martedì 21 aprile 2015

21. Origini del CRISTIANESIMO (III)


Le espressioni della cristologia 

Gesù era dunque un carismatico itinerante. Ma come si definì e come fu definito dai suoi seguaci e dal popolo? Nei vangeli i modelli di interpretazione di Gesù sono condensati in alcuni titoli come profeta, messia, figlio dell'uomo, figlio di Dio e Signore.
Sono stati attribuiti a Gesù solo dai suoi seguaci - quando Gesù era ancora in vita o dopo la pasqua - o Gesù stesso si è autodefinito con qualcuno di tali denominazioni o si è identificato con esse? 

Profeta

            Gesù, stando ai vangeli, non rifiuta il tentativo popolare di collocare la sua opera e la sua personalità nella cornice del profetismo, ma corregge questa opinione pubblica integrandola nel suo progetto storico di annunciatore del regno e nella prospettiva del profeta rifiutato e perseguitato. Risulta pertanto possibile o verosimile che Gesù abbia fatto almeno delle allusioni a se stesso come del profeta: poteva considerarsi come il profeta inviato da Dio per il tempo finale, oppure come il servo di Dio di cui parla il Deuteroisaia.  

Messia

      Il fenomeno del messianismo, come realtà religiosa, non è specifico di Israele. Si trovano forme di messianismo anche nell’Antico Egitto, in Mesopotamia e in Grecia. È tuttavia peculiare di ogni popolo e cultura comprendere ed esprimere fenomeni comuni con tratti e mediazioni proprie.
È consueto affermare che gli ebrei attendessero il messia (unto-consacrato) per la liberazione di Israele e che, per quelli che furono poi definiti cristiani, Gesù fosse il messia atteso e predetto, mentre per tutti gli altri ebrei non fu riconosciuto come tale. Ma l’idea che tutti gli ebrei aspettassero un messia non è esatta - c’erano anche coloro che attendevano un intervento diretto di Dio stesso - e coloro che lo aspettavano avevano attese diverse.
Il termine non era connotato di un significato chiaro e condiviso, poiché c’erano diverse categorie di messianismo in seno all’ebraismo che si erano formate nel corso dei secoli: regale-davidica, sacerdotale, profetica e apocalittica. Probabilmente però la categoria regale-davidica era la più diffusa al tempo di Gesù. È verosimile che l’idea che Gesù fosse messia sia sorta durante la sua vita e che alcuni di coloro che lo accusarono ritennero che lui o i suoi discepoli pretesero che fosse il messia. Ma è anche possibile che tale designazione potesse essere stata anche solo un epiteto, piuttosto che un titolo formale o una designazione politica o religiosa, emersa in risposta a detti o azioni di Gesù percepiti come carichi dell’autorità di un mandato divino.
Se sembra verosimile che anche i discepoli durante la sua vita l’abbiano confessato come messia, non è però chiaro se Gesù stesso abbia preteso di esserlo e in che senso: di sicuro non si è mostrato apertamente come messia, nè davidico né di altro genere; è verosimile che Gesù non abbia mai chiaramente o entusiasticamente accettato il titolo nel senso in cui i discepoli o oppositori glielo proponevano (ossia regale-davidico), perché probabilmente pensava di essere messia ma di altro tipo da quello comunemente previsto. In ogni caso è con la pasqua che la messianicità di Gesù viene con più evidenza confermata e ribadita dai suoi seguaci (come si evince da Rm 1,4) che ripresero il titolo di messia ma lo ridefinirono, e Gesù divenne per loro un messia di tipo nuovo, un messia che aveva agito come operatore di miracoli e come profeta nel corso della sua vita, ma era anche il Signore celeste che sarebbe ritornato alla fine.  

Figlio dell’uomo

      "Figlio dell'uomo” può essere riferito a una figura celeste incaricata da Dio a giudicare il mondo (mutuabile da Dn 7, testo del 167-164 a.C.) oppure anche all’uomo in generale, o a una qualche persona, o infine, ma è discusso, essere sinonimo di “io”. Per alcuni poi l’espressione era un titolo già corrente negli scritti apocalittici ebraici precristiani (Dn 7,13; Libro delle parabole di Enoch) mentre per altri non c’era alcun titolo apocalittico precristiano di figlio dell’uomo.
Sembra certo che Gesù abbia usato tale espressione, ma è controverso tra gli studiosi se abbia inteso riferirla a se stesso o ad un altro (ci sono passi in entrambi i sensi) e con quale significato. Potrebbe averla usata in riferimento a se stesso anche semplicemente come autodefinizione, forse come un modo discreto per riferirsi a se stesso semplicemente come a un essere umano; o ancora riferirlo ad una figura trascendente ma distinta da lui e che solo dopo la pasqua, con il sorgere di una esplicita fede cristologia in Gesù, i suoi seguaci finirono col vederlo come il rivendicatore di se stesso (e in questo modo riuscirono a identificarlo con il figlio dell’uomo apocalittico); oppure, infine, a molti l’ipotesi più verosimile sembra essere quella in cui Gesù parli di se stesso in terza persona descrivendosi come un uomo trasformato in futuro: “facendo riferimento ad esso (figlio dell’uomo), ma non identificandosi mai d’altra parte esplicitamente con lui, non affermava quindi di essere il messia, ma di essere destinato a diventarlo come figlio dell’uomo: accennava cioè in maniera misteriosa ad una sua futura glorificazione messianica da parte di Dio” (G. Jossa). 

Figlio di Dio

       Questo titolo è l’appellativo più qualificante e più frequente usato per identificare Gesù nella tradizione cristiana. E’ noto che il termine figlio di Dio nel mondo classico dell’Antico Vicino Oriente non era affatto sconosciuto. Autorità come faraoni, imperatori e re vedevano loro stessi come figli di Dio. Questo valeva anche per persone con doni speciali, come maghi, operatori di miracoli e indovini. In particolare nell’ebraismo precristiano tale titolo era riferito al popolo d’Israele, al re, agli angeli e all’uomo giusto, e in ambiente rabbinico celebri maestri giudaici taumaturghi del I sec d.C., Hanina e Honi, vengono presentati come figli di Dio: naturalmente sempre in senso metaforico per indicare una relazione peculiare con Dio, e non per divinizzare realmente tali personaggi. Sembra anche che tale titolo cominciasse ad essere usato come titolo messianico proprio ai tempi delle origini cristiane.
Nei vangeli sinottici Gesù non si autoproclama mai figlio di Dio, sono gli altri (la voce celeste, satana, il sommo sacerdote, i suoi discepoli) che si rivolgono a lui con questa qualifica. Inoltre, anche in questi casi, viene ritenuta probabile dagli studiosi la loro origine postpasquale. I passi in cui Gesù nei sinottici si presenta come “il Figlio” (Mc 12,1-12; Mc 13,32; Mt 11,27) sono anch’essi ritenuti postpasquali e comunque poco significativi, essendo il primo una parabola, il secondo all’interno di un discorso apocalittico, il terzo una preghiera-rivelazione. In Mt e Lc inoltre Gesù è considerato figlio di Dio perché nato dal concepimento verginale di Maria, mediante lo Spirito Santo: tuttavia la storicità di questi racconti è gravemente compromessa da difficoltà di vario genere (similitudini ad altre figure storiche o mitologiche importanti, sia pagane che nell’AT; sono presenti solo in Mt e Lc; ci sono divergenze su diversi aspetti; il silenzio su questi racconti per tutto il resto dei vangeli). In contrasto con la reticenza dei sinottici, Giovanni estende maggiormente questo titolo fino a diventare parte dell’autorivelazione esplicita di Gesù (Gv 10,36; cfr. 19,7).
A partire dunque dall’esperienza dei discepoli fatta con Gesù - esperienza di colui che esprime l’autocoscienza di essere il rappresentante dell’azione escatologica definitiva di salvezza di Dio, che deriva dal rapporto particolare di Gesù con Dio che chiama abba - è nata durante la vita terrena di Gesù una cristologia profetica che si è sviluppata dopo le apparizioni pasquali che hanno arricchito l’esperienza e quindi spinto in avanti la riflessione: comincia ad essere definito giusto sofferente, messia e anche figlio di Dio in senso messianico, come in Rm 1,3-4 (se non era già usato durante la sua vita terrena).
Ma già al tempo di Paolo “figlio di Dio” cominciava ad essere usato in una ulteriore accezione, in senso più elevato: in tante formule paoline è infatti presente l’idea implicita della preesistenza di Gesù: da Gal 4,4 “nella pienezza dei tempi Dio ha inviato suo figlio…” si evince che quel soggetto sperimentato è trascendente, era presso il Padre, è stato inviato nel mondo e quindi può operare la salvezza ‘a nome di’ Dio. Così anche in 1Tm 3,16 e Fil 2,6-11, mentre altre formule oltre alla preesistenza implicano anche una mediazione creazionale: 1Cor 8,6 e Col 1,15-20.  

Signore

       Signore è un titolo di dignità e onore che riconosce il potere e l'autorità di colui a cui è riferito. Nell’AT  “Signore” è usato per tradurre vari titoli di Dio (per es Adonay, El Sadday), ma può anche essere usato in senso secolare per un padrone, un proprietario, o nell’antica Roma, per gli imperatori. Dopo la Pasqua, il titolo viene usato dai seguaci per Gesù anche in senso assoluto, ossia per rivolgersi a un essere divino che è fatto oggetto di venerazione cultuale. Da una formula prepaolina emerge che il motivo della venerazione di Gesù come Kyrios è la sua risurrezione dai morti: Rm 10,9: “Poiché se la tua bocca confessa che Gesù è il Signore e nel tuo cuore credi che Dio lo ha resuscitato dai morti, tu sei salvato”. Nell’insieme il titolo di Kyrios è attestato nel grido maranatha, in 1Cor 16,22, nell’acclamazione in Rm 10,9; in 1Cor12,3 e all’interno dell’inno di Fil 2,11; infine nell’acclamazione in 1Cor 8,6 in cui si dice che “abbiamo un solo Dio, il Padre da cui sono tutte le cose e noi per lui,” “e un solo Signore, Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e noi tramite lui”. Con questa operazione, che applica a Gesù il titolo di Kyrios, di fatto Gesù finisce vicino a Dio. Alcuni esegeti (come R.H. Fuller) interpretano tuttavia questa vicinanza solo in senso funzionale e non metafisico: “il titolo ‘Signore’ non connotava divinità in senso metafisico, ma intende che, nella sua elevazione, Gesù ha assunto una nuova funzione come rappresentante della signoria di Dio sul mondo e sulla chiesa (Fil 2,11)”.  

Conclusioni sui titoli: si è visto che probabilmente Gesù stesso finchè era in vita non si è attribuito esplicitamente nessun “titolo di dignità” elevato, anche se rimane verosimile che abbia fatto almeno delle allusioni a se stesso come del profeta (poteva considerarsi come il profeta inviato da Dio per il tempo finale, oppure come il servo di Dio di cui parla il Deuteroisaia), come del messia (ma di un messia diverso da quello generalmente atteso) o del Figlio dell’uomo escatologico (ma è difficile stabilirne il senso esatto). Esiste dunque un largo consenso sul fatto che i primi cristiani abbiano detto di Gesù molto più di quanto egli non abbia mai detto di se stesso, così come sul fatto che lo stimolo verso questa rivendicazione del carattere trascendente delle affermazioni del Gesù storico provenga dall’esperienza della pasqua.  Naturalmente la pasqua può aver confermato (ed esaltato) solo quello che già prima era emerso (in modo più implicito che esplicito) riguardo la straordinaria persona di Gesù.  



Considerazioni sulla credibilità teologica del Nuovo Testamento 

Accenniamo innanzitutto alla dottrina dell’ispirazione divina della scrittura secondo la Chiesa Cattolica, già vista per quanto riguarda la questione della garanzia di verità per l’Antico Testamento, ovvero (con qualche semplificazione) la Bibbia Ebraica. Le possibilità e i limiti di questa dottrina teologica sono quelli già espressi nei confronti dell’Ebraismo. Qui si può solo aggiungere che nel NT questa dottrina è più esplicita nei testi rispetto all’AT (vedi 1Pt 1,10-12; 2Tm 3,16; 2Pt 1,18-21), soprattutto in Giovanni quando Gesù, riguardo alla comprensione piena delle sue parole, promette l’aiuto dello Spirito Santo che “insegnerà ogni cosa, vi ricorderà tutto quello che vi ho detto…e vi guiderà alla verità tutta intera”(Gv 14,26; 16,13). Peraltro i cristiani sostengono anche che ci sia stata una rivelazione divina circa l’identità di Gesù: si veda il passo in Mt 16,16-17 in cui si dice che Pietro potè confessare che Gesù era il Messia figlio di Dio solo perché questo gli fu rivelato dal Padre che è nei cieli, e Paolo che afferma che “Nessuno può dire che Gesù è Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo”. Ma è chiaro che anche qui si tratta solo di un concetto teologico al di fuori di ogni possibile controllo razionale.
            Passando invece a considerare il rapporto tra storia e fede sulle origini del cristianesimo e quindi sulla persona di Gesù, possiamo, semplificando, ridurre a tre le più importanti interpretazioni dell’identità e della natura di Gesù, cercando di portare per ognuna i principali punti di forza:
1. Gesù come Dio; 2. Gesù come autentico mistico; 3. Gesù come mistico illuso. 

1. Gesù come “Figlio di Dio e Dio egli stesso”

            È la posizione tradizionale della fede cattolica che considera Gesù “vero Dio e vero uomo” e che il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) definisce “Figlio unigenito del Padre e Dio egli stesso” (127) e sintetizza in cinque punti il rapporto tra Gesù e Dio: 1. “Nel tempo stabilito da Dio, il Figlio unigenito del Padre, la Parola eterna, cioè il Verbo e l’Immagine sostanziale del Padre, si è incarnato senza perdere la natura divina, ha assunto la natura umana. 2. “Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, nella unità della sua persona divina; per questo motivo è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini. 3. “Gesù Cristo ha due nature, la divina e l’umana, non confuse, ma unite nell’unica Persona del Figlio di Dio. 4. “Cristo, essendo vero Dio e vero uomo, ha una intelligenza e una volontà umane, perfettamente armonizzate e sottomesse alla sua intelligenza e alla sua volontà divine, che egli ha in comune con il Padre e lo Spirito Santo. 5. “L’Incarnazione è quindi il Mistero dell’ammirabile unione della natura divina e della natura umana nell’unica Persona del Verbo”.
Questa interpretazione si basa sulla convinzione che gli scritti del NT riportino fedelmente l’esperienza vissuta dai discepoli con Gesù e la verità su Gesù stesso, e sulla convinzione che le affermazioni conciliari da cui deriva -“Dio vero da Dio vero” (Concilio di Nicea, 325) e “vero Dio e vero uomo” (Calcedonia, 451) - siano in continuità con la comprensione dell’identità divina di Gesù già presente negli scritti del NT.
Per quanto riguarda la convinzione della fedeltà e verità dei testi del NT riguardo la persona di Gesù, il Concilio Vaticano II afferma (DV, 19):
1. “la santa madre chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (At 1,1-2);
2. Gli apostoli poi dopo l’Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano;
3. E gli autori sacri scrissero i quattro vangeli, scegliendo alcune tra le molte cose che erano tramandate a voce o anche in scritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con riguardo alla situazione delle chiese; conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità”.
I testi del NT presentano Gesù come inviato da Dio a partire dal ruolo che egli assume nell’instaurazione definitiva del regno, dalla sua autorità nell’insegnamento, dall’immediatezza del suo rapporto con Dio, dalla sua promessa di perdonare i peccati, dalla convinzione che realizzasse le antiche profezie dell’AT, e soprattutto dai suoi miracoli, in particolare quello della sua risurrezione dalla morte.
            La seconda questione riguarda la continuità delle formulazioni sulla natura divina di Gesù con i testi del NT. Certamente tali formulazioni, come quelle di Nicea e di Calcedonia da cui derivano, vanno oltre a ciò che è esplicitamente affermato nel NT, ma la questione è quella di sapere se implicitamente il NT permetteva tale sviluppo, avvenuto in seguito perché sono state poste delle questioni, e in un linguaggio diverso (greco e non  ebraico), non presenti al tempo delle origini.
Innanzitutto le affermazioni elevate sulla persona di Gesù derivano dall’aver fatto esperienza, da parte dei suoi discepoli, del suo singolare carisma durante la sua vita terrena - espresso nel suo insegnamento autorevole e nel suo comportamento (interesse per gli ultimi e attività taumaturgica), che denotavano, forse solo implicitamente ma non meno potentemente, la sua convinzione di essere la figura centrale del dramma escatologico che egli annunciava e augurava e la sua posizione speciale nella relazione con Dio - e dopo la sua morte nell’esperienza della risurrezione - tramite le apparizioni (e la tomba vuota) si è dedotta la risurrezione di Gesù, vista come conferma da parte di Dio di  ciò che anche prima della morte di Gesù era stato intuito di elevato riguardo la sua persona.
Se poi si considerano le affermazioni elevate su Gesù, nelle più antiche lettere paoline troviamo già, a prima di trent’anni dalla morte di Gesù, una cristologia molto elevata, ed ebraica, in cui Gesù viene identificato come il Signore, reso figlio di Dio per la risurrezione, mediante il quale sono tutte le cose che sono, che andava adorato, che preesisteva presso Dio (per es. in 1Cor 8,6; Fil 2,5-11; Col 1,15-20; Gal 4,1-11). Negli anni 70-90 i sinottici dichiarano Gesù messia, figlio di Dio (talvolta Signore) e in Mt e Lc la sua identità divina è collegata alla sua nascita miracolosa. Negli Atti degli anni 80 Pietro e Paolo vengono presentati che predicano Gesù messia, figlio di Dio, Signore e Salvatore che risiede presso il Padre. Gv verso il 100 porta a sviluppo l’esaltazione di Gesù quando presuppone l’incarnazione, in cui la Parola divina diventa uomo in Gesù: nel Prologo si dice non solo che mediante la parola (che è il Figlio) tutte le cose sono state create, ma anche che la Parola esisteva, alla presenza di Dio, prima della creazione; in 17,5 il Gesù giovanneo dice letteralmente e coscientemente di aver avuto un’esistenza gloriosa col Padre prima che il mondo fosse (cfr 16,28; 3,13; 5,19; 8,26.58); importanti sono i passi in cui Gesù si definisce con “Io sono” (8,24 e 8,58) che, riprendendo l’AT, hanno l’effetto di presentare Gesù come divino, con una (pre)esistenza proporzionata alla sua identità, proprio come l’AT greco comprendeva il Dio D’Israele. In Gv si ha anche tra l’altro la famosa esclamazione di Tommaso verso Gesù “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28) che è l’esempio più chiaro nel NT dell’uso del termine “Dio” per Gesù. I passi paolini e della lettera agli Ebrei visti all’inizio mostrano comunque che una cristologia precreazionale implicante una ‘incarnazione’ non era un’aberrazione o una creazione dal nulla di Gv, ma al più, una chiarificazione, nella struttura del vangelo, di idee che circolavano altrove tra i primi cristiani (quindi “Dio vero da Dio vero” non proviene solo da Gv). Tra i vangeli solo Gv presuppone apertamente l’incarnazione in cui la Parola divina diventa carne ed abita in mezzo a noi come Gesù Cristo. Quando gli altri vangeli parlano della venuta del figlio dell’uomo essi si riferiscono alla parusia alla fine dei tempi; senza escludere questa Gv accentua principalmente la provenienza divina del figlio dell’uomo nell’incarnazione. Se nel restante pensiero del NT l’atto supremo dell’amore di Dio in Gesù era l’autodonazione implicata nella crocifissione, in Gv 3,16-21 l’atto supremo consiste nell’inviare il Figlio nel mondo, che porta la stessa vita eterna di Dio a coloro che credono, rendendoli figli di Dio.
Si può dunque mostrare una sostanziale continuità tra il NT e lo sviluppo delle formule di Nicea. Quando tra il II e il IV sec. la proclamazione cristiana era ascoltata da persone formate nel pensiero filosofico greco, inevitabilmente queste posero, circa la formazione di una cristologia, questioni che non erano state poste nel I sec. La chiesa, tramite un concilio come quello di Nicea, voleva preservare e garantire l’esatta comprensione della rivelazione, nella fedeltà alle indicazioni del NT, per evitare che la rivelazione del NT fosse perduta o erroneamente compresa. Perciò respinse determinate proposte come inadeguate.
Lo sviluppo dottrinale dei concili non si trova esplicito nel NT, ma ha origine dall’interpretazione della rivelazione neotestamnetaria in una direzione indicata dal NT.
Si analizzino le dichiarazioni cristologiche fatte a Nicea (“Dio vero da Dio vero”) e a Calcedonia (“vero Dio e vero uomo”): nessun passo del NT afferma con precisione che il Figlio coesisteva dall’eternità con il Padre, non si trova alcun ‘momento’ neotestamentario precedente a “In principio era la Parola” di Gv 1,1. Tuttavia Ario la interpretava nel senso che Gesù era veramente il Figlio divino di Dio, come le Scritture affermavano, ma poiché i padri esistono prima dei figli, solo il Padre celeste, non il Figlio, è eterno e senza origine, mentre Atanasio, nella sua replica, sosteneva che, ritenendo che il Verbo fosse ‘divenuto’e ponendo una differenza temporale tra Padre e Figlio, Ario si muoveva in una direzione contraria al NT (che si opponeva a limitazioni temporali nell’identità di Gesù). Così Atanasio condusse il Concilio di Nicea a condannare Ario, insistendo sul fatto che la Parola, o Figlio divino, non aveva inizio. Il Concilio usò formule come ‘generato’, ‘non fatto’, ‘non c’era un tempo in cui Egli non fosse’, ‘Dio vero da Dio vero’, ‘coeterno col Padre’. Il fatto che queste specificazioni non si trovassero nel NT non imbarazzava Atanasio; infatti egli riteneva che Ario avesse sollevato una questione non specificatamente posta ai tempi del NT e che, perciò, non poteva avere risposte con citazioni del NT. La questione più importante per Atanasio era che la necessaria specificazione postbiblica fosse fedele all’orientamento del NT: “Se le espressioni non si trovano con identiche parole nelle Scritture, tuttavia esse contengono il senso delle Scritture” (Atanasio, Lettere sui decreti del Concilio di Nicea, 5, 18-21). Nicea si muove nella direzione del NT quando rigetta questo tentativo finale di formulare l’identità di Gesù nel linguaggio del ‘divenire’: conformemente all’uso giovanneo dei verbi, Nicea implicitamente sceglie per Gesù la terminologia ‘è/era’ rispetto a quella di ‘diventa/diventò’. Dopotutto egli è il Figlio di Colui il cui santissimo nome veterotestamentario Jhwh è stato compreso come ‘Colui che è’.
Forse la tendenza ad interpretare (scorrettamente) affermazioni bibliche su Gesù come se fossero formule di divenire risiede nell’idea del messia, il re unto della casa di Davide, suscitato da Dio per Israele: il termine ‘diventare’ si adatta ai re, poiché anche se si nasce eredi al trono uno poi deve essere incoronato e così diventa re. E così una volta che Gesù fu identificato come il Messia, potrebbe esserci stata la questione, probabilmente inconscia, sul quando egli sarebbe diventato messia. Anche la risurrezione era intesa come intronizzazione in cielo, e il linguaggio veterotestamentario della regalità era impiegato per descrivere questi e altri ‘momenti’: si veda l’“incoronazione” nel Sal 2 usata sia per la risurrezione che per il battesimo, e la promessa di successione monarchica a Davide in 2Sam 7 usata nell’annunciazione lucana del concepimento.
In conclusione, la teologia ufficiale tradizionale cristiano-cattolica ritiene sia che gli scritti del NT riportino fedelmente l’esperienza vissuta dai discepoli con Gesù e la verità su Gesù stesso, e che dunque siano credibili e affidabili anche per l’uomo d’oggi, sia che la convinzione sull’identità di Gesù come uomo-Dio sia in continuità con la comprensione dell’identità divina di Gesù già presente in quegli scritti.   

2. Gesù come autentico mistico carismatico

            La seconda posizione è quella di chi considera Gesù un semplice, seppur notevole, uomo, che era realmente in intima relazione con un Dio esistente: un autentico mistico, una persona ripiena in modo straordinario dello Spirito di Dio, che avrebbe avuto frequenti e vivide esperienze del sacro, come visioni ed esperienze mistiche. Forse come altri individui, o forse più di altri.
Non solo storici ma anche teologi cristiani condividono questa interpretazione.
            Il NT infatti non sembra rispondere in modo univoco e esplicito alla domanda sulla natura ontica umana e/o divina di Gesù. Nel NT si ribadisce la distinzione del Figlio di Dio da Dio Padre e l’obbedienza, la subordinazione del primo nei confronti del secondo. Il Padre è “più grande” di Cristo e ci sono cose che soltanto lui conosce. In nessun luogo del NT si parla dell’incarnazione di Dio stesso. A diventare uomo è sempre il Figlio o la Parola di Dio stesso. In pratica nel NT il termine Dio denota sempre il Padre. Quasi mai, e da Paolo assolutamente mai, Gesù viene chiamato esplicitamente Dio. In nessun passo dei sinottici Gesù si autoproclama nemmeno figlio di Dio e mai in assoluto, nemmeno in Gv, si autodefinisce Dio. Emblematici sono i passi di Mc 10,18 e di At 2,22 in cui Gesù si distingue nettamente da Dio (in Mc) e  viene presentato come un semplice “uomo accreditato da Dio” (in At). A prescindere dal tardivo vangelo di Gv - nell’esclamazione dell’incredulo Tommaso “Mio Signore e mio Dio” - soltanto in pochi casi eccezionali anch’essi tardivi e influenzati ellenisticamente, Gesù viene designato direttamente come Dio. La fede nella divinità di Gesù per la cristianità deriva sostanzialmente da Gv, il vangelo più tardo, più teologicamente evoluto e soggettivo, mentre il Cristo come redentore dell’umanità e Signore vicino a Dio deriva soprattutto dal convertito Paolo. Gli Atti (e i sinottici) presentano invece perlopiù Gesù come un ebreo carismatico, un profeta che Dio ha innalzato al rango di Cristo e Signore dopo averlo risuscitato dai morti. Ancora nei sinottici, i testi da cui si può pur relativamente arguire quale potesse essere il Gesù storico, Gesù è presentato come un predicatore, un guaritore ed esorcista itinerante Galileo, per alcuni messia e “figlio di Dio” ma mai identificato con Dio.
Considerando dunque l’ambiguità della fonti del NT sulla relazione ontologica tra Dio e Gesù, l’uso non metafisico in ambiente giudaico dell’espressione figlio di Dio, e la problematicità per la cultura contemporanea di concepire una letterale incarnazione divina (visto che il quadro mitico nel quale questa credenza era sorta oggi non esiste più), diversi teologi cristiani liberali - tra gli altri, R. Bultmann, H. Kung, J. Hick, S.J. Patterson, A. Gounelle, M. Borg - pensano sia più adeguato e plausibile interpretare in modo metaforico, non letterale, l’espressione Figlio di Dio riferita a Gesù e quindi la conseguente nozione di “incarnazione”. Alcuni vedono in Gesù colui che ha rivelato il vero volto di Dio, oppure come la persona in cui si può sperimentare la vicinanza di Dio, ma non Dio egli stesso.
Secondo questa prospettiva Gesù sarebbe stato un individuo carismatico, un ‘mistico’ e guaritore ebreo, oltre che maestro e ‘profeta’. Queste caratteristiche sono ben supportate dalle fonti del NT e dal contesto ebraico.
Il ritratto di Gesù è ricco di pennellate che lo dipingono come un ‘mistico’ che prega frequentemente, che ha visioni (al battesimo sente la voce che gli dichiara la sua fiducia e riceve la forza dallo Spirito Santo, si riferiscono le sue prove nel deserto cioè le ‘possessioni’ in cui lo Spirito Santo lo fa scontrare con lo spirito del male), che insegna con l’autorità dello Spirito. Il centro della sua esperienza mistica sembra essere stato una assoluta concentrazione su Dio, all’interno dell’ebraismo ma in maniera personale. Egli cerca di capire da Dio ciò che deve fare, prega, lo supplica.
Che fosse percepito come guaritore ed esorcista le fonti non lasciano dubbi. Convinto del suo potere dello Spirito guariva e scacciava demoni. Tra l’altro non era il solo, visto che anche contemporanei di Gesù furono taumaturghi, come  Honi e  Hanina.
Oltre a mistico e taumaturgo può anche essersi presentato come maestro di sapienza: il suo insegnamento, in brevi detti (aforismi) o in storie (parabole), aveva lo scopo di spingere gli ascoltatori a un diverso modo di vedere, di vedere Dio, se stessi, la vita. Doveva pensare che Dio era accessibile al di là delle convenzioni e delle istituzioni. Certi tratti della sua attività e insegnamento sembrano anche avvicinarlo a un profeta del regno di Dio, considerato che il regno era il tema centrale dei suoi discorsi e della sua opera, e come profeta sociale, visto che quella dei profeti era una categoria diffusa nell’antico Israele, noti per la loro esperienza diretta del sacro e per la critica radicale dell’ordine politico e sociale, tema presente anche in Gesù.
            D’altra parte non è stato l’unico individuo carismatico a rivendicare una vicinanza particolare a Dio. Non è facile trovare qualche caratteristica di Gesù che sia del tutto unica nella storia della cultura o delle religioni: né i suoi miracoli, né la sua non violenza, né la speranza escatologica e neppure la promessa agli esclusi.
In particolare i miracoli sono patrimonio di ogni cultura in ogni tempo; anche ebrei della sua epoca e ambiente compivano miracoli. Ma non è possibile sapere se siano stati davvero eventi  soprannaturali, problema che si incontra con ogni evento straordinario anche odierno e a maggior ragione con racconti di presunti fatti lontani nello spazio nel tempo e nella cultura.
Anche il suo insegnamento è stato additato da tanti cristiani come inarrivabile: Gesù ha raccomandato e vissuto l’amore per tutti, anche per i nemici. Tuttavia, l’amore non è stato predicato in genere da ogni grande uomo religioso? Inoltre Gesù si è avvalso anche di temi già presenti nella sua e in altre culture, pur apportandovi la propria visione individuale, radicalizzando le esigenze più interiori dell’uomo e relativizzando quelle più esteriori.
Neppure fu senza uguali per la sua conoscenza: nei vangeli non è presentato come un saggio eccelso, portatore di una conoscenza perfetta, immune da errori o onnisciente: presenta aspetti di ignoranza sia riguardo a faccende ordinarie della vita sia riguardo questioni religiose, compresa quella di aderire a concetti religiosi-mitologici del suo tempo che oggi riteniamo superati.
E nemmeno fu del tutto singolare perché si sarebbe sentito chiamato o incaricato da Dio per la salvezza del suo popolo (e forse del mondo). Anche altri profeti carismatici giudei ed altri riformatori religiosi di altre culture e religioni hanno sentito  di avere una relazione intima con Dio, o si sono presentati come ‘messia’ o autorizzati a parlare in nome di Dio come mediatori del sacro per gli altri. Numerose sono le figure di fondatori di religioni, e di santoni, mistici, dell’oriente e dell’occidente. Solo a titolo esemplificativo, si pensi a Krishna, figura storica considerata dagli indù credenti come una delle rivelazioni o incarnazioni del Dio Vishnu; oppure ai profeti Mani (216-277), fondatore del manicheismo, Zarathustra (628 – 551 a.C.) fondatore dello zoroastrismo e Maometto (570 – 632) fondatore dell’Islam, e alle loro dichiarate rivelazioni divine su cui hanno fondato le loro pretese di essere stati inviati da Dio stesso; e ancora, al mistico islamico Al-Hallaj che disse di essere la “Verità creativa” e per questo fu crocifisso e suppliziato a Bagdad nel 922; oppure al profeta Smith (1805-1844), fondatore della “chiesa dei mormoni”, che insieme a tre suoi seguaci, avrebbe ricevuto l’apparizione di un angelo che avrebbe mostrato loro le tavole del libro sacro Mormon. Senza dubbio Gesù si diversifica per diversi aspetti da questi e altri personaggi, ma ciò dimostra solo che egli era un individuo, con la sua specificità e singolarità.
Per gli autori di questa posizione Gesù dunque sarebbe stato “solo” un mediatore-mistico carismatico. Di per sé non si può teoricamente escludere, in base ai limiti conoscitivi della nostra ragione, non solo che Gesù fosse stato realmente incaricato da Dio, ma addirittura che partecipasse realmente della natura divina di tale Dio. Ma anche fosse così, per lo stesso motivo - sostengono quegli stessi autori - non si può nemmeno escludere che anche altri fondatori di religioni o altri mistici con visioni alternative della realtà siano stati inviati da Dio o siano effettivamente entrati in contatto con una presunta entità divina e/o che siano pervenuti (o fu loro concessa) alla medesima supposta pienezza dell’unità divino-umana realizzata in Gesù.  

3. Gesù come mistico illuso o fanatico religioso

            Infine c’è la posizione di chi considera che i seguaci di Gesù - e Gesù stesso – potrebbero essersi illusi o ingannati a credere che Gesù fosse in relazione con la divinità o anche l’inviato di Dio.
I motivi potrebbero essere molteplici: o perché Dio potrebbe non aver scelto proprio lui come inviato, anche se Gesù e i suoi discepoli l’hanno creduto, forse perché invaso(i) da una certa megalomania o fanatismo religioso; forse Dio potrebbe aver scelto qualcun altro, per es. un altro fondatore di religioni; oppure Dio potrebbe non aver ancora scelto nessuno di definitivo da inviare come suo mediatore ed essere in attesa per farlo (come pensa l’ebraismo tradizionale che attende ancora la venuta definitiva del messia); oppure Dio potrebbe non avere alcuna intenzione di inviare alcun mediatore definitivo ed essere in attesa di intervenire Lui stesso direttamente alla fine dei tempi (come pensava una parte degli ebrei all’epoca di Gesù);  oppure perché il divino, in generale, potrebbe essere così trascendente da sfuggire alle possibilità dell’esperienza umana, o potrebbe anche non esistere affatto, e quindi nessuno individuo, nemmeno Gesù, potrebbe in realtà esperire Dio, e se credesse di averne esperienza, si starebbe solo illudendo.
            La questione infatti non è solo quella di sapere se i testimoni siano stati veridici - ossia se abbiano riferito fedelmente ciò che hanno esperito - ma anche quella di sapere se, anche ammessa la loro veridicità e la loro buona fede, si siano potuti ingannare o illudere sul contenuto della loro esperienza. In altre parole, le persone che hanno raccontato di Gesù (nei vangeli canonici) ne hanno parlato così come esse l’avevano compreso, come avevano compreso le sue parole e le sue azioni, come avevano capito che Gesù comprendeva se stesso. Il Gesù che noi conosciamo è solo il Gesù che è stato compreso da quelle persone. Possiamo arrivare solo fino alle persone che allora parlavano di Gesù, ma mai più in là. Ma chi erano le persone che hanno parlato di Gesù? Anche se tutti potevano aver assistito agli stessi avvenimenti su Gesù, senz’altro vi reagirono in modo diverso. Vi devono essere stati gli osservatori neutrali, che non rimasero particolarmente coinvolte da Gesù; poi altri che giudicavano pericolosa l’attività di Gesù, i suoi oppositori; infine c’erano delle persone che erano rimaste colpite e trasformate da Gesù, i suoi seguaci. Soltanto le narrazioni dei seguaci di Gesù sono arrivate fino a noi, conosciamo solo il loro punto di vista (o anche accenni degli oppositori, ma sempre presentati da loro, i seguaci). Sono persone che hanno creduto di vedere nell’attività di Gesù (attività di taumaturgo, di compagno dei poveri e peccatori) l’intervento decisivo di Dio nel mondo, che si sono lasciati trasformare dalla convinzione che attraverso Gesù sono entrati in comunione con Dio e successivamente qualificarono quindi la persona di Gesù con i vari titoli cristologici, come messia, figlio di Dio e Signore.
            Ma così non pensavano gli altri ebrei loro contemporanei che aspettavano l’intervento visibile di Dio solo alla fine dei tempi, o che comprendevano la sua attività di taumaturgo come opera del demonio e non di Dio, o quelli che dovettero constatare amaramente che anche con Gesù il male era ancora presente e la loro vita e il mondo erano rimasti pressoché immutati. Come non lo pensano gli ebrei di oggi, che possono anche vedere in Gesù un loro “fratello”, ma un fratello umano come loro, che si sarebbe peraltro ingannato sulla sua chiamata messianica da parte di Dio.
            Gesù potrebbe essere stato un fanatico apocalittico che si attendeva l’imminente trasformazione del mondo per suo tramite; ma è evidente che così non accadde, e quindi, nella misura in cui era convinto di ciò, si sarebbe certamente sbagliato. Tra l’altro non sarebbe stato né il primo né l’ultimo dei “profeti” ebrei che si sarebbero ingannati sulla loro vocazione messianica, e plausibilmente, anche in altre culture e religioni, visto che il messianismo non era una prerogativa ebraica.
In breve, la confessione di fede è sempre e solo una reazione a Gesù, la reazione positiva a lui, ma sempre risposta a Gesù di chi sperimenta soggettivamente le sue parole e le sue azioni come parole e azioni di Dio. Ma nessuno oggi ha la possibilità di alcun accesso diretto alla fonte della loro testimonianza per verificarne la verità. E si sa bene che le difficoltà inerenti alla focalizzazione di tale contenuto sono enormi, poiché l’eventuale darsi di una realtà divina appare, per definizione, quanto di meno “fattuale” esista, molto distante dai fatti protocollari di cui parlano le scienze empiriche.
La storia può dirci che delle persone recepirono Gesù in un certo modo, in base a come compresero ciò che doveva aver detto e fatto. Tramite loro, la storia può far conoscere anche a noi, seppur relativamente ed entro certi limiti, quale fu la sua attività e il suo messaggio, ma non (o molto più difficilmente) quali fossero le sue convinzioni intime riguardo il suo rapporto con Dio. Ma anche ammettendo si potesse accertare che Gesù si considerasse inviato da Dio, e quindi in qualche senso messia, o addirittura che egli si dichiarasse o fosse convinto di essere divino lui stesso, questo non ci direbbe ancora assolutamente nulla sulla verità del contenuto di tale sua pretesa. Infatti si deve riconoscere che ci sono state e ci sono persone convinte di aver fatto o di fare esperienza di Dio, ma ci sono anche spiegazioni psicologiche e culturali di tali esperienze che non richiedono di ammettere che il sacro sia umanamente raggiungibile o sia reale. Non si può quindi parlare in modo intelligibile dell’intima natura di Gesù, della sua relazione ontica con Dio, della sua essenza, o del suo vero essere. Questo ci è del tutto precluso. La storia non può dimostrare che il ministero di Gesù sia stato l’opera di Dio, che le sue parole fossero parole di Dio.
Questo d’altronde non è affatto un risultato recente: la realtà teologica di Gesù non era evidente già al suo tempo perché tante persone che l’hanno incontrato non la vide affatto. Per qualcuno era un maestro, per altri un fanatico, per altri un agitatore criminale. Solo poche persone che l’hanno conosciuto conclusero che in lui avevano incontrato Dio (S. Patterson).
            Quindi è del tutto possibile che i cosidetti “mediatori del sacro”, compreso Gesù, più che in contatto con Dio siano solo entrati in contatto col proprio “io”, con la propria profonda umana interiorità, e solo abbiano creduto, ma illudendosi, di essere in comunione con una presunta divinità. Per gli autori di questa posizione, quindi, non sarebbe verosimile né credibile considerare Gesù qualcosa di più di un comune, seppur notevole, essere umano, perché si potrebbe spiegare ampiamente la sua figura e la sua storia ricorrendo solo a determinazioni storiche intramondane e a dinamiche umane, e quindi l’ipotesi di una “incarnazione” divina, o anche di una più modesta “chiamata” divina, risulterebbero superflue. Per convincersi che un singolo individuo (a differenza di tutti gli altri), che si mostrava come un uomo, fosse in realtà (anche) Dio, o anche solo per convincersi che realmente Dio era in lui e con lui, occorrerebbero ben altre prove e garanzie, ben più forti e decisive di quante se ne possono reperire dall’analisi di testimonianze lontane storicamente e culturalmente da noi, testimonianze labili e passibili di molte interpretazioni.  

In conclusione, non è possibile dimostrare oggettivamente l’una o l’altra di queste tre ipotesi sulla vera identità e natura di Gesù; è possibile solo ritenere soggettivamente che una sia più credibile e plausibile delle altre. Quindi si può al massimo solo credere ragionevolmente che il cristianesimo (tradizionalmente o diversamente inteso) sia vero, non sapere che lo è (così come non si può sapere che non è vero, ma solo credere ragionevolmente che non lo sia).

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