Le
espressioni della cristologia
Gesù era dunque un carismatico
itinerante. Ma come si definì e come fu definito dai suoi seguaci e dal popolo?
Nei vangeli i modelli di interpretazione di Gesù sono condensati in alcuni
titoli come profeta, messia, figlio dell'uomo, figlio di Dio e Signore.
Sono stati attribuiti a Gesù solo
dai suoi seguaci - quando Gesù era ancora in vita o dopo la pasqua - o Gesù
stesso si è autodefinito con qualcuno di tali denominazioni o si è identificato
con esse?
Profeta
Gesù,
stando ai vangeli, non rifiuta il tentativo popolare di collocare la sua opera
e la sua personalità nella cornice del profetismo, ma corregge questa opinione
pubblica integrandola nel suo progetto storico di annunciatore del regno e
nella prospettiva del profeta rifiutato e perseguitato. Risulta pertanto
possibile o verosimile che Gesù abbia fatto almeno delle allusioni a se stesso
come del profeta: poteva considerarsi come il profeta inviato da Dio per il
tempo finale, oppure come il servo di Dio di cui parla il Deuteroisaia.
Messia
Il fenomeno del messianismo, come realtà religiosa, non è
specifico di Israele. Si trovano forme di messianismo anche nell’Antico Egitto,
in Mesopotamia e in Grecia. È tuttavia peculiare di ogni popolo e cultura
comprendere ed esprimere fenomeni comuni con tratti e mediazioni proprie.
È consueto affermare che gli ebrei
attendessero il messia (unto-consacrato) per la liberazione di Israele e che,
per quelli che furono poi definiti cristiani, Gesù fosse il messia atteso e
predetto, mentre per tutti gli altri ebrei non fu riconosciuto come tale. Ma
l’idea che tutti gli ebrei aspettassero un messia non è esatta - c’erano anche
coloro che attendevano un intervento diretto di Dio stesso - e coloro che lo
aspettavano avevano attese diverse.
Il termine non era connotato di un
significato chiaro e condiviso, poiché c’erano diverse categorie di messianismo
in seno all’ebraismo che si erano formate nel corso dei secoli:
regale-davidica, sacerdotale, profetica e apocalittica. Probabilmente però la
categoria regale-davidica era la più diffusa al tempo di Gesù. È verosimile che
l’idea che Gesù fosse messia sia sorta durante la sua vita e che alcuni di
coloro che lo accusarono ritennero che lui o i suoi discepoli pretesero che
fosse il messia. Ma è anche possibile che tale designazione potesse essere
stata anche solo un epiteto, piuttosto che un titolo formale o una designazione
politica o religiosa, emersa in risposta a detti o azioni di Gesù percepiti
come carichi dell’autorità di un mandato divino.
Se sembra verosimile che anche i
discepoli durante la sua vita l’abbiano confessato come messia, non è però
chiaro se Gesù stesso abbia preteso di esserlo e in che senso: di sicuro non si
è mostrato apertamente come messia, nè davidico né di altro genere; è
verosimile che Gesù non abbia mai chiaramente o entusiasticamente accettato il
titolo nel senso in cui i discepoli o oppositori glielo proponevano (ossia
regale-davidico), perché probabilmente pensava di essere messia ma di altro
tipo da quello comunemente previsto. In ogni caso è con la pasqua che la
messianicità di Gesù viene con più evidenza confermata e ribadita dai suoi
seguaci (come si evince da Rm 1,4) che ripresero il titolo di messia ma lo
ridefinirono, e Gesù divenne per loro un messia di tipo nuovo, un messia che
aveva agito come operatore di miracoli e come profeta nel corso della sua vita,
ma era anche il Signore celeste che sarebbe ritornato alla fine.
Figlio
dell’uomo
"Figlio dell'uomo” può essere riferito a una figura celeste incaricata da Dio a
giudicare il mondo (mutuabile da Dn 7, testo del 167-164 a.C.) oppure anche
all’uomo in generale, o a una qualche
persona, o infine, ma è discusso,
essere sinonimo di “io”. Per alcuni poi l’espressione era un titolo già
corrente negli scritti apocalittici ebraici precristiani (Dn 7,13; Libro delle
parabole di Enoch) mentre per altri non c’era alcun titolo apocalittico
precristiano di figlio dell’uomo.
Sembra certo che Gesù abbia usato
tale espressione, ma è controverso tra gli studiosi se abbia inteso riferirla a
se stesso o ad un altro (ci sono passi in entrambi i sensi) e con quale
significato. Potrebbe averla usata in riferimento a se stesso anche
semplicemente come autodefinizione, forse come un modo discreto per riferirsi a
se stesso semplicemente come a un essere umano; o ancora riferirlo ad una
figura trascendente ma distinta da lui e che solo dopo la pasqua, con il
sorgere di una esplicita fede cristologia in Gesù, i suoi seguaci finirono col
vederlo come il rivendicatore di se stesso (e in questo modo riuscirono a
identificarlo con il figlio dell’uomo apocalittico); oppure, infine, a molti
l’ipotesi più verosimile sembra essere quella in cui Gesù parli di se stesso in
terza persona descrivendosi come un uomo trasformato in futuro: “facendo
riferimento ad esso (figlio dell’uomo), ma non identificandosi mai d’altra
parte esplicitamente con lui, non affermava quindi di essere il messia, ma di
essere destinato a diventarlo come figlio dell’uomo: accennava cioè in maniera
misteriosa ad una sua futura glorificazione messianica da parte di Dio” (G.
Jossa).
Figlio di
Dio
Questo titolo è l’appellativo più qualificante e più
frequente usato per identificare Gesù nella tradizione cristiana. E’ noto che
il termine figlio di Dio nel mondo classico dell’Antico Vicino Oriente non era
affatto sconosciuto. Autorità come faraoni, imperatori e re vedevano loro
stessi come figli di Dio. Questo valeva anche per persone con doni speciali,
come maghi, operatori di miracoli e indovini. In particolare nell’ebraismo
precristiano tale titolo era riferito al popolo d’Israele, al re, agli angeli e
all’uomo giusto, e in ambiente rabbinico celebri maestri giudaici taumaturghi
del I sec d.C., Hanina e Honi, vengono presentati come figli di Dio:
naturalmente sempre in senso metaforico per indicare una relazione peculiare
con Dio, e non per divinizzare realmente tali personaggi. Sembra anche che tale
titolo cominciasse ad essere usato come titolo messianico proprio ai tempi
delle origini cristiane.
Nei vangeli sinottici Gesù non si
autoproclama mai figlio di Dio, sono gli altri (la voce celeste, satana, il
sommo sacerdote, i suoi discepoli) che si rivolgono a lui con questa qualifica.
Inoltre, anche in questi casi, viene ritenuta probabile dagli studiosi la loro
origine postpasquale. I passi in cui Gesù nei sinottici si presenta come “il
Figlio” (Mc 12,1-12; Mc 13,32; Mt 11,27) sono anch’essi ritenuti postpasquali e
comunque poco significativi, essendo il primo una parabola, il secondo
all’interno di un discorso apocalittico, il terzo una preghiera-rivelazione. In
Mt e Lc inoltre Gesù è considerato figlio di Dio perché nato dal concepimento
verginale di Maria, mediante lo Spirito Santo: tuttavia la storicità di questi
racconti è gravemente compromessa da difficoltà di vario genere (similitudini
ad altre figure storiche o mitologiche importanti, sia pagane che nell’AT; sono
presenti solo in Mt e Lc; ci sono divergenze su diversi aspetti; il silenzio su
questi racconti per tutto il resto dei vangeli). In contrasto con la reticenza
dei sinottici, Giovanni estende maggiormente questo titolo fino a diventare
parte dell’autorivelazione esplicita di Gesù (Gv 10,36; cfr. 19,7).
A partire dunque dall’esperienza dei
discepoli fatta con Gesù - esperienza di colui che esprime l’autocoscienza di
essere il rappresentante dell’azione escatologica definitiva di salvezza di
Dio, che deriva dal rapporto particolare di Gesù con Dio che chiama abba - è nata durante la vita terrena di
Gesù una cristologia profetica che si è sviluppata dopo le apparizioni pasquali
che hanno arricchito l’esperienza e quindi spinto in avanti la riflessione:
comincia ad essere definito giusto sofferente, messia e anche figlio di Dio in
senso messianico, come in Rm 1,3-4 (se non era già usato durante la sua vita
terrena).
Ma già al tempo di Paolo “figlio di Dio” cominciava ad essere usato
in una ulteriore accezione, in senso più
elevato: in tante formule paoline è infatti presente l’idea implicita della
preesistenza di Gesù: da Gal 4,4
“nella pienezza dei tempi Dio ha inviato suo figlio…” si evince che quel
soggetto sperimentato è trascendente, era presso il Padre, è stato inviato nel
mondo e quindi può operare la salvezza ‘a nome di’ Dio. Così anche in 1Tm 3,16
e Fil 2,6-11, mentre altre formule oltre alla preesistenza implicano anche una
mediazione creazionale: 1Cor 8,6 e Col 1,15-20.
Signore
Signore è un titolo di dignità e onore che riconosce il
potere e l'autorità di colui a cui è riferito. Nell’AT “Signore” è usato per tradurre vari titoli di
Dio (per es Adonay, El Sadday), ma può anche essere usato in
senso secolare per un padrone, un proprietario, o nell’antica Roma, per gli
imperatori. Dopo la Pasqua, il titolo viene usato dai seguaci per Gesù anche in
senso assoluto, ossia per rivolgersi a un essere divino che è fatto oggetto di
venerazione cultuale. Da una formula prepaolina emerge che il motivo della
venerazione di Gesù come Kyrios è la sua risurrezione dai morti: Rm 10,9:
“Poiché se la tua bocca confessa che Gesù è il Signore e nel tuo cuore credi
che Dio lo ha resuscitato dai morti, tu sei salvato”. Nell’insieme il titolo di
Kyrios è attestato nel grido maranatha,
in 1Cor 16,22, nell’acclamazione in Rm 10,9; in 1Cor12,3 e all’interno
dell’inno di Fil 2,11; infine nell’acclamazione in 1Cor 8,6 in cui si dice che
“abbiamo un solo Dio, il Padre da cui sono tutte le cose e noi per lui,” “e un
solo Signore, Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e noi tramite lui”.
Con questa operazione, che applica a Gesù il titolo di Kyrios, di fatto Gesù
finisce vicino a Dio. Alcuni esegeti (come R.H. Fuller) interpretano tuttavia
questa vicinanza solo in senso funzionale e non metafisico: “il titolo
‘Signore’ non connotava divinità in senso metafisico, ma intende che, nella sua
elevazione, Gesù ha assunto una nuova funzione come rappresentante della
signoria di Dio sul mondo e sulla chiesa (Fil 2,11)”.

Conclusioni
sui titoli:
si è visto che probabilmente Gesù stesso finchè era in vita non si è attribuito
esplicitamente nessun “titolo di dignità” elevato, anche se rimane verosimile
che abbia fatto almeno delle allusioni
a se stesso come del profeta (poteva considerarsi come il profeta inviato da
Dio per il tempo finale, oppure come il servo di Dio di cui parla il
Deuteroisaia), come del messia (ma di un messia diverso da quello generalmente
atteso) o del Figlio dell’uomo escatologico (ma è difficile stabilirne il senso
esatto). Esiste dunque un largo consenso sul fatto che i primi cristiani
abbiano detto di Gesù molto più di quanto egli non abbia mai detto di se
stesso, così come sul fatto che lo stimolo verso questa rivendicazione del
carattere trascendente delle affermazioni del Gesù storico provenga
dall’esperienza della pasqua.
Naturalmente la pasqua può aver confermato (ed esaltato) solo quello che
già prima era emerso (in modo più implicito che esplicito) riguardo la
straordinaria persona di Gesù.
Considerazioni
sulla credibilità teologica del Nuovo Testamento
Accenniamo innanzitutto alla
dottrina dell’ispirazione divina della
scrittura secondo la Chiesa Cattolica, già vista per quanto riguarda la
questione della garanzia di verità per l’Antico Testamento, ovvero (con qualche
semplificazione) la Bibbia Ebraica. Le possibilità e i limiti di questa
dottrina teologica sono quelli già espressi nei confronti dell’Ebraismo. Qui si
può solo aggiungere che nel NT questa dottrina è più esplicita nei testi
rispetto all’AT (vedi 1Pt 1,10-12; 2Tm 3,16; 2Pt 1,18-21), soprattutto in
Giovanni quando Gesù, riguardo alla comprensione piena delle sue parole,
promette l’aiuto dello Spirito Santo che “insegnerà ogni cosa, vi ricorderà
tutto quello che vi ho detto…e vi guiderà alla verità tutta intera”(Gv 14,26;
16,13). Peraltro i cristiani sostengono anche che ci sia stata una rivelazione
divina circa l’identità di Gesù: si veda il passo in Mt 16,16-17 in cui si dice
che Pietro potè confessare che Gesù era il Messia figlio di Dio solo perché
questo gli fu rivelato dal Padre che è nei cieli, e Paolo che afferma che
“Nessuno può dire che Gesù è Signore se non sotto l’azione dello Spirito
Santo”. Ma è chiaro che anche qui si tratta solo di un concetto teologico al di fuori di ogni possibile
controllo razionale.
Passando
invece a considerare il rapporto tra storia
e fede sulle origini del
cristianesimo e quindi sulla persona di Gesù, possiamo, semplificando, ridurre
a tre le più importanti
interpretazioni dell’identità e della natura di Gesù, cercando di portare per
ognuna i principali punti di forza:
1. Gesù come Dio; 2. Gesù come autentico
mistico; 3. Gesù come mistico illuso.
1. Gesù come “Figlio di Dio e Dio egli stesso”
È
la posizione tradizionale della fede cattolica che considera Gesù “vero Dio e
vero uomo” e che il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) definisce “Figlio
unigenito del Padre e Dio egli stesso” (127) e sintetizza in cinque punti il
rapporto tra Gesù e Dio: 1. “Nel tempo stabilito da Dio, il Figlio unigenito
del Padre, la Parola eterna, cioè il Verbo e l’Immagine sostanziale del Padre,
si è incarnato senza perdere la natura divina, ha assunto la natura umana. 2.
“Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, nella unità della sua persona divina; per
questo motivo è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini. 3. “Gesù Cristo ha due
nature, la divina e l’umana, non confuse, ma unite nell’unica Persona del
Figlio di Dio. 4. “Cristo, essendo vero Dio e vero uomo, ha una intelligenza e
una volontà umane, perfettamente armonizzate e sottomesse alla sua intelligenza
e alla sua volontà divine, che egli ha in comune con il Padre e lo Spirito
Santo. 5. “L’Incarnazione è quindi il Mistero dell’ammirabile unione della
natura divina e della natura umana nell’unica Persona del Verbo”.
Questa interpretazione si basa sulla
convinzione che gli scritti del NT riportino fedelmente l’esperienza vissuta
dai discepoli con Gesù e la verità su
Gesù stesso, e sulla convinzione che le affermazioni conciliari da cui deriva
-“Dio vero da Dio vero” (Concilio di Nicea, 325) e “vero Dio e vero uomo”
(Calcedonia, 451) - siano in continuità
con la comprensione dell’identità divina di Gesù già presente negli scritti del
NT.
Per quanto riguarda la convinzione
della fedeltà e verità dei testi del NT riguardo la persona di Gesù, il Concilio
Vaticano II afferma (DV, 19):
1. “la santa madre chiesa ha
ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro vangeli, di
cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto
Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e
insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo
(At 1,1-2);
2. Gli apostoli poi dopo
l’Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva
detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati
dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano;
3. E gli autori sacri scrissero i
quattro vangeli, scegliendo alcune tra le molte cose che erano tramandate a
voce o anche in scritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con
riguardo alla situazione delle chiese; conservando infine il carattere di
predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e
verità”.
I testi del NT presentano Gesù come
inviato da Dio a partire dal ruolo che
egli assume nell’instaurazione definitiva del regno, dalla sua autorità
nell’insegnamento, dall’immediatezza del suo rapporto con Dio, dalla sua
promessa di perdonare i peccati, dalla convinzione che realizzasse le antiche
profezie dell’AT, e soprattutto dai suoi miracoli, in particolare quello della sua
risurrezione dalla morte.
La
seconda questione riguarda la continuità
delle formulazioni sulla natura divina di Gesù con i testi del NT. Certamente
tali formulazioni, come quelle di Nicea e di Calcedonia da cui derivano, vanno
oltre a ciò che è esplicitamente
affermato nel NT, ma la questione è quella di sapere se implicitamente il NT permetteva tale sviluppo, avvenuto in seguito
perché sono state poste delle questioni, e in un linguaggio diverso (greco e
non ebraico), non presenti al tempo
delle origini.
Innanzitutto le affermazioni elevate
sulla persona di Gesù derivano dall’aver fatto esperienza, da parte dei suoi
discepoli, del suo singolare carisma durante la sua vita terrena - espresso nel
suo insegnamento autorevole e nel suo comportamento (interesse per gli ultimi e
attività taumaturgica), che denotavano, forse solo implicitamente ma non meno
potentemente, la sua convinzione di essere la figura centrale del dramma
escatologico che egli annunciava e augurava e la sua posizione speciale nella
relazione con Dio - e dopo la sua morte nell’esperienza della risurrezione -
tramite le apparizioni (e la tomba vuota) si è dedotta la risurrezione di Gesù,
vista come conferma da parte di Dio di
ciò che anche prima della morte di Gesù era stato intuito di elevato
riguardo la sua persona.
Se poi si considerano le
affermazioni elevate su Gesù, nelle più antiche lettere paoline troviamo già, a
prima di trent’anni dalla morte di Gesù, una cristologia molto elevata, ed
ebraica, in cui Gesù viene identificato come il Signore, reso figlio di Dio per
la risurrezione, mediante il quale sono tutte le cose che sono, che andava adorato,
che preesisteva presso Dio (per es. in 1Cor 8,6; Fil 2,5-11; Col 1,15-20; Gal
4,1-11). Negli anni 70-90 i sinottici dichiarano Gesù messia, figlio di Dio
(talvolta Signore) e in Mt e Lc la sua identità divina è collegata alla sua
nascita miracolosa. Negli Atti degli anni 80 Pietro e Paolo vengono presentati
che predicano Gesù messia, figlio di Dio, Signore e Salvatore che risiede
presso il Padre. Gv verso il 100 porta a sviluppo l’esaltazione di Gesù quando
presuppone l’incarnazione, in cui la Parola divina diventa uomo in Gesù: nel
Prologo si dice non solo che mediante la parola (che è il Figlio) tutte le cose
sono state create, ma anche che la Parola esisteva, alla presenza di Dio, prima
della creazione; in 17,5 il Gesù giovanneo dice letteralmente e coscientemente
di aver avuto un’esistenza gloriosa col Padre prima che il mondo fosse (cfr
16,28; 3,13; 5,19; 8,26.58); importanti sono i passi in cui Gesù si definisce
con “Io sono” (8,24 e 8,58) che, riprendendo l’AT, hanno l’effetto di
presentare Gesù come divino, con una (pre)esistenza proporzionata alla sua
identità, proprio come l’AT greco comprendeva il Dio D’Israele. In Gv si ha
anche tra l’altro la famosa esclamazione di Tommaso verso Gesù “Mio Signore e
mio Dio” (Gv 20,28) che è l’esempio più chiaro nel NT dell’uso del termine
“Dio” per Gesù. I passi paolini e della lettera agli Ebrei visti all’inizio
mostrano comunque che una cristologia precreazionale implicante una
‘incarnazione’ non era un’aberrazione o una creazione dal nulla di Gv, ma al più,
una chiarificazione, nella struttura del vangelo, di idee che circolavano
altrove tra i primi cristiani (quindi “Dio vero da Dio vero” non proviene solo
da Gv). Tra i vangeli solo Gv
presuppone apertamente l’incarnazione in cui la Parola divina diventa carne ed
abita in mezzo a noi come Gesù Cristo. Quando gli altri vangeli parlano della
venuta del figlio dell’uomo essi si riferiscono alla parusia alla fine dei
tempi; senza escludere questa Gv
accentua principalmente la provenienza divina del figlio dell’uomo
nell’incarnazione. Se nel restante pensiero del NT l’atto supremo dell’amore di
Dio in Gesù era l’autodonazione implicata nella crocifissione, in Gv 3,16-21
l’atto supremo consiste nell’inviare il Figlio nel mondo, che porta la stessa
vita eterna di Dio a coloro che credono, rendendoli figli di Dio.
Si può dunque mostrare una
sostanziale continuità tra il NT e lo sviluppo delle formule di Nicea. Quando tra il II e il IV sec. la
proclamazione cristiana era ascoltata da persone formate nel pensiero
filosofico greco, inevitabilmente queste posero, circa la formazione di una
cristologia, questioni che non erano state poste nel I sec. La chiesa, tramite
un concilio come quello di Nicea, voleva preservare e garantire l’esatta
comprensione della rivelazione, nella fedeltà alle indicazioni del NT, per
evitare che la rivelazione del NT fosse perduta o erroneamente compresa. Perciò
respinse determinate proposte come inadeguate.
Lo sviluppo dottrinale dei concili
non si trova esplicito nel NT, ma ha origine dall’interpretazione della
rivelazione neotestamnetaria in una direzione indicata dal NT.
Si analizzino le dichiarazioni
cristologiche fatte a Nicea (“Dio vero da Dio vero”) e a Calcedonia (“vero Dio e
vero uomo”): nessun passo del NT afferma con precisione che il Figlio
coesisteva dall’eternità con il Padre, non si trova alcun ‘momento’
neotestamentario precedente a “In principio era la Parola” di Gv 1,1. Tuttavia Ario la interpretava nel senso che Gesù
era veramente il Figlio divino di Dio, come le Scritture affermavano, ma poiché
i padri esistono prima dei figli, solo il Padre celeste, non il Figlio, è
eterno e senza origine, mentre Atanasio,
nella sua replica, sosteneva che, ritenendo che il Verbo fosse ‘divenuto’e
ponendo una differenza temporale tra Padre e Figlio, Ario si muoveva in una
direzione contraria al NT (che si opponeva a limitazioni temporali
nell’identità di Gesù). Così Atanasio condusse il Concilio di Nicea a
condannare Ario, insistendo sul fatto che la Parola, o Figlio divino, non aveva
inizio. Il Concilio usò formule come ‘generato’, ‘non fatto’, ‘non c’era un
tempo in cui Egli non fosse’, ‘Dio vero da Dio vero’, ‘coeterno col Padre’. Il
fatto che queste specificazioni non si trovassero nel NT non imbarazzava
Atanasio; infatti egli riteneva che Ario avesse sollevato una questione non
specificatamente posta ai tempi del NT e che, perciò, non poteva avere risposte
con citazioni del NT. La questione più importante per Atanasio era che la necessaria
specificazione postbiblica fosse fedele all’orientamento del NT: “Se le
espressioni non si trovano con identiche parole nelle Scritture, tuttavia esse
contengono il senso delle Scritture” (Atanasio, Lettere sui decreti del
Concilio di Nicea, 5, 18-21). Nicea si muove nella direzione del NT quando
rigetta questo tentativo finale di formulare l’identità di Gesù nel linguaggio
del ‘divenire’: conformemente all’uso giovanneo dei verbi, Nicea implicitamente
sceglie per Gesù la terminologia ‘è/era’ rispetto a quella di
‘diventa/diventò’. Dopotutto egli è il Figlio di Colui il cui santissimo nome
veterotestamentario Jhwh è stato compreso come ‘Colui che è’.
Forse la tendenza ad interpretare
(scorrettamente) affermazioni bibliche su Gesù come se fossero formule di
divenire risiede nell’idea del messia, il re unto della casa di Davide,
suscitato da Dio per Israele: il termine ‘diventare’ si adatta ai re, poiché
anche se si nasce eredi al trono uno poi deve essere incoronato e così diventa
re. E così una volta che Gesù fu identificato come il Messia, potrebbe esserci
stata la questione, probabilmente inconscia, sul quando egli sarebbe diventato
messia. Anche la risurrezione era intesa come intronizzazione in cielo, e il
linguaggio veterotestamentario della regalità era impiegato per descrivere
questi e altri ‘momenti’: si veda l’“incoronazione” nel Sal 2 usata sia per la
risurrezione che per il battesimo, e la promessa di successione monarchica a
Davide in 2Sam 7 usata nell’annunciazione lucana del concepimento.
In conclusione, la teologia
ufficiale tradizionale cristiano-cattolica ritiene sia che gli scritti del NT
riportino fedelmente l’esperienza vissuta dai discepoli con Gesù e la verità su
Gesù stesso, e che dunque siano credibili e affidabili anche per l’uomo d’oggi,
sia che la convinzione sull’identità di Gesù come uomo-Dio sia in continuità con
la comprensione dell’identità divina di Gesù già presente in quegli scritti.
2. Gesù come autentico mistico carismatico
La
seconda posizione è quella di chi considera Gesù un semplice, seppur notevole, uomo, che era realmente in intima
relazione con un Dio esistente: un autentico mistico, una persona ripiena in
modo straordinario dello Spirito di Dio, che avrebbe avuto frequenti e vivide
esperienze del sacro, come visioni ed esperienze mistiche. Forse come altri
individui, o forse più di altri.
Non solo storici ma anche teologi
cristiani condividono questa interpretazione.
Il
NT infatti non sembra rispondere in modo univoco e esplicito alla domanda sulla
natura ontica umana e/o divina di Gesù. Nel NT si ribadisce la distinzione del
Figlio di Dio da Dio Padre e l’obbedienza, la subordinazione del primo nei
confronti del secondo. Il Padre è “più grande” di Cristo e ci sono cose che
soltanto lui conosce. In nessun luogo del NT si parla dell’incarnazione di Dio
stesso. A diventare uomo è sempre il Figlio o la Parola di Dio stesso. In
pratica nel NT il termine Dio denota sempre il Padre. Quasi mai, e da Paolo
assolutamente mai, Gesù viene chiamato esplicitamente Dio. In nessun passo dei
sinottici Gesù si autoproclama nemmeno figlio di Dio e mai in assoluto, nemmeno
in Gv, si autodefinisce Dio. Emblematici sono i passi di Mc 10,18 e di At 2,22
in cui Gesù si distingue nettamente da Dio (in Mc) e viene presentato come un semplice “uomo
accreditato da Dio” (in At). A prescindere dal tardivo vangelo di Gv -
nell’esclamazione dell’incredulo Tommaso “Mio Signore e mio Dio” - soltanto in
pochi casi eccezionali anch’essi tardivi e influenzati ellenisticamente, Gesù
viene designato direttamente come Dio. La fede nella divinità di Gesù per la
cristianità deriva sostanzialmente da Gv, il vangelo più tardo, più
teologicamente evoluto e soggettivo, mentre il Cristo come redentore
dell’umanità e Signore vicino a Dio deriva soprattutto dal convertito Paolo.
Gli Atti (e i sinottici) presentano invece perlopiù Gesù come un ebreo
carismatico, un profeta che Dio ha innalzato al rango di Cristo e Signore dopo
averlo risuscitato dai morti. Ancora nei sinottici, i testi da cui si può pur
relativamente arguire quale potesse essere il Gesù storico, Gesù è presentato
come un predicatore, un guaritore ed esorcista itinerante Galileo, per alcuni
messia e “figlio di Dio” ma mai identificato con Dio.
Considerando dunque l’ambiguità
della fonti del NT sulla relazione ontologica tra Dio e Gesù, l’uso non
metafisico in ambiente giudaico dell’espressione figlio di Dio, e la
problematicità per la cultura contemporanea di concepire una letterale
incarnazione divina (visto che il quadro mitico nel quale questa credenza era
sorta oggi non esiste più), diversi teologi cristiani liberali - tra gli altri,
R. Bultmann, H. Kung, J. Hick, S.J. Patterson, A. Gounelle, M. Borg - pensano
sia più adeguato e plausibile interpretare in modo metaforico, non letterale,
l’espressione Figlio di Dio riferita
a Gesù e quindi la conseguente nozione di “incarnazione”. Alcuni vedono in Gesù
colui che ha rivelato il vero volto di Dio, oppure come la persona in cui si
può sperimentare la vicinanza di Dio, ma non Dio egli stesso.
Secondo questa prospettiva Gesù
sarebbe stato un individuo carismatico,
un ‘mistico’ e guaritore ebreo, oltre che maestro e ‘profeta’. Queste
caratteristiche sono ben supportate dalle fonti del NT e dal contesto ebraico.
Il ritratto di Gesù è ricco di
pennellate che lo dipingono come un ‘mistico’ che prega frequentemente, che ha
visioni (al battesimo sente la voce che gli dichiara la sua fiducia e riceve la
forza dallo Spirito Santo, si riferiscono le sue prove nel deserto cioè le
‘possessioni’ in cui lo Spirito Santo lo fa scontrare con lo spirito del male),
che insegna con l’autorità dello Spirito. Il centro della sua esperienza
mistica sembra essere stato una assoluta concentrazione su Dio, all’interno
dell’ebraismo ma in maniera personale. Egli cerca di capire da Dio ciò che deve
fare, prega, lo supplica.
Che fosse percepito come guaritore ed esorcista le fonti non
lasciano dubbi. Convinto del suo potere dello Spirito guariva e scacciava
demoni. Tra l’altro non era il solo, visto che anche contemporanei di Gesù
furono taumaturghi, come Honi e Hanina.
Oltre a mistico e taumaturgo può
anche essersi presentato come maestro di
sapienza: il suo insegnamento, in brevi detti (aforismi) o in storie
(parabole), aveva lo scopo di spingere gli ascoltatori a un diverso modo di
vedere, di vedere Dio, se stessi, la vita. Doveva pensare che Dio era
accessibile al di là delle convenzioni e delle istituzioni. Certi tratti della
sua attività e insegnamento sembrano anche avvicinarlo a un profeta del regno di Dio, considerato
che il regno era il tema centrale dei suoi discorsi e della sua opera, e come profeta sociale, visto che quella dei
profeti era una categoria diffusa
nell’antico Israele, noti per la loro esperienza diretta del sacro e per la
critica radicale dell’ordine politico e sociale, tema presente anche in Gesù.
D’altra
parte non è stato l’unico individuo carismatico a rivendicare una vicinanza
particolare a Dio. Non è facile trovare qualche caratteristica di Gesù che sia
del tutto unica nella storia della cultura o delle religioni: né i suoi
miracoli, né la sua non violenza, né la speranza escatologica e neppure la
promessa agli esclusi.
In particolare i miracoli sono patrimonio di ogni cultura
in ogni tempo; anche ebrei della sua epoca e ambiente compivano miracoli. Ma
non è possibile sapere se siano stati davvero eventi soprannaturali, problema che si incontra con
ogni evento straordinario anche odierno e a maggior ragione con racconti di
presunti fatti lontani nello spazio nel tempo e nella cultura.
Anche il suo insegnamento è stato additato da tanti cristiani come inarrivabile:
Gesù ha raccomandato e vissuto l’amore per tutti, anche per i nemici. Tuttavia,
l’amore non è stato predicato in genere da ogni grande uomo religioso? Inoltre
Gesù si è avvalso anche di temi già presenti nella sua e in altre culture, pur
apportandovi la propria visione individuale, radicalizzando le esigenze più
interiori dell’uomo e relativizzando quelle più esteriori.
Neppure fu senza uguali per la sua conoscenza: nei vangeli non è presentato
come un saggio eccelso, portatore di una conoscenza perfetta, immune da errori
o onnisciente: presenta aspetti di ignoranza sia riguardo a faccende ordinarie
della vita sia riguardo questioni religiose, compresa quella di aderire a
concetti religiosi-mitologici del suo tempo che oggi riteniamo superati.
E nemmeno fu del tutto singolare
perché si sarebbe sentito chiamato o
incaricato da Dio per la salvezza del suo popolo (e forse del mondo). Anche
altri profeti carismatici giudei ed altri riformatori religiosi di altre
culture e religioni hanno sentito di
avere una relazione intima con Dio, o si sono presentati come ‘messia’ o
autorizzati a parlare in nome di Dio come mediatori del sacro per gli altri.
Numerose sono le figure di fondatori di religioni, e di santoni, mistici,
dell’oriente e dell’occidente. Solo a titolo esemplificativo, si pensi a Krishna, figura storica considerata
dagli indù credenti come una delle rivelazioni o incarnazioni del Dio Vishnu;
oppure ai profeti Mani (216-277),
fondatore del manicheismo, Zarathustra
(628 – 551 a.C.) fondatore dello zoroastrismo e Maometto (570 – 632) fondatore dell’Islam, e alle loro dichiarate
rivelazioni divine su cui hanno fondato le loro pretese di essere stati inviati
da Dio stesso; e ancora, al mistico islamico Al-Hallaj che disse di essere la “Verità creativa” e per questo fu
crocifisso e suppliziato a Bagdad nel 922; oppure al profeta Smith (1805-1844), fondatore della “chiesa
dei mormoni”, che insieme a tre suoi seguaci, avrebbe ricevuto l’apparizione di
un angelo che avrebbe mostrato loro le tavole del libro sacro Mormon. Senza
dubbio Gesù si diversifica per diversi aspetti da questi e altri personaggi, ma
ciò dimostra solo che egli era un individuo, con la sua specificità e
singolarità.
Per gli autori di questa posizione
Gesù dunque sarebbe stato “solo” un mediatore-mistico carismatico. Di per sé
non si può teoricamente escludere, in base ai limiti conoscitivi della nostra
ragione, non solo che Gesù fosse stato realmente incaricato da Dio, ma addirittura
che partecipasse realmente della natura divina
di tale Dio. Ma anche fosse così, per lo stesso motivo - sostengono quegli
stessi autori - non si può nemmeno escludere che anche altri fondatori di
religioni o altri mistici con visioni alternative della realtà siano stati
inviati da Dio o siano effettivamente entrati in contatto con una presunta
entità divina e/o che siano pervenuti (o fu loro concessa) alla medesima supposta
pienezza dell’unità divino-umana realizzata in Gesù.
3. Gesù come mistico illuso o fanatico
religioso
Infine
c’è la posizione di chi considera che i seguaci di Gesù - e Gesù stesso –
potrebbero essersi illusi o ingannati a credere che Gesù fosse in relazione con
la divinità o anche l’inviato di Dio.
I motivi potrebbero essere
molteplici: o perché Dio potrebbe non aver scelto proprio lui come inviato, anche se Gesù e i suoi discepoli l’hanno
creduto, forse perché invaso(i) da una certa megalomania o fanatismo religioso;
forse Dio potrebbe aver scelto qualcun altro, per es. un altro fondatore di
religioni; oppure Dio potrebbe non aver ancora scelto nessuno di definitivo da
inviare come suo mediatore ed essere in attesa per farlo (come pensa l’ebraismo
tradizionale che attende ancora la venuta definitiva del messia); oppure Dio
potrebbe non avere alcuna intenzione di inviare alcun mediatore definitivo ed
essere in attesa di intervenire Lui stesso direttamente alla fine dei tempi
(come pensava una parte degli ebrei all’epoca di Gesù); oppure perché il divino, in generale,
potrebbe essere così trascendente da sfuggire alle possibilità dell’esperienza
umana, o potrebbe anche non esistere affatto, e quindi nessuno individuo,
nemmeno Gesù, potrebbe in realtà esperire Dio, e se credesse di averne
esperienza, si starebbe solo illudendo.
La
questione infatti non è solo quella di sapere se i testimoni siano stati
veridici - ossia se abbiano riferito fedelmente ciò che hanno esperito - ma
anche quella di sapere se, anche ammessa la loro veridicità e la loro buona
fede, si siano potuti ingannare o illudere sul contenuto della loro esperienza. In altre parole, le persone che
hanno raccontato di Gesù (nei vangeli canonici) ne hanno parlato così come esse l’avevano compreso, come avevano
compreso le sue parole e le sue azioni, come avevano capito che Gesù
comprendeva se stesso. Il Gesù che noi conosciamo è solo il Gesù che è stato
compreso da quelle persone. Possiamo arrivare solo fino alle persone che allora
parlavano di Gesù, ma mai più in là. Ma chi erano le persone che hanno parlato
di Gesù? Anche se tutti potevano aver assistito agli stessi avvenimenti su
Gesù, senz’altro vi reagirono in modo diverso. Vi devono essere stati gli
osservatori neutrali, che non rimasero particolarmente coinvolte da Gesù; poi
altri che giudicavano pericolosa l’attività di Gesù, i suoi oppositori; infine
c’erano delle persone che erano rimaste colpite e trasformate da Gesù, i suoi
seguaci. Soltanto le narrazioni dei seguaci di Gesù sono arrivate fino a noi,
conosciamo solo il loro punto di vista (o anche accenni degli oppositori, ma
sempre presentati da loro, i seguaci). Sono persone che hanno creduto di vedere nell’attività di Gesù (attività di
taumaturgo, di compagno dei poveri e peccatori) l’intervento decisivo di Dio
nel mondo, che si sono lasciati trasformare dalla convinzione che attraverso
Gesù sono entrati in comunione con Dio e successivamente qualificarono quindi
la persona di Gesù con i vari titoli
cristologici, come messia, figlio di Dio e Signore.
Ma
così non pensavano gli altri ebrei loro contemporanei che aspettavano
l’intervento visibile di Dio solo alla fine dei tempi, o che comprendevano la
sua attività di taumaturgo come opera del demonio e non di Dio, o quelli che
dovettero constatare amaramente che anche con Gesù il male era ancora presente
e la loro vita e il mondo erano rimasti pressoché immutati. Come non lo pensano
gli ebrei di oggi, che possono anche vedere in Gesù un loro “fratello”, ma un
fratello umano come loro, che si sarebbe peraltro ingannato sulla sua chiamata
messianica da parte di Dio.
Gesù
potrebbe essere stato un fanatico
apocalittico che si attendeva l’imminente trasformazione del mondo per suo
tramite; ma è evidente che così non accadde, e quindi, nella misura in cui era
convinto di ciò, si sarebbe certamente sbagliato. Tra l’altro non sarebbe stato
né il primo né l’ultimo dei “profeti” ebrei che si sarebbero ingannati sulla
loro vocazione messianica, e plausibilmente, anche in altre culture e religioni,
visto che il messianismo non era una prerogativa ebraica.
In breve, la confessione di fede è
sempre e solo una reazione a Gesù, la reazione positiva a lui, ma sempre
risposta a Gesù di chi sperimenta soggettivamente
le sue parole e le sue azioni come parole e azioni di Dio. Ma nessuno oggi ha
la possibilità di alcun accesso diretto alla fonte della loro testimonianza per
verificarne la verità. E si sa bene che le difficoltà inerenti alla
focalizzazione di tale contenuto sono enormi, poiché l’eventuale darsi di una
realtà divina appare, per definizione, quanto di meno “fattuale” esista, molto
distante dai fatti protocollari di cui parlano le scienze empiriche.
La storia può dirci che delle
persone recepirono Gesù in un certo
modo, in base a come compresero ciò
che doveva aver detto e fatto. Tramite loro, la storia può far conoscere anche
a noi, seppur relativamente ed entro certi limiti, quale fu la sua attività e
il suo messaggio, ma non (o molto più difficilmente) quali fossero le sue
convinzioni intime riguardo il suo rapporto con Dio. Ma anche ammettendo si
potesse accertare che Gesù si considerasse inviato da Dio, e quindi in qualche
senso messia, o addirittura che egli si dichiarasse o fosse convinto di essere
divino lui stesso, questo non ci direbbe ancora assolutamente nulla sulla
verità del contenuto di tale sua pretesa. Infatti si deve riconoscere che ci
sono state e ci sono persone convinte di aver fatto o di fare esperienza di
Dio, ma ci sono anche spiegazioni psicologiche e culturali di tali esperienze
che non richiedono di ammettere che il sacro sia umanamente raggiungibile o sia
reale. Non si può quindi parlare in modo intelligibile dell’intima natura di
Gesù, della sua relazione ontica con Dio, della sua essenza, o del suo vero
essere. Questo ci è del tutto precluso. La storia non può dimostrare che il
ministero di Gesù sia stato l’opera di Dio, che le sue parole fossero parole di
Dio.
Questo d’altronde non è affatto un
risultato recente: la realtà teologica di Gesù non era evidente già al suo
tempo perché tante persone che l’hanno incontrato non la vide affatto. Per
qualcuno era un maestro, per altri un fanatico, per altri un agitatore
criminale. Solo poche persone che l’hanno conosciuto conclusero che in lui
avevano incontrato Dio (S. Patterson).
Quindi
è del tutto possibile che i cosidetti “mediatori del sacro”, compreso Gesù, più
che in contatto con Dio siano solo
entrati in contatto col proprio “io”,
con la propria profonda umana interiorità, e solo abbiano creduto, ma
illudendosi, di essere in comunione con una presunta divinità. Per gli autori
di questa posizione, quindi, non sarebbe verosimile né credibile considerare
Gesù qualcosa di più di un comune, seppur notevole, essere umano, perché si
potrebbe spiegare ampiamente la sua figura e la sua storia ricorrendo solo a
determinazioni storiche intramondane e a dinamiche umane, e quindi l’ipotesi di
una “incarnazione” divina, o anche di una più modesta “chiamata” divina,
risulterebbero superflue. Per convincersi che un singolo individuo (a
differenza di tutti gli altri), che si mostrava come un uomo, fosse in realtà
(anche) Dio, o anche solo per convincersi che realmente Dio era in lui e con
lui, occorrerebbero ben altre prove e garanzie, ben più forti e decisive di
quante se ne possono reperire dall’analisi di testimonianze lontane
storicamente e culturalmente da noi, testimonianze labili e passibili di molte
interpretazioni.
In conclusione, non è possibile
dimostrare oggettivamente l’una o
l’altra di queste tre ipotesi sulla vera identità e natura di Gesù; è possibile solo ritenere soggettivamente che una sia più credibile
e plausibile delle altre. Quindi si può al massimo solo credere ragionevolmente che il cristianesimo (tradizionalmente o
diversamente inteso) sia vero, non sapere
che lo è (così come non si può sapere che non è vero, ma solo credere ragionevolmente
che non lo sia).
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