammino cosmico, cioè la vita morale e spirituale che a
volte appare negli uomini, possa produrre un’ulteriore forma di vita, in uno stadio superiore dell’essere a noi
ignoto, la quale, dopo la morte del corpo, continui a prescindere dal sostrato
fisico che l’ha prodotta.
Il problema in questo approccio è
quello inerente la plausibilità o meno dell’argomento
teleologico, a cui rinvio per la valutazione. Mancuso infatti presuppone la
finalità dell’evoluzione fino a questo punto, cioè fino alla coscienza
dell’uomo in grado di darsi al bene e alla spiritualità, cosa che può essere
ritenuta più o meno plausibile ma in ogni caso non è dimostrabile. Ammesso
dunque che fin qui siamo arrivati non solo per caso e necessità, ma per volontà
di un Dio che si è servito di un principio ordinatore, occorre poi postulare un
ulteriore salto, e cioè che sia possibile e, se è possibile, che si
concretizzi, l’ulteriore evoluzione verso una forma di vita spirituale
immortale.
2.
REINCARNAZIONE
La dottrina della reincarnazione
concerne la rinascita dell’anima o dell’”io” in una serie di reincarnazioni,
fisiche o soprannaturali, in genere di natura umana o animale (ma talora anche
divina, angelica, demoniaca, vegetale o astronomica, cioè associata a sole,
luna, stelle). Quindi presuppone generalmente l’implicita concezione della
permanenza dell’anima come sostanza
(almeno nell’induismo) o comunque del software
che registri le informazioni dell’“io”, con tutte le possibilità e i
problemi visti precedentemente.
Questa credenza è presente, in una
forma o nell’altra, nelle civiltà a livello etnologico e prive di scrittura di
ogni parte del mondo, soprattutto nelle culture indigene dell’Australia
centrale e dell’Africa occidentale, dove in genere risulta associata col culto
degli antenati. Forse quindi tale credenza sorse contemporaneamente alle origini
della stessa cultura umana. Ma la dottrina della reincarnazione ebbe
particolare sviluppo nell’India antica e in Grecia. In India tale dottrina è
strettamente legata all’insegnamento e alla pratica dell’Induismo e del
Buddhismo, del Giainismo e alle dottrine Sikh (una sintesi ibrida di Induismo e
di Islamismo, fondata nel XV sec dal guru Nanak) e inoltre dal Sufismo (una
corrente mistica dell’islamismo). Nell’antica Grecia, l’idea della
reincarnazione è associata soprattutto alle tradizioni filosofiche di Pitagora,
Empedocle, Platone e Plotino e nel culto misterico di Orfeo. Tale dottrina si
incontra ancora in alcune religioni del Vicino Oriente antico, come ad esempio
nel culto dei faraoni dell’antico Egitto, negli insegnamenti del manicheismo, e
in tempi moderni, nella Teosofia e nella psicologia di pensatori come C.G.
Jung.
Anche oggi la reincarnazione è ormai
diventata una alternativa importante alla risurrezione cristiana tra coloro che
credono in una vita dopo la morte. È importante distinguere però tra la
concezione della reincarnazione dell’India e quella che si trova spesso in
Occidente.
Nella tradizione induistica tale dottrina esprime l’esperienza della
dolorosa sottomissione dell’uomo alla legge cosmica del divenire e del passare
di ogni vita. Da tale legge non sono esentati neppure i morti. Neppure la vita
felice nell’aldilà (quale ricompensa per una vita terrena buona) è stabile e
pure essa può andar perduta a motivo di una nuova morte. Perciò l’anima o l’io
deve di nuovo nascere un’altra volta dopo una nuova morte, e così via. Il fine
consiste nel diventare prima o poi colui che “non ritorna più”, cioè nel
raggiungimento della definitiva liberazione dal ciclo del morire, nascere,
perire di nuovo, nascere di nuovo, ecc.. Indissolubilmente legata a tale
dottrina vi è l’idea del karma, del
legame e del condizionamento esistenti tra le azioni e le loro conseguenze
operanti quasi alla stregua di una legge naturale. In altre parole, secondo
questa concezione, è in vigore nel mondo una causalità etica della
rimunerazione, in quanto ogni azione produce inevitabilmente i propri effetti
(positivi o negativi) determinando per es. il carattere personale, la fortuna o
la sfortuna, o lo stato sociale di un individuo. Tale karma fa sentire i suoi
effetti anche al di là della morte, non permettendo di pervenire alla pace
neppure in quella condizione. Solo dopo aver estinto tutto il karma per la via
della conoscenza, o dell’azione spassionata, o dell’amore pieno di dedizione
per Dio, l’individuo è finalmente liberato dalla connessione tra il fare e le
sue conseguenze esistente nel mondo, e il più delle volte sperimentata come
dolorosa, perviene alla pace e trova la sospirata stabilità.
Nella versione occidentale invece viene recuperato l’elemento
positivo–attivo, cioè la progressione verso la più alta realizzazione. L’idea
fondamentale è che se nell’uomo è insito qualcosa di potenzialmente divino,
esso deve svilupparsi sul relativo piano, nel tempo e nello spazio, finchè ha
realizzato la sua vera natura. Poiché una sola vita umana è generalmente troppo
breve ci vuole a questo scopo una serie di vite. In un certo senso la dottrina
della migrazione delle anime completa così la dottrina dell’evoluzione, cui
aggiunge una dimensione spirituale. Senza negare la dottrina del karma, questa
versione occidentale considera che la “legge” non sia tutto e che la dottrina
della reincarnazione non deve guardare solo indietro per spiegare la nostra
condizione attuale con quello che si è fatto precedentemente, ma guarda anche e
soprattutto avanti, al punto in cui spezziamo tutte le catene e diventiamo una
sola cosa con la realtà divina.
Ma su che cosa si fonda, o come si giustifica, tale
dottrina, e a quali critiche può essere soggetta? Analizziamo gli argomenti più
importanti.
a. il suo carattere “naturale”: la morte umana
viene inserita nel ciclo dei naturali “ritmi di oscillazione del vivente”, essa
è solo un polo nell’oscillazione avanti e indietro tra le più diverse polarità
della vita (inspirare ed espiare, veglia e sonno, giorno e notte, estate e
inverno, fioritura e appassimento, bassa e alta marea) e perciò pure la morte
deve continuamente fare spazio all’altro polo, cioè alla rinascita. Quindi
anche la vita e la morte degli uomini sarebbero solo un caso particolare della legge
universale del ritmo naturale (soprattutto delle piante), fatto di vita, di
morte e di vita nuova. In altre parole, la natura e la sua ritmica così
costante sono elevate a modello anche dell’interpretazione della vita umana. La
critica fatta a questa argomentazione è che la morte e la vita umana è sì parte
della natura fisica ma anche se ne differenzia quando si considera la persona
come unica ed irripetibile, la sua libertà e la sua storia personale: non si
banalizza la persona e non la si riduce a un semplice momento del passaggio in
seno al tutto dei ritmi naturali della vita? Può “la vita”, l’avanti e indietro
della naturale “corrente della vita” assegnare realmente a un essere personale,
che è dotato di autocoscienza e di libertà, un senso ultimo e definitivo al di
là della sua morte? Una così fatta visione dell’uomo, pur proponendosi, nella
sua visione occidentale, come salvifica per l’uomo, in realtà rinuncerebbe alla
dignità unica e interscambiabile dell’uomo per vederlo solo come semplice elemento
nel tutto di una energia cosmica.
b. spiega l’ingiustizia e il male
del mondo: il male presente nel mondo viene fatto risalire ad azioni compiute
in precedenti esistenze terrene causanti appunto simili conseguenze
negative. Si soddisfa così il bisogno di
una uguaglianza e giustizia assolute, perché ognuno è nel vero senso
dell’espressione “artefice del proprio destino”, è autoresponsabile. Pertanto
non ci si dovrebbe più spaventare di fronte alle contingenze della vita e della
morte poiché la vita presente sta appunto in un continuità necessaria e
garantita con vite precedenti e future e tale connessione procede regolarmente
e risolutamente verso un punto culminante assoluto di perfezione umana (nella
dottrina occidentale). Per altro coloro che vogliono continuare a credere in un
Dio personale tale Dio viene completamente sgravato da ogni responsabilità
mediante la spiegazione strutturale e quindi non personale del male presente
nel mondo. A questo argomento si può obiettare che la dottrina della reincarnazione
semplifica troppo il complesso problema dell’autoreponsabilità dell’uomo in cui convergono predisposizioni ereditarie,
necessità ambientali, ecc. facendo risalire in modo monocausale tutti gli
eventi attuali alle azioni compiute dai singoli in precedenti esistenze. Si fa
peraltro dipendere troppo il destino dell’uomo dalla sua precedente responsabilità e
se ne sottovaluta l’attuale per il
decorso della cose e il loro possibile diverso andamento. Inoltre spiegare
certe malattie o deformazioni di adulti e soprattutto di bambini in termine di
remunerazione per le sue azioni passate sembra una esagerazione ingiustificata.
Da ultimo, anche avessimo vissuto una vita o più vite precedenti, non sappiamo
se e quanto male avremmo
eventualmente commesso ma neanche se e quanto bene avremmo eventualmente commesso, magari da pareggiare il male o
addirittura da essere in esubero, tanto da trovarci ora in credito e poter quindi pretendere, non
solo di non dover soffrire, ma anche di essere felici. Quindi il ricorso ad una
ipotetica vita precedente non sarebbe per nulla esplicativo riguardo il nostro
stato in questa vita.
c.
raggiungimento dell’identità: la dottrina della reincarnazione vorrebbe
garantire il raggiungimento della nostra identità di fronte alle innumerevoli
possibilità di fare esperienze e condurre la nostra vita, possibilità che
possono essere sfruttate solo in piccolissima parte. Nella nostra vita dobbiamo
continuamente scegliere, cioè anche escludere opportunità per mancanza di tempo
o possibilità, ma se noi vivessimo altre vite potremmo allora sfruttare tutte
le auspicabili possibilità umane di vita e integrarle così in noi. L’identità
dell’uomo, o meglio della sua natura spirituale-eterna, si costituirebbe perciò
soltanto nel corso di un processo eterno di esperienze e di apprendimento. Ma
anche tale argomento si presta a critiche: se le precedenti forme di esistenza
della persona sono del tutto inconsce,
come possono servire al ritrovamento della mia identità, che è sempre il
risultato di un processo fatto
identificazioni nuove e consapevoli che l’io umano compie qui ed ora di
fronte agli stadi passati o anche futuri del suo sviluppo? Solo una apparente
eccezione costituiscono quelli che nel corso di una terapia della
reincarnazione (vedi punto seguente) devono essere ricondotti in vite
precedenti, ma è un fatto problematico se si tratti realmente di vite
precedenti quelle di cui si ricorda.
d.
sarebbe dimostrabile da dati parapsicologici e terapeutici: i numerosi fenomeni
straordinari come per es. il dèjà-vu
(“questo l’ho già visto un’altra volta”) o il “ricordo” di tempi remoti o di
luoghi lontanissimi, in cui la persona interessata non è mai stata durante la
sua vita, o la conoscenza (verificantesi tuttavia raramente) di lingue
straniere mai imparate (xenoglossia), o le esperienze della “terapia di
riconduzione”, in cui gli individui vengono ricondotti a conoscenze acquisite
prima della propria nascita e del concepimento, tutto ciò risulterebbe
spiegabile nella maniera più logica, secondo i reincarnazionisti, con la teoria
della reincarnazione. Tuttavia questi fenomeni sembrano spiegabili anche in
altri modi. Infatti se per es. nella cosidetta terapia della reincarnazione
possono essere ripetutamente evocati, mediante la suggestione, determinati racconti
e impressioni, e li si possono con successo impiegare come mezzi terapeutici,
tuttavia la spiegazione data di
queste esternazioni mediante la teoria della reincarnazione (che vede esse come
“ricordo” di esistenze prenatali) è un passo ulteriore, che supera chiaramente
il campo dell’empiricamente sperimentabile e dimostrabile. Pure i
rappresentanti seri di una terapia della reincarnazione (per es. T. Dethlefsen e B. Weiss) o della
ricerca psicologica di ricordi spontanei dei bambini (ad es. I. Stevenson) sono
molto prudenti quando si tratta di
affermare che i loro risultati proverebbero in misura sufficiente la dottrina
della reincarnazione (cui pur essi aderiscono). Ad es. per la maggior parte dei
ricordi affioranti nella terapia o nel caso dei ricordi spontanei dei bambini
studiati non è più storicamente verificabile il grado di veridicità. Oppure gli
autori stessi adducono altri plausibili modelli di spiegazione dei fenomeni
enigmatici, per es. la criptomnesia (ricordo inconscio di esperienze fatte, ma
dimenticate) o l’ipotesi della fantasia
e la “confabulazione”, o la combinazione di una percezione
extrasensoriale (telepatia, chiaroveggenza, facoltà di percezioni uditive,
ecc.) e la personificazione con un’altra persona, a proposito della quale sono
state acquisiti informazioni mediante percezioni extrasensoriali, o l’ipotesi
della fissazione (una coscienza viva viene temporaneamente “occupata” da
determinati elementi della coscienza, ancora in qualche modo telepaticamente
operanti, di un uomo vissuto in precedenza), ecc. Anche lo psichiatra I.
Stevenson ritiene che l’ipotesi della reincarnazione sia l’ipotesi esplicativa
più probabile al massimo solo in alcuni dei molti casi studiati. T. Dethlefsen
ascrive a tale ipotesi soprattutto il ruolo di una rappresentazione
terapeuticamente utile, in quanto essa può servire alla guarigione di individui
malati; ma evidentemente questo è ancora ben lungi dal farne un’ipotesi
scientificamente dimostrata.
3.
RISURREZIONE
Questa credenza va chiaramente
distinta sia dalla credenza nell’immortalità dell’anima o dell’”io” che
continua a vivere dopo la dissoluzione del corpo, sia da quella della
reincarnazione, che implica la ripetuta rinascita dell’anima o dell’“io” in
nuovi corpi. Analizziamo innanzitutto la questione da un punto di vista
filosofico per poi passare a quello religioso e teologico.
Alcuni filosofi hanno rifiutato A
“io sopravviverò alla morte se e solo se la mia anima sopravviverà alla morte”
perché secondo loro non fa riferimento a tutto l’hardware necessario per la
sopravvivenza. Cioè se solo l’anima
sopravviverà, io non sopravviverò,
dal momento che sono essenzialmente un essere umano, e ogni essere umano
consiste essenzialmente di un (particolare) corpo e una (particolare) anima.
Anche nell’ottica tomista la sopravvivenza della mia anima è una condizione
necessaria ma non sufficiente per la mia sopravvivenza. Nel XX sec. un numero
crescente di filosofi hanno rifiutato A perché ritengono che non faccia
riferimento al tipo giusto di hardware.
Secondo questi filosofi, sussistono ottime ragioni per credere che la mente (la
parte di noi della quale abbiamo proprietà mentali) sia un’entità materiale (il
cervello), piuttosto che un’entità immateriale (l’anima). Alcuni filosofi
convinti di ciò hanno avvalorato B “sopravviverò alla morte se i miei stati mentali ante-mortem sono continui
con gli stati mentali di una persona esistente dopo la mia morte”, mentre altri
sono persuasi che anche B presupponga una concezione sbagliata dell’identità
personale. Secondo questi siamo animali di un certo tipo, e le nostre
condizioni di persistenza sono biologiche (prima che mentali): i filosofi che
hanno questa concezione materialista e “animalista” della nostra costituzione e
delle nostre condizioni di persistenza propongono C al posto di A o B:
“sopravviverò alla mia morte se e solo se la mia vita biologica proseguirà dopo
la mia morte (con qualche soluzione di continuità, altrimenti sopravviverei
senza morire)”. Questa concezione fisicalista-animalista dell’identità
personale, e delle condizioni per la sopravvivenza dopo la morte, sembra
lasciare molto meno spazio alla speranza in una vita dopo la morte rispetto al
dualismo. Infatti si può pensare che non ha senso sperare in un ritorno del
nostro corpo distrutto, perché nulla che cessa di esistere può tornare
all’esistenza.
E se anche il nostro corpo tornasse
all’esistenza per un’azione miracolosa di Dio - dicono sempre i critici – di
che razza di corpo si tratterebbe? Quando ci si immagina di sopravvivere alla
propria morte fisica, in genere ci si vede in possesso di un corpo quasi
perfetto, ma ancora abbastanza simile a quello precedente da essere
riconoscibile per gli altri. La prospettiva della sopravvivenza nelle vesti di
uno spirito invisibile e incorporeo – abbiamo visto – non sembra molto
attraente: si desidera infatti tornare insieme ai propri familiari e amici. Ma
la cosa non è senza problemi, come ci invita a pensare ancora il filosofo J. Hospers. La donna il cui marito è
morto all’improvviso in un incidente stradale suppone di incontrarlo
nell’aldilà. Non vede l’ora che ciò accada e di parlargli di nuovo, e senza
dubbio crede che sarà in grado di riconoscerlo. Forse non avrà lo stesso aspetto
che aveva quaggiù: se era sovrappeso, di certo non lo sarà in paradiso; se
nell’incidente ha perso una gamba, ne disporrà di nuovo; se aveva cicatrici sul
volto, non saranno più lì. Avrebbe
ancora le stesse abitudini, le stesse preferenze e avversioni, come andarsi a
sedere in veranda dopo cena e mangiarsi la sua bistecca al sangue? La cosa
sarebbe molto improbabile: potrebbero non esserci situazioni “terrene” in
paradiso, e difficilmente sarebbe necessario uccidere animali per nutrirsi.
Avrebbe ancora organi digerenti? E vestiti?
E desideri sessuali? Sarebbe arduo, per la moglie, immaginarlo senza, ma
nell’aldilà saremmo ancora distinti in maschi e femmine? Se fosse morto all’età
di sessant’anni, in paradiso avrebbe il corpo di un sessantenne o, sperabilmente
di un trentenne? E conserverebbe per sempre lo stesso aspetto? Mentre riflette
su tutto questo, ben poco di quello che era suo marito sembra probabile che
sopravviva. Il quadro diventa tanto più oscuro quanto più cerca di immaginarlo.
Possiamo anche immaginare altre
domande, come fa J. Hick. L’attuale
mio “io” – dice – è un prodotto della civiltà occidentale del XX secolo. Ad
esempio, io sarò eternamente un uomo bianco inglese del XX secolo con un
particolare corredo genetico, formato dalla mia specifica educazione e dalle
altre influenze che mi hanno modellato in questo mondo? Sarebbero appropriati
tali attributi in cielo? Le diverse culture ed epoche storiche divideranno
ancora per tutta l’eternità gli esseri umani? Riusciremo a sviluppare una lingua
comune o continueremo a parlare cento lingue diverse? Oppure, in quanto esseri
celesti, ci lasceremmo alle spalle la nostra identità culturale terrena? E se è
così, saremo ancora le stesse persone? Inoltre, la nostra identità dipende
principalmente dai ricordi. È proprio perché ricordo a sufficienza il mio
passato che sono, da un punto di vista soggettivo, sempre la stessa persona; ma
potrei io, in un distante futuro, molto tempo dopo la fine di questa vita
terrena, riandare indietro col pensiero di milioni, e poi ancora di milioni di
anni? Esistono limiti alla capacità mnemonica di un essere finito? O forse è
sufficiente riuscire a ricordare un periodo limitato, diciamo, di un secolo
circa? Potrei allora essere la stessa persona di ieri o di cinquant’anni fa,
anche se non soggettivamente lo stesso di milioni di anni fa.
Alcuni filosofi della religione contemporanei,
che pur avendo una concezione fisicalista-animalista, credono in Dio e
nell’aldilà, pensano alla risurrezione nei termini di un computer prima
smontato, e poi a distanza di un certo tempo, rimontato. È lo stesso di prima?
Molti risponderebbero di sì. Ecco allora che il nostro corpo potrebbe essere
scomposto ed in seguito ricomposto, magari dopo alcune centinaia (o migliaia)
d’anni e sareste ancora voi.
Un esempio classico è P. Van Inwagen: egli dice che forse,
subito dopo la mia morte, Dio (di nascosto) sottrarrà il mio corpo, o una parte
del mio corpo (il cervello o una sua parte) sufficiente per la continuazione
della mia vita biologica, e lo immagazzinerà in qualche luogo recondito. In un
secondo tempo (escatologico), farà in modo che quel corpo (o quella parte di
corpo) torni in vita. Benchè ciò sia logicamente possibile, molti stenteranno a
prenderlo sul serio (è forse Dio un “rubacorpi”?). Inoltre, sorgono ulteriori
problemi seguendo questa strada, perché è molto difficile che tutte le
componenti di un corpo dopo la morte rimangano nelle condizioni di essere
ricomposte dopo centinaia o migliaia di anni. Queste parti sono nel frattempo
divenute componenti di altri corpi, magari di altri corpi umani. Per questo
alcuni filosofi hanno sostenuto che non è necessario che la risurrezione del
corpo avvenga esattamente con tutti
gli stessi pezzi, per la stessa ragione per cui un corpo di un settantenne e
quello di un bambino di sette anni possono differire. Quel che è necessario è
che il corpo mantenga una certa configurazione,
una relazione funzionale tra tutte le sue componenti che sia identica a quella avuta
nella sua precedente vita (ma non si potrebbe allora obiettare che l’eventuale
corpo ricomposto sia soltanto una copia e non l’originale? ).
Una variante di questa idea è che, come già visto, la persona potrebbe
essere composta sia da corpo che da anima, e l’anima potrebbe essere quella
forma che informerebbe l’ammasso di materia che è il corpo. La sopravvivenza
sarebbe data dalla sopravvivenza della stessa anima che dello stesso corpo. Con
la morte il nostro corpo muore, cessando pertanto di esistere, mentre la nostra
anima esiste in forma imperfetta. Forse in queste condizioni si è inconsapevoli
e al momento della risurrezione la nostra anima (forma) informa nuovamente la
materia. La materia plasmata dalla nostra anima-forma al tempo della
risurrezione è lo stesso corpo che abbiamo sempre avuto, perché la forma
informante è la stessa. Non è necessario che il nostro corpo post mortem sia
composto dalle medesime particelle di cui era composto in vita, almeno non più
di quanto è necessario che il corpo di un bambino abbia le stesse particelle di
un settantenne: quel che conta è che sia informato dalla stessa forma. Quando
la nostra anima informa la materia, ne risulta un corpo avente una certa
configurazione determinata dalla nostra forma. Così quando siamo risorti, il
nostro corpo ha l’aspetto generale e le funzioni che ci permettono di
riconoscerlo come nostro (è una variazione della concezione di Tommaso d’Aquino
fatta da L. T. Zagzebski).
Comunque si valutino le precedenti
critiche e ipotesi su una possibile risurrezione corporale, nondimeno (come si
diceva anche riguardo la forma dell’immortalità dell’anima o dell’io) queste
sono osservazioni che possiamo fare, ma dobbiamo essere consapevoli dei loro
inevitabili limiti. Se ci immaginiamo la sopravvivenza personale (in qualunque
forma) ciò avviene con rappresentazioni concettuali ed empiriche di questa
vita. In particolare nella risurrezione corporea, essa risulta come una
estrapolazione della nostra vita terrestre nello spazio e nel tempo, anche se
dopo la morte il tempo è illimitato, il luogo più bello e i problemi che abbiamo
qui, là sono risolti. Ma questa rimane appunto solo una nostra estrapolazione
umana, che potrebbe essere lontanissima rispetto alla possibile nostra
condizione trascendente ultramondana posta da Dio. Si può sempre pensare che ci
siano anche altri modi in cui un Essere onnipotente e onnisciente possa
realizzare la risurrezione dai morti, modi che non possiamo neanche immaginare,
mancandoci le risorse concettuali per farlo. Sarebbe forse preferibile tacere
su ciò che non possiamo sapere, ma è anche difficile farlo in ordine ad una
possibilità che è molto importante per tanti uomini.
Da un punto di vista religioso
possiamo dire quanto segue.
Se definiamo la risurrezione come il
ritorno alla vita del corpo, o meglio dell’intero uomo, dopo un periodo di
morte, incontriamo fenomeni che si adattano
a questa definizione soltanto nello Zoroastrismo, nel tardo Ebraismo nel
cristianesimo e nell’Islam e qualche elemento di dubbia analogia nel taoismo e
nelle antiche religioni dell’India e dell’Egitto. La credenza nella
risurrezione può presupporre una concezione monistica
dell’uomo, per cui l’uomo, tutto intero, scompare al momento della morte e
risuscita poi per una nuova esistenza, oppure una concezione dualistica, secondo la quale il corpo
muore, mentre l’anima o lo spirito, continua a vivere per essere più tardi
riunita al corpo in un essere rinnovato (quindi non c’è incompatibilità tra la
credenza in un’anima immateriale e la dottrina della risurrezione corporea,
anzi in genere la combinazione delle due idee è il modo standard di concepire
la risurrezione).
Nell’ebraismo si
è creduto solo nello sheol per oltre un millennio e solo dal III/II sec a.C. si
è cominciato a parlare di risurrezione. L’ortodossia ebraica sull’aldilà
tuttavia non è stata definitivamente fissata fino alla fine del I sec d.C.,
intorno alla sequenza ormai classica: avvento del Messia e annientamento dei
nemici di Israele e dei cattivi ebrei; inaugurazione del regno di Dio
rinnovato; giudizio finale in cui tutti morti, che si alzeranno col loro corpo
dalla tomba, appariranno davanti a Dio e verranno giudicati secondo i loro
meriti a seconda di quello che sarà registrato dello loro azioni umane
dall’Angelo nel Libro; invio di ognuno per l’eternità seguendo i suoi meriti,
sia nei paradisi beati, sia nell’inferno di sofferenze. Poiché i testi stessi
della Bibbia appaiono differenziati sulla descrizione dell’aldilà e di chi ci
andrà, i maestri del Talmud esprimeranno opinioni molto diverse sul fondo
comune della fede in un’esistenza dopo la morte. Anche Maimonide, il Maestro
dei maestri, esplicita nell’ultimo degli “articoli di fede” la fede nella
risurrezione delle anime e dei corpi dopo la venuta del Messia.
Dove
l’ebraismo fonda la sua convinzione
della risurrezione?
Il passaggio dalla credenza al solo scheol a quella della risurrezione
individuale è stato progressivo ed è emerso mediante la voce di diversi profeti
che gradualmente hanno cominciato ad esprimere tramite speranze, sogni e
rivelazioni divine la convinzione della risurrezione. L’idea esplicita ed
autentica della risurrezione nell’ebraismo ricorre solo in un contesto
apocalittico, in particolare in quello che viene considerato il più antico
testo incontestato della Bibbia che
si riferisce in modo esplicito alla risurrezione corporea dei morti, cioè Dn
12,1-3, composto al tempo dei Maccabei, e più esattamente tra il 167-164 a.C..
In quel periodo si organizzò in seno al popolo ebraico la resistenza dei
cosiddetti hassidim (pii) contro la forzata politica di ellenizzazione
perseguita dalla potenza mondiale dei Seleucidi siriani e contro le loro
prepotenze. Molti hassidim subirono il martirio per la loro fede. L’autore
dell’apocalisse di Daniele è anch’egli un hassim, che incoraggia coloro che
sono fedeli alla legge a perseverare, e annuncia, sotto forma di rivelazione segreta – visione in cui un
angelo gli avrebbe parlato (Dn 10) - che dopo grandi tribolazioni sarebbe
giunta la salvezza dei fedeli alla legge che non hanno temuto neppure il
martirio, e la risurrezione dei morti: “Molti di quelli che dormono nella
polvere della terra si risveglieranno; gli uni alla vita eterna e gli altri per
la vergogna e l’infamia eterna”(12,2). Si impongono peraltro delle osservazioni
a questo passo: non si pensa ancora a una risurrezione universale (solo “molti
di” quelli che sono morti risorgeranno, e rimane controverso chi siano questi
molti); tale “vita eterna” è verosimilmente concepita come una salvezza su una
terra rinnovata (secondo Is 65,17ss.;
66,22 ss.); infine la prospettiva dell’idea della rimunerazione rimane
confermata (si riveleranno cioè sia la potenza che la giustizia di Dio). Le
convinzioni dell’apocalittico Daniele dell’intervento prossimo di Dio in favore
di colui che era stato ucciso per la sua fedeltà, formulate in una situazione
di gravissima crisi, a motivo del non sopravvenuto compimento escatologico, si
rivelarono comunque presto sbagliate; ma la
speranza in esse contenuta avrebbe d’ora in poi influenzato l’attesa del
giudaismo nel senso di una risurrezione dei morti. Ma è possibile sapere cosa
si intendesse più precisamente con tale espressione? Nel libro deuterocanonico
2 Maccabei (composto in greco e
finito nel 100-50 a.C.) si trovano parti più antiche come 2 Mac 7 che risale forse a persecuzioni di
ebrei in Antiochia in cui si narra che, tra i tanti martirizzati, sette fratelli e la loro madre, prima di
essere torturati e uccisi, proclamano la loro ferma fede nella loro
risurrezione corporea nel mondo a
venire. Il secondo fratello dice: “Tu, o scellerato [il re Antioco] ci elimini
dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue
leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna” (v. 9); il terzo esplicitamente
continua: “Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui
spero di riaverle di nuovo” (v. 11). Inoltre nelle proclamazioni della madre
(v. 22-23 e 28) si dice che Dio deve avere anche il potere di creare nuovamente
i loro corpi dal nulla, se nulla di loro rimane (diversamente da esempi precedenti
come nella visione di Ez 37,1-14, in
cui la risurrezione veniva immaginata a partire da un residuo corporeo): i
martiri saranno risuscitati dal nulla, proprio come gli uomini vengono dal
nulla. Comunque in questi testi non si parlava né di una svolta escatologica
futura (nel senso di Dn 12) né di un
rinnovamento sulla terra (nel senso di Is
65,17 e altri) ma solo della riabilitazione, mediante la loro risurrezione, dei
martiri uccisi per fedeltà alla torah. La risurrezione del corpo è il compenso
dato da Dio agli ebrei per la crudeltà e l’oppressione del dominio straniero: i
persecutori hanno distrutto i corpi dei martiri, ma la misericordia di Dio
garantisce che li riavranno e che ritroveranno il piacere dell’esistenza
corporea quando Dio li risusciterà. Dove il testo dei Maccabei immagini il
luogo della vita della risurrezione è una questione controversa: di nuovo sulla
terra rinnovata o subito dopo la morte (?) in cielo (?). Il giudaismo
ellenistico postcristiano per esempio
poteva ritenere che i patriarchi fossero già in cielo (prima del tempo finale e
prima della risurrezione universale) e che i martiri fossero assunti dopo la
loro morte immediatamente presso di essi (4 Mac
5,37; 7,19 ecc., verso il 50 d.C.). Tra i gruppi che credevano nella risurrezione
del corpo al tempo di Gesù vi erano com’è noto i farisei (benché poi si raffigurassero la vita dei risorti secondo
modalità intramondane). In seguito alla loro “vittoria” dopo il 70 d.C. la fede
nella risurrezione dei morti divenne la confessione universalmente vincolante
del giudaismo (anche se con rappresentazioni variabili). D’altra parte la
risurrezione dei morti e l’assunzione in cielo presso Dio non erano le uniche
idee sulla vita dopo la morte conosciuta dagli ebrei; anche l’idea dell’immortalità dell’anima, di derivazione
greco-platonica, era penetrata nel giudaismo, soprattutto nel suo strato
sociale intellettuale. Si può dire che la risurrezione era appannaggio delle
classi oppresse mentre l’immortalità dell’anima fu adottata essenzialmente da quelle
categorie di persone che studiavano la cultura greca, e magari cercavano di
combinarla con l’ebraismo, come Filone, Giuseppe Flavio, e altri pensatori
ebrei. Questa classe di anziani intellettuali dovevano mirare maggiormente alla
continuità della loro saggia coscienza che tanto avevano coltivato in vita,
mentre i giovani che si sacrificavano dovevano desiderare piuttosto una
restituzione completa delle loro vite. Il Libro
della Sapienza (scritto verso la
metà del I sec. a.C., e per i cristiani, l’ultimo libro dell’AT) si rifà in
parte ad una concezione greca dell’immortalità, quando descrive l’idea più
tradizionale ebraica della risurrezione dei martiri (Sap 3,1 e 3,4). Anche il Libro
dei Giubilei (II sec a.C.)
mescolava la filosofia greca e la tradizione ebraica (es. 23,31) e vi troviamo
l’idea che le vite dei giusti alla fine avranno la medesima durata di cui
avevano goduto gli eroi nei tempi più antichi. Anche il giudaismo ellenistico postcristiano della diaspora occidentale
nei suoi diversi autori e scritti (Filone, Giuseppe Flavio, 4 Mac, 2 Enoc, 3 Bar, Oracoli
Sibillini) prospettava diverse idee sul modo della vita nell’aldilà postmortale
(a volte anche negata) pur sempre come retribuzione ultraterrena individuale di
Dio: si parla di ascensione postmortale (alle stelle, al grande eone e al luogo
celeste di pace) così come della comunione ultraterrena con i pii o con i
padri; di una esistenza celeste in forma di angeli cosi come di una vita eterna
presso Dio; di una fede realistica nella risurrezione così come
dell’immortalità dell’anima. Infine, nell’ebraismo dei tempi di Gesù, vi era
chi negava qualunque tipo di vita
futura, i sadducei, l’aristocrazia tradizionale di natura sacerdotale. Secondo
G. Flavio tale dottrina non faceva presa su molti. “I sadducei affermano che
l’anima perisce insieme con il corpo” (Ant. Giud), non attendono altra
ricompensa e punizione dopo la morte e pensano che per le loro azioni gli
uomini saranno ricompensati in questo mondo. Anche nei vangeli si trova eco
della filosofia dei sadducei. Questo
non fa che confermare che non esiste una maniera semplice per far derivare la
risurrezione da un qualsiasi testo biblico prima di Daniele (e ovviamente la
“bibbia sadducea” non avrebbe contenuto le rivelazioni di Daniele). Essi
potevano riferirsi maggiormente per esempio al libro di Qoelet (che fu scritto da un maestro sapienziale del primo periodo
greco) che come visto non contiene alcun riferimento ad una vita dopo la morte,
oppure potevano già sentirsi soddisfatti della esistenza che conducevano, già
relativamente privilegiata, senza attendersi altre ricompense.
In conclusione quindi l’ebraismo fonda la sua convinzione della
risurrezione piuttosto che su rivelazioni divine – che in ogni caso, per quanto
possibili, sarebbero assolutamente non verificabili (tra l’altro se si
considera il libro di Daniele come la fonte per fondare la convinzione della risurrezione,
esso, nella sua profezia dell’avvento del regno di Dio nel tempo finale con
scadenze precise, non si è storicamente realizzato, e quindi, ci si chiede,
perché si dovrebbe aver fiducia nella sua previsione della risurrezione dei
morti?) - realisticamente sulla necessità di dare senso a certi avvenimenti
storici, come il martirio dei fedeli in Dio, sorretti dalla fede nell’amore,
fedeltà, giustizia e potenza di Dio, in altre parole su bisogni umani e sulla fede-speranza,
concetti che non possono esibire garanzie di soddisfacimento o verità.
Nel
cristianesimo, sulla scia
dell’ebraismo, si proclama la risurrezione dell’uomo nella sua integrità, si
parla infatti di “risurrezione della carne”. Ma che cosa intende la teologia
cristiana per “corpo” che deve risorgere? La teologia cristiana recente in
genere intende che la risurrezione riguarda tutto
l’essere umano, su esempio di quella di Gesù. Nell’aldilà non saremmo puri
spiriti, ma l’essere che siamo qui,
unico al mondo con la sua personalità, la sua storia, la sua corporeità. Ma non
essendo più limitati né dal tempo né dallo spazio, né dalla malattia né dal
peccato, saremmo glorificati, vale a dire trasformati nella Gloria (la
manifestazione dell’Essere di Dio). Dato che la risurrezione e la vita eterna riguardano nell’aldilà tutto
l’uomo, il corpo non sarebbe quindi un accessorio, ma la maniera di
rappresentarlo nel cristianesimo può variare, a seconda delle culture e delle
epoche. Paolo, per es., riprende il vecchio paragone cosmico del germe e della
spiga di grano: il corpo risuscitato non sarà più simile al corpo mortale di
quanto la pianta lo sia al germe. Paolo parla di “corpo spirituale”. Detto
altrimenti, la risurrezione non sarebbe la ripresa dell’antica esistenza ma una
nuova creazione, come la realizzazione piena della nuova vita ricevuta da Dio,
per la potenza del suo Spirito che si sostituisce all’impotenza di noi esseri
mortali (J. Vernette).
Nella teologia cristiana l’aldilà
viene rappresentato con le figure del paradiso inferno e purgatorio. Il paradiso, o cielo, non è un luogo ma una
presenza e un rapporto (cfr. 2Cor 5,8; Rm 8,38): si definisce con la visione
faccia a faccia di Dio: “noi saremo simili a lui perché lo vedremo per quello
che è” (1 Gv 3,2; Cfr. 1Cor 13). Questa visione ci darebbe una pienezza di
felicità, la tradizione cristiana la chiama “visione beatifica”. Una
trasfigurazione interiore accadrebbe allora affinchè lo spirito dell’uomo,
limitato e fragile, possa sopportare l’intensità di questa visione che i
mistici chiameranno “luce di Gloria”. Tuttavia ognuno conserva la propria
identità senza fondersi con Dio. Il nostro intero essere verrebbe ricreato.
Ritroveremo il nostro corpo diventato “corpo spirituale”. E questo fin dalla
nostra morte che ci permette di accedere all’eternità di un Dio per il quale il
tempo non esiste più. Ma siamo anche solidali con l’insieme degli uomini nel
“piano di salvezza” del Cristo che “ricapitolerà ogni cosa alla fine dei tempi”
(Ef 4,13). Così si potrebbe dire ugualmente che risusciteremo con tutti gli
uomini “nell’ultimo giorno”: in seno a questa creazione rinnovata che “adesso
geme nei dolori del parto” (Rm 8,19-22).
L’inferno non sarebbe a rigor di logica una delle due possibilità che
Dio offre all’uomo, perché attraverso suo Figlio Gesù Egli non propone mai
altro che l’unico Regno (Gv 3,16-17). Dio non c’entra nella dannazione di colui
che sceglie il contrario assoluto del Regno, per rifiuto dello Spirito. E che
rimane sempre amato da Lui, si dirà anche, contrariamente a certe rappresentazioni
dell’inferno che sfigurano Dio attribuendogli l’atteggiamento rancoroso di
colui che volta le spalle a chi non lo ama. La sola possibilità dell’inferno
sarebbe legata alla fede in un Dio talmente rispettoso della libertà dell’uomo
da non volersi imporre a lui per niente, nemmeno per il suo bene.
Il purgatorio sarebbe una tappa di purificazione, di attesa, di
preparazione, rendendo anche manifesto un certo legame di solidarietà tra
l’aldiquà e l’aldilà.
Il
cristiano fonda la sua convinzione di
risorgere sulla risurrezione di Gesù,
vista come anticipo e garanzia della risurrezione di tutti gli uomini. Ma si è
già visto che la risurrezione di Gesù non può essere convalidata né resa
verosimile con i metodi storici; in
ultima analisi quindi per il cristiano il fondamento incondizionato della
certezza della fede pasquale è soltanto Dio,
che nel suo Spirito conferma oggi il cristiano nella sua fede in Gesù Risorto.
Ma chiaramente questa rimane una convinzione solo di fede sottratta ad ogni possibile controllo e verifica razionali.
Nell’Islam l’escatologia è essenzialmente
radicata nella tradizione biblica. La nozione di Giorno del giudizio vi è
essenziale alla stesso titolo della fede della fede nel Dio Unico fonte di
tutte le ricompense nell’aldilà. La ricompensa e la punizione eterne saranno
assegnate da Dio nel Giorno del Giudizio, intorno al quale si sviluppò una
dottrina centrale del Corano e una successiva riflessione teologica. Nei primi
stadi di sviluppo del credo coranico il requisito più frequentemente richiesto
per essere un musulmano era la fede in Dio e “nel giorno ultimo”. Questo grande
evento conclusivo nella storia del mondo chiamato anche il “giorno della
risurrezione” viene vividamente descritto nel Corano come il momento in cui si
ottengono le delizie del Giardino dell’eden o i tormenti eterni del fuoco
infernale (ad es. LVI, 11-56; LXIX, 13-37). Nonostante la sua insistenza sui
temi escatologici , il Corano tralascia di affrontare tutta una serie di
interrogativi che in genere accompagnano la riflessione sulla fine; su questi
troviamo approfondimenti nella sunna e
nella riflessione teologica successiva. Nel Corano non si trova la distinzione
tra corpo e anima che affaticherà tanto invece la successiva riflessione di
filosofi e teologi; mentre i primi, secondo un modello platonico furono inclini
a ritenere mortale soltanto il corpo, i secondi, secondo un modello giudaico,
furono inclini a ritenerli entrambi mortali.
L’inferno viene descritto dal Corano secondo le rappresentazioni
popolari classiche, dominate da fuoco, pece bollente e lo zolfo fuso. Il “paradiso di Maometto” al contrario
esprime il parossismo delle gioie terrene – sorgenti, banchetti, fanciulle
radiose – sotto forma di quello che la civiltà araba del VII sec ha prodotto di
più splendido nei suoi palazzi e giardini. Ma la maggior parte dei teologi
moderni e l’islam di ispirazione mistica, come il sufismo, vi vedono
soprattutto una metafora delle gioie spirituali delle quali la più alta è la
visione di Dio.
L’Islam
fonda la sua convinzione della
risurrezione sul testo del Corano che
in questo segue la tradizione biblica (e sulle riflessioni successive dei
teologi) e pertanto la sua giustificazione risente dei limiti inerenti la
possibilità di appurare le veridicità del Corano e della tradizione biblica.
Esperienze
di premorte (Near-Death Experiences, NDE)
La tanatologia, ossia la scienza che si occupa degli aspetti psichici
e sociali del morire, del senso e del metodo dell’accompagnamento dei morenti,
ha anche effettuato ricerche sui numerosi racconti di cosidetti “clinicamente
morti”, cioè di uomini che manifestavano i segni della morte sopravvenuta (come
arresto cardiaco, cessazione della respirazione, caduta della pressione
sanguigna, dilatazione delle pupille, caduta della temperatura corporea,
encefalogramma piatto, ecc.) ma che ciononostante sono stati per via operatoria
richiamati in vita dai medici e avevano potuto raccontare cose stupefacenti a
proposito di esperienze “nel frattempo” fatte. Lo schema tipico del racconto è
questo: il paziente prova la sensazione di fluttuare senza peso e fuori dal
proprio corpo. Viene trasportato in un lungo tunnel buio dopo aver sentito un
campanello un po’ sgradevole, sbuca in una calda luce, incontra degli esseri
che lo accolgono per aiutarlo a compiere il passaggio, talvolta un “essere di
luce” e vedono in una panoramica fulminea tutta la loro vita, e poi segue in genere l’esperienza di una
grande pace. Il viaggiatore ritorna da questa esperienza radicalmente
trasformato.
Molti ricercatori hanno raccolto e
analizzato in seguito un numero importanti di testimonianze simili (come R.A.
Moody, P. Dinzelbacher, K. Ring, E. Kubler-Ross, ecc.) tali che questi fenomeni
non possono essere negati; le loro interpretazioni però non sono convergenti.
Molte ragioni sembrano deporre a
favore della credibilità di un contatto con l’aldilà, come la relativa
concordanza di questi racconti provenienti dai paesi e dalla culture più
diverse; l’integrità verificabile delle persone interrogate e degli scienziati
che le hanno interrogate; inoltre la coscienziosità metodica della ricerca
constatabile in molti casi. Infine ci sono aspetti collegati alle NDE che per
alcuni sono fondamentali: in primo luogo, ci sono racconti di esperienze
sensoriali fuori dal corpo, in cui i pazienti, spesso mentre sono in coma,
sembrano osservare con precisione quanto accade a loro e nel loro ambiente (per
es. ospedale) e sarebbero poi in grado di raccontare correttamente i dettagli.
Similmente, vi sono testimonianze di esperienze sensoriali che segnalano con
precisione gli eventi che si sono verificati durante i periodi in cui il cuore
del soggetto aveva smesso di battere e anche durante i periodi di "EEG
piatto" in cui non c'era alcuna attività cerebrale rilevabile. Ancora, sono testimoniati incontri-sorpresa durante
il presunto “viaggio nell’aldilà” con amici e parenti che in realtà erano morti
di recente e all’insaputa del soggetto, e quindi non si spiegherebbe come il
soggetto avrebbe fatto ad accedere a tali informazioni se non attraverso il
reale incontro con la persona deceduta, che in qualche modo sarebbe stata
ancora viva.
Tuttavia
rimangono anche molte riserve.
Innanzitutto si sono riscontrate
anche testimonianze diverse collegate ai diversi periodi storici e alle diverse
culture di origine. Rilevante è anche il fatto che simili esperienze a volte
accadono a persone che erroneamente credono di essere in pericolo di vita, e
quindi potrebbe anche essere la sola vicinanza percepita alla morte, piuttosto che la prossimità reale
dell'aldilà, che innesca le esperienze.
Fenomeni simili (con differenze ma
anche con sorprendenti paralleli) a quelli descritti non si incontrano soltanto
nelle esperienze vissute di “decesso” ma anche in altri stati psichici
particolari, per es. con il sogno, la schizofrenia, l’ebbrezza da allucinogeni
(LSD, mescalina, ecc), la pseudoallucinazione nevrotica (isteria), oltre che
con la suggestione, il gradino più alto del training autogeno, la
concentrazione, con la meditazione e la visione religiosa. Quindi questi
racconti testimoniano, di per sé, solo dell’esistenza in qualcuno, in certe
situazioni limite, di stati di coscienza
modificati, che possono avere diverse spiegazioni: alcuni vi vedono le
conseguenze di un’alterazione dovuta ad agenti chimici e provocata da
un’overdose di neuromediatori
all’approccio della morte (come reazione difensiva organica si verificherebbe
un’eccitazione del sistema nervoso centrale che provocherebbe sentimenti di
euforia, stimoli luminosi, visioni, ecc.), oppure come un risveglio della forza
vitale kundalini orientale, o ancora come fenomeni parapsicologici da
esplorare. I racconti di incontri con persone recentemente morte ma
all’insaputa del soggetto, diventano un po' meno impressionanti una volta si è
riconosciuto che in esperienze di premorte si sono incontrate anche persone
ancora vive, quindi non letteralmente presenti nell’aldilà in cui essi invece,
in base ai racconti, sarebbero stati visti. Pertanto diventa statisticamente
probabile che ci saranno anche incontri con persone che sono recentemente morte
ma la cui morte era sconosciuta per il soggetto sperimentante l’esperienza di
premorte.
La rivendicazione che le NDE si sono
verificate durante i periodi con nessuna attività cerebrale, sono
controbilanciati dal fatto che un EEG non può rivelare tutte le attività
all'interno del cervello. La risonanza magnetica funzionale, per esempio, può
rivelare attività non segnalate da un EEG. Nei casi dove l’attività cerebrale
ha infatti cessato per un determinato paziente, le NDE possono essersi
verificate prima della cessazione o dopo che ha ripreso l'attività cerebrale
normale; non è necessario assumere che durante le NDE la mente fosse attiva con
cervello assente.
Per quanto riguarda l’apprendimento
di informazioni durante le NDE, altrimenti non disponibili, sono possibili
varie risposte. Va osservato, anzitutto, che spesso vengono riportate
informazioni imprecise. In alcuni casi dove l'informazione è confermata,
possiamo avere a che fare con un perfezionamento successivo in seguito a
ripetizioni della stessa storia (questo non comporta necessariamente un inganno
deliberato; è una comune esperienza che le storie spesso ripetute tendono a
guadagnare nuove caratteristiche di interesse per la narrazione). In altri casi
si è sostenuto che l'informazione era dopo tutto disponibile attraverso i
normali canali sensoriali, spesso attraverso l'audizione da parte dello sperimentatore
di cose dette durante la procedura medica quando era apparentemente
cosciente.
Il problema maggiore è quello di
stabilire se una data persona che riporta delle NDE fosse prima realmente morta e fosse poi ritornata
dalla morte, perché senza questa certezza sembra difficile vedervi delle
esperienze che provano l’esistenza del dopo-vita: potrebbero essere solo
esperienze fatte in prossimità della
morte, ma non esperienze fatte al di là del confine definitivo della morte.
Le
comunicazioni con l’aldilà (spiritismo)
Si tratta della comunicazione che
avverrebbe con i defunti, che lo spiritismo cerca di stabilire con l’ausilio di
medium, particolarmente dotati, in stato di trance. Fenomeni come tavolini che
si muovono, o battono colpi, spostamenti di oggetti, rumori strani, sogni
particolari, apparizioni, bicchieri parlanti, “materializzazioni” di oggetti,
scrittura automatica, o immagini e suoni dall’aldilà registrabili, sarebbero
prodotti dagli “spiriti” dei defunti.
Le diverse tecniche ritenute adatte
a stabilire un contatto con aldilà si basano su una concezione particolare
dell’uomo e dell’universo. L’idea di base è che lo spirito, l’elemento
dell’uomo che sopravvive alla morte, non è del tutto immateriale. Sarebbe come
un doppio del nostro corpo materiale, costituito da una materia più sottile. Ma
non lo possiamo percepire sulla terra, perché si porrebbe su un altro piano,
un’altra dimensione. Tuttavia ci potrebbero essere delle “interferenze” tra i
vari piani, come avverrebbe nelle sedute spiritiche, e allora i mortali
potrebbero entrare in contatto con i defunti.
Personalità celebri hanno praticato
lo spiritismo come V. Hugo, C. Doyle, scienziati e intellettuali. Dopo un calo
legato all’avvento della razionalità pura e del rifiuto della metafisica,
queste pratiche ricompaiono con rinnovato vigore nell’epoca attuale.
Tuttavia
ancorchè tali fenomeni esistano, rimangono controverse le loro spiegazioni.
Gli illusionisti hanno riprodotto
con giochi di prestigio molti di questi fatti straordinari. I tavolini che si
muovono potrebbero ancora essere spiegati con la psicocinesi (produzione di
movimento a distanza senza cause apparenti). I messaggi in codice potrebbero
essere fenomeni di telepatia fra le
persone che partecipano alle sedute, tipo classico di PES (percezione
extra-sensoriale). Lo spostamento insolito di oggetti potrebbe essere
attribuito a manifestazioni specifiche di energia presso alcuni soggetti che
sembrano averne in eccesso (anche se siamo ancora ignoranti circa la natura di
questa energia, che è una delle manifestazioni normali della nostra
composizione umana che chiamiamo “corpo energetico”). Lo sdoppiamento di
personalità è tipico della scrittura automatica, e l’automatismo psicologico
del bicchiere parlante. Alcuni psichiatri, sulla scia del dr. Charcot
(1825-1893) mostrarono come nell’ipnosi isterica la personalità normale
scomparisse, lasciando il posto a una seconda, o a una terza: come a “spiriti”
estranei. Inoltre l’inganno venne perpetrato da famosi medium alcuni dei quali
lo confessarono alla fine della loro vita (come D. Home o le sorelle Fox).
Quanto alle immagini e ai suoni detti “in provenienza dall’aldilà” agli occhi
di alcuni sarebbero residui dell’immenso stock immagazzinato dai satelliti o in
circolazione nell’etere, a meno che non provengano dalla proiezione della
coscienza degli operatori medesimi, come fenomeno PES.
Nonostante possa rimanere un nucleo
di fatti irriducibili, inspiegabili allo stato attuale delle nostre conoscenze,
potranno forse essere spiegati in futuro; in ogni caso tali fenomeni
straordinari rimangono ambigui e refrattari ad una spiegazione univoca di tipo
trascendente, pur rimanendo questa certamente una possibilità.
Altri argomenti
Presento ora altri argomenti a
favore della sopravvivenza dopo la morte, a prescindere da ogni specifica
modalità di esistenza, desunti dalla morale,
dalla facoltà conoscitiva dell’uomo,
e come conseguenza plausibile del teismo.
Argomento morale. Se si considera l’uomo come un essere capace di agire in
modo etico-morale e che può e deve pertanto orientarsi in base a una norma
morale incondizionatamente valida, sia che esso giovi a lui o meno, allora se
questo agire morale deve avere un senso - e precisamente proprio quando esso
non riporta alcun successo all’interno della propria vita, e al contrario, si
risolve addirittura in un danno in questo mondo per l’uomo che agisce
moralmente bene - bisogna ragionevolmente “postulare” o “supporre” che con la
morte non tutto può essere finito e che all’uomo che agisce moralmente bene
dopo la morte sarà resa giustizia ed egli sperimenterà anche il senso e il
coronamento del suo buon agire. Ma come già affermato da Kant questo postulato
non è una verità teoretica ma solo un bisogno
dell’essere morale: le considerazioni morali in altri termini non dimostrano
l’immortalità ma mostrano solo che è un’aspirazione legittima di chi agisce
moralmente.
Argomento che rinvia alla facoltà conoscitiva dell’uomo. Lo
spirito umano non è limitato, nella sua conoscenza, al solo mondo sensibilmente
sperimentabile del finito. Esso è in linea di principio aperto – perlomeno
sotto forma di domanda e di ricerca – all’infinito, anzi in fondo a Dio quale
senso onniabbracciante, nascosto alla radice di ogni aspirazione alla salvezza
e tuttavia tanto incomprensibile di tutta la realtà. Tale apertura dello
spirito finito a un senso infinito può essere vista come un segno eloquente del
fatto che lo spirito umano possiede una certa “affinità” con l’infinito, che
l’uomo non è semplicemente una parte del mondo materiale effimero. Ma se le
cose stiano in effetti così non è
però cosa che possa essere dimostrata. Tale argomento è affine alla via trascendentale che presenterò in
seguito e pertanto per la sua specifica valutazione critica rimando ad esso.
Argomento dipendente dalla validità
del teismo. Si tratta dello stretto
legame che esiste tra teismo e fede nella vita ultraterrena. Il punto non è
semplicemente che le religioni teistiche incorporano nella loro credenza una
vita ultraterrena. Il punto è piuttosto che se
il Dio del teismo esiste davvero, ed è un essere onnipotente e buono, e
interessato al benessere degli esseri umani, allora è plausibile che egli possa
e voglia dare alle sue creature la possibilità di un appagamento maggiore e più
duraturo di quello possibile nell'ambito della breve esistenza terrena (e ogni
possibile nostro giudizio sullo status di questa eventuale condizione ci è
precluso in base alle nostre limitate possibilità conoscitive). Questo è
particolarmente vero, si potrebbe pensare, per coloro che, non per colpa
propria, hanno una vita rovinata dalla malattia, o da incidenti o dalla guerra,
o da disastri naturali o provocati dalla cattiveria di altri uomini. Se non c'è
nessun aldilà, nessun regno in cui i dolori di questa vita possono essere
placati e le sue ingiustizie sanate, allora il problema del male diventa
impossibile da risolvere in alcun modo razionalmente comprensibile (non che con
l’aldilà si risolvi del tutto il problema del male, ma fornirebbe almeno la possibilità di una
compensazione delle ingiustizie e dei dolori subiti e potrebbe portarci così
almeno all'inizio di una soluzione fattibile). Ma anche coloro che godono di
una vita terrena relativamente buona e soddisfacente potrebbero essere
consapevoli che potrebbero realizzarsi molto di più in una “vita eterna”.
Collegato a questo argomento c’è
anche l’“argomento del desiderio”, in base al quale se il desiderio di una vita
oltre la morte è universale o quasi nella storia dell’umanità, allora questo
dice qualcosa a favore della sua verità. Naturalmente questa non sarebbe una
deduzione logica. Anzi molti lo considerano proprio un argomento contro la vita dopo la morte, ovvero
come segno che l’uomo si è inventato tale idea in base al suo desiderio. Ma
nemmeno questa è una deduzione logica. Sarebbe infatti vera solo nel caso di un
universo naturalistico, senza alcun
Dio, e allora la causa di un tale desiderio così diffuso nell’umanità potrebbe
risalire all’istinto di sopravvivenza darwiniano. Ma se invece fosse vero il teismo, la vita umana non sarebbe il
prodotto accidentale di forze ma sarebbe il prodotto di un processo evolutivo
costituito per produrre tali esseri da un Dio che li ama e si preoccupa per
loro. Se fosse così, allora tale desiderio di un aldilà potrebbe anche essere
soddisfatto.
Osservazioni conclusive
Ho iniziato
affermando che la speranza che la finitezza umana non sia definitiva ma
superabile in una dimensione trascendente, accompagna in generale l’uomo dalla
sua comparsa ad oggi.
Prima di concludere, chiediamoci però
più espressamente i motivi per cui un uomo potrebbe voler sperare in un aldilà
significativo dopo la morte. Non gli dovrebbe bastare questa vita? C’è qualche
problema se tutto finisse con la morte?
Il filosofo T. Nagel espone così la questione.
L’idea della morte, della nostra
cessazione tra qualche decina di anni di vita sembra rendere problematico il
significato della vita stessa. Perché? Puoi spiegare gran parte delle cose che
fai. Lavori per guadagnare denaro per sostenere te stesso e forse la tua
famiglia, mangi perché hai fame, dormi perché hai sonno, fai una passeggiata o
chiami un amico perché ne hai voglia, leggi il giornale per sapere cosa succede
nel mondo, ecc. Se non facessi nessuna
di queste cose ti sentiresti infelice: dov’è allora il vero problema?
Il problema è – dice Nagel – che sebbene
vi siano giustificazioni e spiegazioni per la maggior parte delle cose, grandi
e piccole che facciamo dentro la
vita, nessuna di queste spiegazioni spiega l’essenza della tua vita come un tutto – il tutto di cui tutte queste
attività, successi e fallimenti, sono parte. Se pensi all’intera faccenda non
sembra esservi in essa alcun significato. Naturalmente la tua esistenza importa
ad altri – i tuoi genitori ed altri che si curano di te –ma, prese come un
tutto, neppure le loro vite hanno un significato per cui, in definitiva, non ha
importanza che tu conti per loro. Tu importi a loro e loro contano per te, e
questo può dare alla tua vita una parvenza di significatività. Ma vi lavate
semplicemente la biancheria l’un l’altro, per così dire. Dato che ogni persona
esiste, ha bisogni e interessi che fanno in modo che cose e persone particolari
dentro la sua vita le importino. Ma, ancora una volta, l’intera faccenda non conta.
E se fosse inserita in un contesto
più ampio – per esempio si facesse parte di un movimento politico o sociale che cambia il mondo per il meglio,
per il beneficio delle generazioni future – potrebbe così ricevere significato?
No, perché ci si può sempre chiedere quale sia il significato di questa cosa
più ampia.
Infatti – aggiunge R. Nozick – chiedere quale sia il
significato di una cosa è chiedere come questa sia connessa con altre cose, in
modo che tu trascendi i tuoi limiti (aiutare gli altri, promuovere la giustizia,
ecc.), ti leghi a qualcosa di più grande di te. Il problema del significato è
creato dai limiti, dal fatto di essere solo questa cosa. Così per ampi che possano essere i nostri
interessi, possiamo sempre tracciare i contorni a questo “parziale tutto” e,
dal di fuori, chiederci quale sia il senso di questa cosa. Se il problema del
significato è dato dal limite, allora sembra che solo l’illimitato sia in grado di togliere questo problema. Avere un
limite significa escludere qualcosa. Qualcosa di illimitato coprirebbe tutto e
includerebbe tutto, e solo così non resterebbe più spazio da cui osservare i
suoi limiti e le sue limitazioni. Dobbiamo immaginare qualcosa che comprenda
tutte le possibilità. Ma questo risultato soddisfacente sarebbe valido se
l’illimitato fornisse un luogo d’arresto alle domande sul significato non solo
perché rispetto ad esso la domanda non si può più fare, ma anche perché
l’illimitato stesso è il suo significato. Il fenomeno di essere il significato
di se stesso emerge al livello dell’illimitato, non prima. Qual è però
l’aspetto dell’illimitato grazie al quale esso è il suo proprio significato? Si
può pensare che solo un essere illimitato può fare che il suo contenuto “più
ampio” sia se stesso, ed essere così il proprio significato. Ammesso che una
simile entità di un essere illimitato sia il suo proprio significato, noi forse
potremmo connetterci a questa fonte per ricevere significato (Nozick).
Probabilmente l’essere che noi
desiniamo “Dio” potrebbe essere questa entità, e la comunione eterna con Dio
potrebbe essere ciò che da più significato (o un significato assoluto) alle
nostre vite.
Tuttavia numerosi problemi si
presentano per accettare una cosa del genere, primo fra tutto quello
dell’esistenza di un simile essere, “Dio”; inoltre non sappiamo se “Dio” voglia e possa rendere significativa la nostra
esistenza per sempre; e ancora ci si potrebbe chiedere quale sarebbe il contenuto del significato che Dio, in
quanto illimitato, avrebbe in se stesso e potrebbe trasmettere all’uomo: perchè
se si suppone che Dio dia alle nostre vite un significato che non possiamo
capire, non sarebbe una grande consolazione.
Questi problemi potrebbero
scoraggiare (e di fatto scoraggiano) molti, i quali alla fine potrebbero
chiedersi (e si chiedono): “Ma ha importanza che la vita non abbia importanza?
Che importa se non ha un significato?” Si potrebbe quindi guardare solo dentro la vita, alle faccende di ogni
giorno. Non servirebbe di più per continuare a vivere. Come B. Russel disse: “Credo che quando
morirò il mio corpo si decomporrà, e nulla del mio io sopravviverà. Non sono
giovane e amo la vita, ma disprezzo il terrore dell’annichilimento. La felicità
non è meno vera solo perché finisce, e nemmeno il pensiero e l’amore perdono
valore perché non sono eterni”. Gli fa eco il filosofo italiano S. Natoli: “ Per vivere pienamente non è
necessario durare eternamente, né sapere l’intero: basta saper trovare il modo
adeguato di esistere”. Cito infine il filosofo tedesco H. Albert: “Chi non crede in Dio non necessariamente deve sostenere
la nullità e la mancanza di significato totali della realtà e della vita umana.
Sicuramente il non credente non dirà di credere in un senso oggettivo della
realtà e della vita umana, ma nondimeno egli potrebbe porsi obiettivi e ideali
e cercare di raggiungerli, realizzare significative opere culturali senza dover
caratterizzare come illusoria simile prassi. Si può vivere anche in una realtà
problematica nutrendo una fiducia relativa nella realtà”.
Si potrebbe concludere allora la “questione
del significato della vita” dicendo che una eventuale vita oltre la morte
potrebbe dare un significato assoluto
a questa vita (considerandole collegate), mentre questa vita, da sola, potrebbe
avere soltanto un significato relativo.
Ma ciò non può voler dire che basta
l’eternità per dare senso alla vita. Il tempo c’entra relativamente poco. Non è
la durata a dare senso ad una vita. Non serve rimandare la domanda sul
significato di questa vita ad un’altra vita, perché la vita ad un certo punto
deve risultare meritevole di essere vissuta in sé, non in quanto rimanda ad
un’altra vita: infatti, quale sarebbe lo scopo di quest’altra vita?
Il punto è quello espresso da
diversi pensatori: “Ciò che non abbiamo saputo cogliere del momento, nessuna
eternità potrà restituirci!” esclamava Schiller;
e Simeone il Nuovo Teologo affermava
che deve dimenticarsi della vita eterna chi non la vive già qui; infine Bonhoeffer con lo stesso senso diceva
che “chi sta con un piede solo sulla terra starà con un piede solo anche in
paradiso”.
Il senso della vita deve essere
trovato mentre si vive, qui ed ora.
Possibili candidati ad avere senso e
significato in sé sono in primis, e in generale, la conoscenza e l’amore (dall’eros,
alla filia all’agape). In termini più concreti e meno filosofici, viviamo
qualcosa di significativo quando viviamo una relazione affettiva stabile e
gratificante, quando abbiamo buoni risultati dai nostri impegni sul lavoro o
nello sport o nell’arte, quando aiutiamo i meno fortunati di noi a stare
meglio, quando siamo gli artefici della nostra vita, ecc.
Ma insieme, è anche qui che si
colgono i limiti della nostra vicenda storica.
Così l’uomo nella sua dimensione
intrastorica può anche intuire e vivere un significato nella conoscenza, ma è
anche vero che questa non giunge mai al compimento, non possiamo comprendere il
tutto; oppure nell’amore, nell’amare e nell’essere amati, ma è anche vero che
l’amore non raggiunge mai completamente la persona amata, né si può contare su
una comunione piena e per sempre. E così via per tutti i “momenti” di senso
della vita, preziosi ma fragili. Sono tutte esperienze che in sé non
esauriscono né la loro origine né la loro fine, sono inserite in una condizione
di vita finita, limitata, fragile, dove non c’è sempre corrispondenza tra
“virtù” e felicità, tra volere e potere. L’esperienza storica non esaurisce il
fondo di nessuna realtà, si potrebbe dire.
Questo vuol dire che il significato
della vita lo dobbiamo cogliere, scoprire, vivere già qui, ora e da noi stessi,
nella nostra esperienza storica, e questo non può essere delegato a
qualsivoglia altro essere esterno a noi se vuole essere un significato
autentico e nostro; ma è anche vero che questo non sarebbe ancora sufficiente
per la piena attuazione di questo significato, per i limiti qualitativi e
quantitativi della nostra esperienza storica, e quindi sarebbe necessaria una
condizione Altra perché giungesse a compimento assoluto. Potrei riassumere
così: “già qui ed ora, e scoperto da noi stessi” ma “da portare a compimento”:
queste sono le caratteristiche necessarie del significato perché sia autentico
e assoluto. Se manca la prima è inautentico, se manca la seconda è incompiuto.
Se la prima dipende da noi, la seconda è altra da noi.
Alla fine dunque, riassumendo, l’uomo
può sperare in un aldilà sia per amore della vita prima della morte – perché
tutto il bene, tutto il vivere e l’amore non siano condannati ad un’inutilità
finale; perché spera giungano a compimento quei “momenti” di senso e felicità
che costruisce e sperimenta già nella sua vita, perseguendo valori come la
giustizia, la solidarietà, la compassione – sia perché il dolore per malattie,
lutti, insuccessi, privazioni, ingiustizie ed odio che tanti sperimentano qui,
non abbia l’ultima parola - se tutto finisse con la morte, moltissime persone
chiuderebbero la vita con un bilancio sfavorevole che non troverebbe mai alcun
compenso.
Ma questa speranza, esistenzialmente
legittima, è anche razionalmente fondata?
Dall’indagine fatta emerge che la
vita oltre la morte - nelle modalità di immortalità dell’anima o dell’“io”, o
reincarnazione oppure risurrezione – sembra essere ancora una possibilità: può essere quindi solo una credenza, oggetto di fede, che non
rimanda alla dimensione del sapere - né come dimostrazione e nemmeno come
argomentazione oggettivamente plausibile - ma solo a quella della fiducia e della speranza (o dell’attesa).
L’uomo, davanti alla morte, può ancora
sperare di “incorporare” in sé un’“anima” e che sia di per sé immortale; oppure,
se fosse mortale, può sperare che Dio, se esiste, la renda immortale. Oppure
può confidare che, anche se l’uomo non avesse un’“anima”, le informazioni (o i
suoi stati mentali o il suo software) che rappresentano il suo “io” vengano
preservate dalla dissoluzione per l’eternità, e incorporate in qualche tipo di
hardware o in Dio. O ancora, può attendere che, per iniziativa creatrice e
salvifica di Dio, questi faccia risuscitare l’unità corporea-spirituale o
psico-fisica dell’uomo dopo la morte in un “corpo trasformato o glorificato”. E
può sperare che in tutti i casi sia garantita la continuità con l’identità in
questa vita e la sua significatività.
Se solo una speranza anziché una certezza
sia sufficiente per indirizzare o dare significato o far sopportare la vita
terrena, questo rimane però soggettivo.
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