Consideriamo ora il cristianesimo,
la religione della nostra area culturale nella quale siamo stati educati. Diamo
per conosciuti i contenuti fondamentali della nostra religione (reperibili nel Credo). È noto che il Dio d’Israele,
Yahvè, è lo stesso Dio di Gesù, per cui il legame tra ebraismo e cristianesimo
è molto stretto. Allo stesso tempo le due religioni sono molto lontane se
pensiamo che per i cristiani (tradizionali) Gesù è il Figlio di Dio inviato da
questi nel mondo, il Salvatore, Signore e Dio lui stesso, mentre per gli ebrei
Gesù non è stato nemmeno il messia inviato da Dio.
Quello che ci domandiamo è: la
convinzione della religione cristiana di concepire Gesù come il Salvatore,
Signore e Dio, può avere - e se sì, in che senso e in che misura - conferma o
smentita storiche? Detto altrimenti:
la ricerca storica fin dove ci permette di arrivare circa la conoscenza del
messaggio e dell’attività, e ancor più importante, della persona e
dell’identità di Gesù? Che cosa sappiamo storicamente su Gesù di Nazaret?
Insomma: la religione cristiana può trovare conferma o anche solo appoggio
dalla storia sulle sue origini, o al
contrario può trovarvi smentita o anche solo una critica? Vediamo.
Le fonti
cristiane canoniche
Gesù non ci ha lasciato alcuno
scritto. Le fonti che ci permettono l’accesso alla sua figura storica sono di
tre tipi. In primo luogo ed
essenzialmente la nostra conoscenza si basa su fonti cristiane, di cui le
principali sono i quattro vangeli canonici, cui si aggiungono gli altri scritti
del Nuovo Testamento, nonché i vangeli
apocrifi. In secondo luogo vengono i testi dello storico ebreo Giuseppe Flavio,
cui si possono aggiungere alcune altre fonti giudaiche, come alcuni passi del Talmud
babilonese. Infine si possono computare le fonti pagane, che si riducono
fondamentalmente a brevi notizie offerte dagli storici romani Tacito e
Svetonio, dal governatore Plinio il Giovane, e da un certo Mara bar-Seraption.
I
quattro vangeli canonici, non sono propriamente una biografia, ma testimonianze
impegnate di individui che avevano creduto in Gesù come al messia, figlio di
Dio, Signore e Salvatore. Questo non significa che non siano affatto storici,
ma solo che riferiscono eventi storici entro un contesto d’interpretazione
teologica. La maggior parte degli studiosi ritiene che i quattro vangeli
canonici siano stati composti tra il 70 e il 100 d.C. (verosimilmente Mc nel
70, Mt nell’80, Lc nel 90 e Gv nel 100).
Come si formarono i vangeli?
Essi sono la raccolta e la
rielaborazione di tradizioni, prima orali e poi scritte, formatesi tra i suoi
seguaci dopo la sua morte. Il ricordo di Gesù venne trasmesso prima oralmente
dai suoi discepoli, dai suoi seguaci, dalle comunità in fase di formazione in
diverse località (Gerusalemme, Antiochia, Grecia, Asia, Roma). Tale tradizione
orale non proliferò per altro in modo incontrollato, ma si formò molto
probabilmente piuttosto presto un corpus ben definito di elementi tradizionali,
curato e controllato pur permettendo certo un relativo spazio di libertà in
abbellimenti e integrazioni narrative. Con gli anni si cominciarono a mettere
per iscritto certi racconti e detti di Gesù e solo a distanza di vari decenni
(sotto la spinta di circostanze esterne di vario tipo) la tradizione orale e
scritta venne raccolta e rielaborata
fino ad arrivare ai vangeli che conosciamo.
Gli originali dei libri che
compongono il NT greco non ci sono pervenuti. Tuttavia abbiamo copie (o meglio
copie, delle copie, delle copie, ecc.) assai antiche dei libri originali, dette
“manoscritti”, peraltro tradotte in varie lingue dell’antico Vicino Oriente (e
varie copie di queste traduzioni, dette “versioni” sono a nostra disposizione).
C’è da segnalare che, in molte di queste, riguardanti lo stesso testo, si
trovano spesso differenze, più o meno importanti, che possono essere imputate
sia a distrazioni ed errori dei copisti,
ma anche ad alterazioni e adattamenti intenzionali inerenti alle controversie
dottrinali avvenute nel protocristianesimo dove rivaleggiavano “versioni”
diverse di cristianesimo.
Per vagliare l'autenticità storica
delle fonti occorre tener conto sia della loro datazione (più una fonte è
antica, cioè vicina alla vita di Gesù, più verosimilmente riporta fatti
storici) sia della indipendenza delle fonti tra loro (più fonti di diversi
autori abbiamo da confrontare, più verosimilmente ci avviciniamo alla realtà
storica).
Si devono innanzitutto distinguere i
primi tre vangeli da quello di Giovanni: i primi sono detti
"sinottici" perché sul piano letterario sono in parte dipendenti uno
dall'altro e tratteggiano un quadro simile fra loro ma differente rispetto al
vangelo di Giovanni.
Oggi la teoria più sostenuta per
spiegare la formazione e le caratteristiche (similitudini e differenze tra
loro) dei sinottici è la ‘teoria delle due fonti’ in base alla
quale il vangelo di Mc è il vangelo più
antico e sta alla base di Mt e Lc come loro fonte; inoltre sia Mt che Lc
utilizzano la fonte dei logia, detta fonte Q, una fonte desunta, ipotetica in
quanto nessun esemplare scritto ci è mai pervenuto, ma che è possibile
ricostruire deduttivamente a partire da essi.
Quindi Marco usando diverse
collezioni di tradizioni orali e forse scritte, compose il suo vangelo intorno
al 70 d.C.. Matteo e Luca, invece, lavorando indipendentemente uno dall'altro,
composero i vangeli più lunghi nel periodo tra il 70 e il 100 (più
verosimilmente l'80 per Matteo e il 90 per Luca), combinando ed elaborando
Marco, la fonte Q e anche tradizioni speciali peculiari a Mt e Lc. Le due fonti
fondamentali cui si riferisce la teoria descritta sono pertanto Marco e Q. La soluzione sopra descritta è quella avvallata dalla maggior
parte degli studiosi.
Analizziamo ora le singole fonti.
Il vangelo di Marco: sebbene l’autore rimanga non identificato nel
vangelo stesso, secondo la più antica tradizione ecclesiastica sarebbe stato
scritto a Roma dall'interprete di Pietro, Giovanni Marco, sulla base di
esposizioni orali dello stesso Pietro. Nondimeno la natura del materiale
incluso in Marco evidenzia come per un periodo esso sia circolato oralmente,
prima che l’autore lo raccogliesse e lo trascrivesse; è dunque dubbio che Marco
abbia semplicemente trascritto ciò che aveva udito da Pietro. Facendo poi
riferimento alla distruzione del tempio di Gerusalemme (Mc 13,2) la data di
composizione può collocarsi attorno al momento in cui ebbe luogo questo evento,
il 70 dC.. Poiché fu scritto in greco e presenta interpretazioni delle frasi in
aramaico, la lingua della Palestina, i lettori a cui si rivolgeva
originariamente non erano palestinesi, ma pagani. Inoltre la spiegazione di usi
ebraici (7,3-4) e la scarsa conoscenza della geografia palestinese, pone il
luogo dell’origine al di fuori di tale regione (forse in qualche città siriaca
ellenistica vicina, per esempio Antiochia).
L'evangelista è un collettore (riprende infatti materiali
tradizionali, sia scritti che orali, con caratteristiche diverse) ed è teologo che imprime una sua forma al
materiale tradizionale di cui dispone, in quanto lo combina insieme all'insegna
di ampi motivi cristologici dominanti e crea il suo racconto sul tema
fondamentale della passione. L'importanza di Marco per la ricostruzione della
dottrina e della vita di Gesù non è legata al suo schema cronologico e
geografico - che, come negli altri vangeli, è storicamente poco attendibile in
quanto secondario e dipendente da premesse teologiche - bensì per i materiali
tradizionali offerti che risalgono in parte molto indietro.
La fonte Q, si è detto, è l'altra fonte a cui Mt e Lc attingono
(probabilmente era a loro disposizione in lingua greca e in forma scritta) e
contiene quasi esclusivamente detti di
Gesù (detti profetici, apocalittici,
legali, oltre a direttive per la comunità e parabole) mentre manca un racconto
della passione. Verosimilmente riporta la predicazione dei primi cristiani
itineranti centrata sull'appello alla sequela di Gesù di fronte all'imminente
regno di Dio. Gesù in quanto figlio di Dio è il maestro che annuncia la volontà
di Dio ed è atteso come giudice escatologico. La sua morte è interpretata come
destino del profeta: Gesù è uno dei molti messaggeri della sapienza fatti
oggetto di rifiuto (Lc13,34 ss.; 11,49 ss.) ma manca ogni indicazione che gli
artefici di Q intendessero che la morte di Gesù avesse una speciale importanza
salvifica. Q, o meglio, la sua redazione
finale (si suppone derivi da raccolte minori e sia stata redatta in più fasi),
risale a prima della guerra giudaica, poiché in essa l’avvento del figlio
dell’uomo è atteso in tutta tranquillità e ricorre la minaccia che Dio
abbandonerà il tempio. Probabilmente è da datare fra il 50 e il 70, e dovrebbe
essere sorta in Palestina.
Il
vangelo di Matteo: presumibilmente
scritto in Siria (Damasco/Antiochia?) negli anni 80 da un cristiano sconosciuto
appartenente ad una chiesa siriaca. Il legame chiaro fra le tradizioni
giudeocristiane ed etnico-cristiane e la polemica intensa con le autorità
giudaiche, rispecchiano il rapporto che l'autore di fatto intrattiene con il
giudaismo. Rispetto a Marco, nel vangelo di Matteo l’elevatezza di Gesù è
fortemente sottolineata. Matteo interpreta la vita di Gesù come compimento
della legge e dei profeti, e per questo è tratteggiato soprattutto come maestro
che propone in modo articolato la volontà di Dio.
Il
vangelo di Luca: sebbene l’autore non
sia identificato nel testo, secondo la tradizione ecclesiastica (Ireneo, II
sec.) l'autore del terzo vangelo e degli Atti sarebbe Luca, medico e compagno
di viaggio di Paolo. Tuttavia oggi il consenso critico, se è d’accordo che sia
il vangelo di Luca che gli Atti siano stati scritti da una sola persona (per le
similitudini letterarie e tematiche presenti), nella maggioranza (non totalità)
dissente dalla tradizionale identificazione di questo autore quale compagno di
Paolo per le numerose contraddizioni tra l'esposizione degli Atti e le lettere
paoline autentiche. Quindi l’autore, pur rimanendo all’interno della
tradizione, rimane sconosciuto. Il vangelo di Lc dev’essere sorto in ambiente
mediterraneo (Egeo/Roma?), intorno agli anni 90. Luca dipinge Gesù come
Salvatore unto con lo Spirito di Dio, che nel nome di Dio si fà carico dei
deboli e degli emarginati e annuncia ad essi la salvezza.
Il vangelo di Giovanni: tradizionalmente (secondo Ireneo) fu scritto
ad Efeso da Giovanni, figlio di Zebedeo, uno dei dodici e fratello di Giacomo.
In Gv 21,24 gli editori del vangelo menzionano come suo autore e garante della
sua veridicità il discepolo prediletto ma sembrano essere interessati alla sua
anonimità letteraria. A un vaglio critico si può al massimo far derivare da Gv
21,20 e dagli altri passi in cui si parla del discepolo amato, l'idea che il
gruppo cristiano entro il quale ha preso forma il vangelo di Giovanni abbia
fatto risalire la propria tradizione ad un discepolo di Gesù presumibilmente
non troppo noto (vissuto più di Pietro ma morto prima dell'attesa parusia del
Signore); altri vedono l'autore in Giovanni l'Anziano (teologo della comunità
cristiana primitiva) che ha composto la seconda e terza lettera di Giovanni. Si
ritiene sia stato composto intorno all’anno 100 in una località non meglio
precisabile (Siria/ Efeso?). In ogni caso, la maggior parte degli studiosi
moderni non pensa che il vangelo sia di origine apostolica.
Nonostante le differenze marcate di carattere teologico,
l'evangelista presuppone una conoscenza di stampo sinottico, probabilmente però
usando fonti che stanno alla base dei sinottici e non i sinottici stessi (e
quindi indipendentemente da essi).
Tra i quattro vangeli quello di Gv presenta chiaramente
l'immagine di Gesù più stilizzata, più spirituale, sulla base di più forti
premesse teologiche. Se nei sinottici Gesù predicava il regno di Dio piuttosto
che proclamare se stesso, in Gv Gesù parla e opera come il Rivelatore
consapevole della propria preesistenza (Gv 8,58) e allo stesso tempo come colui
che può essere riconosciuto e ricordato nuovamente soltanto dopo la pasqua e
sotto l’azione dello Spirito (cfr. 2,22; 7,39). Tale sua sviluppata cristologia
fa rendere problematica per molti la sua storicità. Ciò nonostante storicamente
(anche per la sua verosimile indipendenza dai sinottici) non è senza valore, e
in alcuni contesti particolari, soprattutto
riguardo la passione, tramanda dei dati che si discostano dai sinottici
ma che possono risalire a tradizioni antiche e
forse più autentiche dei sinottici stessi.
I criteri di storicità
Al fine di stabilire l’autenticità del materiale evangelico
sono stati elaborati dagli studiosi dei criteri
di storicità, che permettono con una certa probabilità di determinare se
certi fatti o detti riportati nei vangeli che riguardano Gesù possono ritenersi
derivati da lui (se non alla lettera almeno nel senso) oppure dalla prima
comunità cristiana. Si riportano in sintesi i criteri fondamentali:
- il criterio dell’imbarazzo: questo criterio afferma che difficilmente
la chiesa primitiva avrebbe creato del materiale che avrebbe messo in imbarazzo
la figura di Gesù; piuttosto l’avrebbe naturalmente soppresso o attenuato nel
corso delle redazioni degli scritti (cosa peraltro riscontrabile per certi
passi). Esempio fondamentale è il battesimo di Gesù da parte di Giovanni
Battista, dove Gesù, considerato senza peccato e superiore a Giovanni, si pone
in subordinazione a Giovanni. Un caso simile è l’affermazione di Gesù di non
conoscere il giorno esatto e l’ora della fine, nonostante la pretesa dei
vangeli che egli sia il Figlio di Dio che può predire gli eventi della fine dei
tempi. Inoltre: il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la
crocifissione da parte dei romani. Questo fa vedere come all’origine dei
vangeli non ci fosse una comunità che riportava episodi su Gesù in modo
arbitrario e creativo ma che si atteneva alla tradizione originaria, per quanto
scomoda. I critici segnalano però che i casi evidenti di imbarazzo sono
limitati; inoltre ciò che noi oggi consideriamo imbarazzante potrebbe non
essere stato necessariamente così per la chiesa primitiva (un esempio è il
grido di abbandono di Gesù in croce);
- il criterio della
discontinuità: se certe parole o fatti attribuiti a Gesù non possono essere
fatti derivare né dal giudaismo né dalla chiesa primitiva, allora dovrebbero
risalire a Gesù. Esempi spesso proposti sono la sua radicale proibizione di
ogni giuramento (Mt 5,34-37), il suo rigetto del digiuno volontario per i suoi
discepoli (Mc 2,18-22 e par.) e forse la sua totale proibizione del divorzio
(Mc 10,2-12 e par.). I critici sostengono che questo criterio presuppone ciò
che non possediamo, cioè una sicura e completa conoscenza del giudaismo del tempo
di Gesù e del cristianesimo a lui immediatamente successivo, e quindi di ciò
che ebrei o cristiani, avrebbero o non avrebbero potuto dire. Non solo Gesù ma
anche la chiesa primitiva avrebbe potuto creare o usare un’idea o una
espressione unica. Una obiezione più importante è che tale criterio finisce per
darci una caricatura di Gesù, separandolo dal giudaismo che lo influenzò e
dalla chiesa che da lui fu influenzata. Una rottura completa con la storia
religiosa a lui immediatamente precedente o successiva è a priori inverosimile.
Se fosse stato cosi unico e fuori dal contesto sarebbe stato incomprensibile,
lo si collocherebbe fuori dalla storia;
- il criterio
dell’attestazione molteplice: ha più probabilità di essere autentico un
detto o un fatto riferito a Gesù se questo è attestato in più di una fonte
letteraria indipendente (per es. in Mc, Q, Paolo, Gv) e/o in più di un genere
letterario (per es., parabola, racconto di miracolo, profezia). Per esempio,
che la predicazione del regno di Dio risalga a Gesù piuttosto che alla chiesa
dopo di lui è reso verosimile dal fatto che è attestato praticamente in tutte
le fonti e in generi letterari diversi. Tuttavia è anche vero che non è a
priori impossibile che un detto inventato anticamente da una comunità cristiana
o da qualche “profeta” ispirato del primo cristianesimo (senz’altro presenti e
attivi, in base alle testimonianze di Paolo e Atti) rispondesse alla necessità
della chiesa tanto perfettamente da entrare rapidamente in un certo numero di
stadi di tradizione. Il limite maggiore sta comunque nella difficoltà di
stabilire l’indipendenza delle fonti: in quale misura cioè questa indipendenza
possa essere garantita dal momento che dietro le fonti scritte c’era una
tradizione orale;
- il criterio della
coerenza: questo criterio può essere assunto solo dopo che una certa
quantità di materiale storico sia stata isolata con i precedenti criteri.
Sostiene che altri detti e fatti di Gesù che sono ben congruenti con i dati già
ritenuti storici hanno una buona probabilità di essere storici: per esempio,
detti riguardanti la venuta del regno di Dio o dispute con avversari
sull’osservanza della legge. Tale criterio si appoggia ai criteri precedenti e
quindi risente dei loro limiti.
- il criterio del
rifiuto e dell’esecuzione: questo criterio, che si differenzia chiaramente
dagli altri, orienta la nostra attenzione al fatto storico che Gesù subì una
condanna e una fine violenta per mano dei capi giudei e romani e ci rimanda
alla ricerca delle cause storiche adeguate che possano spiegare il suo arresto,
processo e la sua crocifissione come ‘re dei giudei’. Ci devono essere stati
dei conflitti tra Gesù e le autorità per aver determinato questa loro estrema
decisione. Tuttavia riguardo la questione della causa dell’arresto e morte di
Gesù gli studiosi divergono sui motivi politici oppure religiosi.
Altri criteri sono stati sviluppati ma rispetto a questi
sono considerati secondari. Il biblista americano J.P. Meier conclude la sua disamina sui criteri di storicità
dichiarando che “solo un attento uso di un certo numero di criteri combinati
con la disponibilità a una mutua correzione, può produrre risultati
convincenti” e che, in ogni caso, “l’arte, più che la scienza, dell’uso di
validi criteri, usualmente produce solo vari gradi di probabilità, non
un’assoluta certezza” cosa che peraltro vale per “ogni indagine riguardante la
storia antica”.
I limiti
alla storicità
È dunque opportuno chiarire che la
ricerca sul Gesù storico non è una scienza esatta, ma una disciplina umanistica
che coinvolge l’esperienza che il soggetto (lo storico) ha di un'altra persona
(Gesù) in quanto mediata da altri soggetti che ne hanno fatto l’esperienza (i
seguaci di Gesù, i primi credenti e altri). Come per ogni altro personaggio
storico, soprattutto antico, la conoscenza che ne può derivare è giocoforza
solo ipotetica, probabilistica, e quindi gravata dal rischio che, malgrado
possibili verosimiglianze e convergenze, le cose potrebbero in realtà essere
andate anche diversamente. Anche solo questa considerazione mostra la
differenza insuperabile che esiste tra la conoscenza storica, sempre relativa e condizionata, e la fede, quando la si intende come una fiducia incondizionata.
Nel caso di Gesù la situazione è
aggravata dal fatto che non ci si trova davanti a testi prettamente storici ma anche,
o soprattutto, teologici, scritti da credenti (tutti sconosciuti a parte Paolo,
e vissuti una o due generazioni dopo Gesù) e non da cronisti storici, cioè da
fedeli che hanno scritto per glorificare il loro eroe e per convertire a lui la
gente (per es. Gv 20,31). Questo risulta anche solo da un confronto interno dei
testi che riportano presunti detti e fatti di e su Gesù tra loro diversi e
anche contrastanti, nella forma e nel contenuto. Sembra chiaro che l’interesse
teologico-apologetico degli evangelisti sia stato superiore al loro interesse
storico. E questo può ostacolare l’accertamento della verità sulla sua figura
storica.
Come si è detto, poi, non c’è stato
un passaggio diretto da Gesù ai vangeli: questi sono il prodotto di un lungo
processo prima orale e poi scritto durato diverse decine di anni, processo che
contempla sì anche il ricordo e la conservazione della tradizione, ma anche la
manipolazione, l’adattamento alle Scritture antiche e la creatività degli
evangelisti. È spesso quantomeno difficile stabilire se un avvenimento o un
discorso attribuiti a Gesù nei vangeli, risalga effettivamente a lui o piuttosto
alla prima comunità cristiana (come rielaborazione teologica, amplificazione o
invenzione).
Un’altra importante considerazione,
messa in particolare risalto da R.
Bultmann (1884-1976) è data dal contesto
mitologico del mondo antico. Gli antichi - ebrei, pagani o cristiani che
fossero - avevano una visione del mondo ingenua e primitiva. Il loro mondo era
diverso dal nostro, era pieno di dèi che andavano e venivano dal cielo alla
terra, non si ponevano domande storiche e scientifiche come oggi, non conoscevano
le leggi naturali. È evidente la visione mitica del mondo soggiacente nei
racconti evangelici: per esempio che il cielo divino fosse uno spazio a volta
sopra il firmamento; che esistessero demoni e spiriti ovunque, che
frequentemente apparissero angeli per annunciare messaggi divini, come nei
racconti della nascita e risurrezione di Gesù. Paolo stesso crede ai demoni o
spiriti, e anche a “molti dèi e molti signori” (1 Cor 8,4-5). Questo contesto
rende gravoso stabilire la realtà o la metaforicità delle descrizioni inerenti
presunti fatti collegati a (o interpretati come) fenomeni soprannaturali
(epifanie divine variamente descritte come voci dal cielo, angeli, ecc.;
credenze in spiriti, demoni, ‘signori’; credenze di elevazioni al cielo o
‘ritorni’ di antichi profeti, ecc.).
Per di più i vangeli non presentano un’unica immagine chiara
e armonica di Gesù: è sì presente come comune denominatore della comunità
ecclesiale l’affermazione dell’offerta di salvezza datasi in Gesù, però questa
si dipana in una pluralità di cristologie (già presenti all’interno del NT)
probabilmente dovute alla complessa esperienza della realtà di Gesù e alla
pluralità di attese religiose, alle prospettive culturali dei vari ambienti in
cui è stato trasmesso il kerygma. Ci sono differenze e contrasti, non solo tra
i sinottici e Giovanni, ma anche tra i sinottici stessi e addirittura
all’interno di ogni singolo vangelo. Differenze riguardo località, attività di
Gesù, messaggio, significato. Ad esempio si guardi solo all’ignoranza di Gesù
in Mc e alla sua onniscienza in Gv, alle diverse forme di istituzioni
dell’eucaristia, alla diversità dei luoghi e personaggi implicati nei racconti
della risurrezione, ai differenziati detti circa il regno dei cieli. Ci sono
passi il cui significato è tutt’altro che chiaro, altri che sono decisamente
ambigui. Non solo questo ha legittimato tanti e diversi profili di Gesù da
parte di storici e teologi, ma la stessa divisione all’interno della
cristianità in diverse confessioni dimostra che non è così facile trovare il messaggio cristiano, ma che si hanno
piuttosto una pluralità di messaggi. Dato che il NT è un libro policromo, che
presenta vari e diversi volti di Gesù, non ci dobbiamo stupire del fatto che la
chiesa non sia una unità.
Le fonti cristiane apocrife
La molteplicità delle visioni che possiamo avere di Gesù si
amplia ulteriormente allargando l’orizzonte anche agli scritti apocrifi delle origini cristiane. Le
fonti cristiane apocrife sono quegli scritti, risalenti prevalentemente al II
secolo d.C., che pur riportando detti, narrazioni, storie su e attribuite a
Gesù di Nazaret, sono stati considerati eretici dalla chiesa nascente
‘ortodossa’ e quindi col passare del tempo sono spariti dalla circolazione.
Sappiamo della loro esistenza dallo stesso vangelo di Luca
(nell’introduzione dice che molti altri hanno già scritto su Gesù), dagli
scritti dei padri della Chiesa nel II e III sec. (coi quali polemizzano) e
dalla scoperta a Nag Hammadi nel 1945. Tra i tanti altri ricordiamo: Protovangelo di Giacomo (metà II sec.), Vangelo degli Ebioniti (Siria
meridionale, sec II), Vangelo degli
Egiziani (inizio II sec), Vangelo dei
Nazareni (Siria, inizio II sec.), Vangelo
della verità (metà II sec.), Vangelo
del Salvatore (fine II sec), Vangelo di Filippo (III sec.), Vangelo di Maria (II sec.), Vangelo di Nicodemo (V sec.), Vangelo di Pietro (Siria, inizio II
sec.), Vangelo di Tommaso (copto)
(inizio II sec.), Vangelo di Tommaso
(dell'infanzia) (inizio II sec.), Vangelo
secondo gli Ebrei (Egitto, inizio sec II.), Vangelo segreto di Marco (58?1758?1958?), Vangelo di Giuda (metà II sec.).
Qui viene spontaneo porsi delle domande: in base a quali
criteri sono stati scelti solo i quattro vangeli (e gli altri scritti del Nuovo
Testamento) tra i tanti disponibili? Nella formazione del canone erano
implicate solo questioni dottrinali o anche politiche? I vangeli apocrifi (o
qualcuno di essi) ci possono aiutare nella ricostruzione del Gesù storico?
Non è facile rispondere in modo esaustivo a queste questioni,
perché “numerosi processi di questa selezione delle opere normative rimangono
storicamente oscuri, come anche molte norme e ragioni adottate nelle decisioni
riguardanti libri particolari”. Nel II sec. soprattutto due fattori
contribuirono alla formulazione di un canone, ossia gli scritti di Marcione e
gli scritti gnostici: Marcione, essendo sostenitore di un paolinismo radicale
riguardo la gratuità della salvezza in Cristo, compose un piccolo canone di
autentica dottrina cristiana, che era formato da dieci lettere di Paolo e da
una versione del solo vangelo di Luca depurata da tutti gli accenni al Dio di
Mosè, avversato da Marcione; i maestri gnostici invece, che spesso
rivendicavano il possesso di istruzioni loro trasmesse da incontri segreti col
Cristo risorto, erano prolifici nel produrre nuovi vangeli e lettere che
asserivano aver origine dal Signore e dagli apostoli. Così un gruppo di
rappresentanti delle grandi chiese, tra cui spicca Ireneo di Lione, sottopose a
dura critica le dottrine di Marcione e degli gnostici, stabilendo pertanto le
condizioni secondo cui un canone cristiano doveva essere articolato.
In linea generale i criteri centrali nella formazione del
canone furono l’ortodossia (cioè se
la sua dottrina fosse conforme alla tradizione, alla fede trasmessa dalla
chiesa), l’apostolicità (nel senso di
una tradizione di origine apostolica piuttosto che dirette espressioni da parte
degli apostoli), l’antichità (in
tempi più possibili vicini a Gesù) e la
“cattolicità”(cioè universalità: i
libri dovevano godere di un largo utilizzo tra le chiese “affermate” per essere
accettati nel canone). Si deve osservare d’altra parte che la valenza
“scientifica” di questi criteri è molto relativa. L’idea di ortodossia non
veniva certo dall’esterno ma dall’aver già prima accettato determinate dottrine
presenti su determinati testi considerati come ortodossi, dal confronto coi
quali si sarebbe valutato o meno l’ortodossia degli altri (autoreferenzialità).
E nemmeno questi primi testi derivavano dall’autorità apostolica, come ci
insegna la pseudoepigrafia, se non in senso molto indiretto, cioè dalla
tradizione apostolica. Del resto punto di forza della letteratura apocrifa era
in genere l’attribuzione degli scritti a figure apostoliche o comunque della prima
generazione cristiana (ovviamente anche gli eretici usavano la
pseudoepigrafia). Le lettere di Paolo e i vangeli furono fissati verso la fine
del II sec., mentre ci fu minore accordo sulla lista dei libri inclusi nella
terza sezione principale che sarebbe andata a costituire il canone del NT, le
lettere cattoliche (1 Pietro, 1 Giovanni, Giacomo, 2 Pietro, 2 e 3 Giovanni,
Giuda). Questo processo di accettazione dei testi come canonici fu chiuso alla
fine con una serie di decisioni di concili, anche se tutti a carattere locale e
nessuno fu un concilio della chiesa universale (ecumenico). Nonostante ciò i
disaccordi non cessarono. Il concilio di Laodicea (363) escluse dalla lista
l’Apocalisse; i concili di Ippona (393) e di Cartagine (397) approvarono invece
l’attuale lista di 27 libri.
Dei vangeli apocrifi quello che attualmente desta più
interesse e discussione è indubbiamente il vangelo copto di Tommaso (Tm), che
quindi merita una attenta valutazione.
Il vangelo di Tommaso:
Ippolito (m. 235) e Origene parlano di gruppi eterodossi che utilizzano un
"vangelo secondo Tommaso". Questo vangelo è stato riscoperto attorno
al 1945 tra gli scritti della biblioteca ritrovata a Nag Hammadi. Il vangelo
inizia con le parole: "Queste sono le parole segrete che Gesù il Vivente
pronunciò e che Didimo Giuda Tommaso ha steso per iscritto" e il cui
sottotitolo recita "Il vangelo secondo Tommaso".
Il testo contiene 114 logia di Gesù, ma non materiale
narrativo sulle azioni di Gesù all'interno della tradizione dei detti (i miracoli)
e nemmeno riferimenti di sorta ad essi. I generi letterari presenti sono, tra
gli altri, detti sapienziali, parabole, detti legali, dialoghi brevi, detti
profetici. Una buona metà dei logìa ha paralleli nei vangeli canonici.
Sorprendentemente mancano quasi del tutto titoli cristologici, riferimenti alla
morte e risurrezione di Gesù e detti apocalittici. Gesù non si presenta come il
profeta del regno di Dio. Gesù è in primo luogo un maestro sapienziale che
tiene lo sguardo al presente (escatologia presentistica): il regno è una entità
sovratemporale, origine e fine dell'uomo che ha conosciuto se stesso. Perciò la
conoscenza di sé è la conoscenza del proprio “io” divino e della sua
appartenenza al regno della luce divina. Il regno dei cieli è dunque presente
ugualmente in tutti i tempi, sia nell'uomo che al di fuori di lui (Tm
3,49,50,113). Il vangelo di Tm rappresenta una gnosi allo stato iniziale, senza
una cosmologia sviluppata. Dovrebbe risalire all'anno 140, ma forse all'interno
del testo generalmente gnostico, ci sono tradizioni che risalgono a date più
antiche, non ancora influenzate da presupposti gnostici. Ma al riguardo non c'è
unanimità.
Gli autori rimangono nettamente divisi anche sulla questione
della dipendenza o indipendenza di Tommaso dai sinottici. Mentre alcuni sono
dell'opinione che il suddetto vangelo possa dipendere, in modo diretto o
indiretto, da qualcuno se non da tutti i vangeli canonici (fra gli altri, J.P. Meier) e quindi considerano il
testo una rielaborazione gnostica dei sinottici, altri sono a favore
dell'indipendenza e dell’antichità del vangelo di Tm (fra gli altri, S.J. Patterson) tanto da essere
collocato, da altri studiosi nordamericani, accanto, anzi prima, dei vangeli
sinottici. Il suo strato più antico risalirebbe infatti agli anni 50-70. In
questa ottica cambia drasticamente il profilo della vita e dell'insegnamento di
Gesù: Gesù non sarebbe un apocalittico e neanche un messia o profeta
messianico, ma un maestro di sapienza alternativa; ad esempio per J.D. Crossan Gesù predica un regno di
Dio già esistente, qui ed ora, come realtà presente: è un processo dominato
dall'amore, dalla solidarietà, senza barriere ne contrasti tra gruppi sociali;
lo associa ad un filosofo cinico (magari non greco ma giudaico) che si rivolge
al popolo e con le parole e gli atti metteva in dubbio le strutture del suo
mondo sociale, che disumanizzavano ed escludevano tante povere persone.
In conclusione si può affermare con ragionevole certezza che
il vangelo di Tommaso abbia custodito, almeno in parte, tradizioni antiche,
molto probabilmente autentiche e che potrebbero rappresentare un filone
tradizionale autonomo accanto alla tradizione sinottica; ciò nonostante
spingersi oltre a questa visione relativamente cauta, e assegnare al vangelo di
Tommaso uguale o maggior valore storico dei vangeli sinottici, appare
un’operazione tutt’oggi temeraria che non trova conferma nella maggioranza
degli studiosi.
Anche lo storico E. P.
Sanders afferma di condividere “l’opinione prevalente fra gli studiosi
secondo cui ben poco dei vangeli apocrifi potrebbe risalire in qualche modo ai
tempi di Gesù. Essi sono leggendari e mitologici, e di tutto il materiale
apocrifo solo alcuni detti riportati nel Vangelo di Tommaso sono degni di
considerazione. Ciò non significa che possiamo operare una distinzione netta: i
quattro vangeli canonici da considerare storici contro i vangeli apocrifi da
considerare leggendari. Ci sono infatti tratti leggendari nei quattro vangeli
del NT e anche elementi di creazione successiva. In ogni caso è ai quattro
vangeli canonici che dobbiamo rivolgerci per trovare tracce del Gesù storico”.
L’importanza dei vangeli apocrifi risiede soprattutto nelle
informazioni che ci danno sul cristianesimo del secondo secolo. Ci fanno
comprendere quanti diversi gruppi di cristiani esistessero in quel periodo,
quanti vangeli circolassero, quanti dibattiti appassionati si svolsero nelle
chiese. A quel tempo non esisteva ancora il NT come lo conosciamo noi oggi, non
esistevano scritti normativi. In particolare, il fatto che i vangeli fossero
molti e che per molto tempo si continuasse a scriverne di nuovi - non solo di
quelli poi considerati eretici, ma lo stesso Luca, che sapeva esistevano già
tanti altri vangeli tra cui quello di Marco, ne scrisse un altro (e ciò vuol
dire che pensava ci fossero altre cose da scrivere su Gesù, cosa che vale anche
per Giovanni) – sembra significare che i quattro vangeli più tardi ritenuti
canonici non erano considerati un punto di riferimento unico.
Le fonti non cristiane
Le fonti non cristiane su Gesù sono
importanti perché potrebbero confermare, dall’esterno della tradizione
protocristiana, l’esistenza storica di Gesù e alcuni aspetti della sua figura.
La fonte non cristiana più
significativa è quella dello storico giudeo Giuseppe
Flavio (37/38 d.C.- poco dopo il 100) nella sua opera Antichità giudaiche scritta attorno all’anno 93 dove in due
passaggi parla di Gesù.
Il primo riporta la persecuzione e
lapidazione di Giacomo a Gerusalemme da parte del Sinedrio a causa della
violazione della legge, avvenuta nell'anno 62: Giacomo viene espressamente
identificato come "fratello di Gesù, colui che veniva chiamato il
Cristo". L'appellativo neutro dato da G. Flavio a Giacomo (fratello di
Gesù e non ad esempio fratello del Signore o del Salvatore) non quadra né col
NT né con l'uso patristico primitivo, e così verosimilmente non proviene dalla
mano di un interpolatore cristiano; l'autenticità del passo si può considerare
accertata dalla maggior parte degli studiosi.
Più discusso è invece il più ampio e
cosidetto "Testimonium Flavium"
perché tradisce una mano cristiana mentre Giuseppe era e restò ebreo. Il testo
così dice: “Verso questo tempo visse Gesù, uomo saggio [se pur conviene
chiamarlo uomo]; infatti egli compiva opere straordinarie, ammaestrava gli
uomini che con gioia accolgono la verità, e convinse molti giudei e greci.
[Egli era il Messia]. E dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori
responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro
che fin dall'inizio lo amarono. [Infatti apparve loro il terzo giorno, avendo i
divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie]. E
ancora fino a oggi non è scomparsa la tribù dei cristiani che da lui prende
nome" (Ant. XVIII, 3,3). Tra parentesi sono messe le frasi che chiaramente
sono state aggiunte dai copisti cristiani. Secondo J.P.Meier “la spiegazione più probabile del Testimonium è che,
privato delle tre affermazioni ovviamente cristiane, contiene quanto Flavio
Giuseppe scrisse”. Inoltre il testo così ottenuto somiglia molto a una versione
araba del testimonium flaviun, citata da Agapio, vescovo di Gerapoli (sec. X)
nella sua “Storia cristiana universale”, in cui mancano tutti gli elementi che
sono sospetti come interpolazioni cristiane; tuttavia poiché non si può
chiarire con precisione donde Agapio abbia preso la sua fonte, non si può
esprimere alcun giudizio certo sull’autenticità del testo. Altri studiosi
ipotizzano più rilevanti interventi cristiani nel testo e propongono varie ricostruzioni
dell'originale, e non sono mancati coloro che hanno rigettato completamente la
storicità del brano; ma, in definitiva, l'ipotesi più probabile sembra quella
che considera un nucleo autentico nel passo di Flavio, in cui in modo neutrale
lo storico considera Gesù come maestro e fautore di miracoli, menziona la sua
condanna a morte e l'esistenza del gruppo di discepoli che anche dopo la sua
morte gli restò fedele: tutti dati che concordano sostanzialmente coi dati
della tradizione cristiana.
La
letteratura tradizionale del giudaismo
rabbinico cita Gesù molto raramente e sempre e solo come oggetto di
un'aspra polemica inerente la separazione definitiva tra il movimento cristiano
e il giudaismo verosimilmente dopo il IV sec, dalla quale si ricava poco o
nulla di storicamente attendibile. Peraltro si può rivelare come anche in
questo contesto si faccia sempre riferimento alla condanna a morte di Gesù e
agli episodi della sua esecuzione (ad es. Gesù condannato per stregoneria e poi
lapidato) segno del ruolo importante della passione nei primi diverbi tra ebrei
e fedeli cristiani.
Altre frammentarie testimonianze
antiche si hanno dagli storici romani Tacito e Svetonio.
Lo storico romano Tacito
(56/57-118) negli Annales (115-117
d.C.) riferendo dell'incendio scoppiato a Roma nel 64 (Ann. XV, 38-43), afferma
che Nerone, per ridurre al silenzio la diceria popolare secondo la quale
l'incendio sarebbe stato ordinato, "fece passare per colpevoli e
sottoporre a raffinatissimi tormenti coloro che il volgo chiamava
cristiani e odiava per le loro azioni
nefande. Cristo, il fondatore della setta, dal quale avevano preso il nome, era
stato giustiziato dal procuratore Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio. Ma
la rovinosa superstizione, repressa per il momento, dilagava di nuovo non solo
per la Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche per Roma, dove
confluiscono e trovano seguito tutte le atrocità e le vergogne del
mondo"(Ann. XV, 44).
Tacito dunque era a conoscenza sia
dell'esecuzione di Gesù sia che la religione cristiana avesse avuto origine in
Giudea (solo incidentalmente in quanto alle ripercussioni su Roma) e condivide
il giudizio sprezzante nei confronti del cristianesimo (definito setta,
superstizione). Il tono decisamente anticristiano del testo rende quasi
impossibile ritenere sia frutto di interpolazioni successive da parte di autori
cristiani. Si discute sulla sua fonte d’informazione, dipendente o indipendente
da fonti cristiane: per alcuni potrebbe essere il Testimonium di Giuseppe Flavio
(ma improbabile); oppure Tacito potrebbe semplicemente aver ripetuto ciò che
era risaputo circa i cristiani all’inizio del II sec. (era stato governatore in
Asia Minore nel 112 d.C. circa); oppure potrebbe averlo saputo dal suo amico
Plinio il Giovane o anche dagli archivi romani. In ogni caso, mentre al massimo
Tacito ci fornisce un’altra antica testimonianza non cristiana dell’esistenza,
della collocazione temporale e geografica, della morte e dell’incidenza storica
perdurante di Gesù, non dice nulla di nuovo che Flavio Giuseppe non abbia già
detto.
Un secondo autore storico romano Svetonio (70-130 d.C.) menziona in una
notizia frammentaria il nome di Cresto nella
sua opera Vite dei Cesari, scritta verso il 120 d.C., dove parla dei provvedimenti presi dall'imperatore
Claudio nei confronti delle varie province, regioni e popolazioni dell'impero.
A proposito dei giudei di Roma così si esprime: "Poiché i giudei
provocavano costantemente disordini per istigazioni di Cresto, egli [Claudio]
li espulse da Roma "(Claudio, 25, 4).
Gli studiosi spesso suggeriscono che
il Cresto qui menzionato sia in realtà Cristo (Christus, pronunciato in quel
tempo allo stesso modo di Chrestus). Questa notizia corrisponde a quanto dice
Luca in At 18,2, è confermata dallo storico Orosio (VII,6, 15), e consente di
datare l'espulsione dei giudei nel 49 d.C.. Forse la fonte usata da Svetonio
identificava Cresto con Gesù, mentre Svetonio fraintese il nome con quello di
qualche schiavo ebreo (il nome Cresto era comune) che provocava scompiglio
nelle sinagoghe romane, in seguito alla predicazione messianica dei cristiani,
durante il regno di Claudio. Anche se è così, il testo ci parla semplicemente
di cristiani giudei che propagavano la loro fede nelle sinagoghe romane negli
anni 40 -50 d.C..
Queste testimonianze extra bibliche
dei due storici romani relative alla persona e opera storica di Gesù rimangono
dunque incerte nella loro indipendenza, risalgono all’inizio del II sec. e
direttamente confermano solo l'esistenza del movimento del cristianesimo in
quel periodo a Roma, e indirettamente qualche notizia su Gesù nella qualità di
suo “fondatore”.
Il
nome di Cristo ricorre poi in un documento romano, in una lettera che Plinio il Giovane, governatore della
Bitinia verso il 110 d.C., invia all'imperatore Traiano per chiedergli
istruzioni riguardo i provvedimenti da usare contro i cristiani. Plinio
considera il cristianesimo una "superstizione" tra le cui pratiche
religiose vi è quella di riunirsi "in un giorno fisso per cantare un inno
a Cristo come fosse dio" (Epist.X, 96,97). Da questa testimonianza si può
solo dedurre che all'inizio del II sec. i cristiani, già diffusi in Bitinia,
nelle loro assemblee cultuali professano la fede in Cristo.
Infine
si può citare una lettera privata di un certo Mara bar-Serapion, stoico siriaco (non ebreo e non cristiano), che
raccomanda al figlio la sapienza esemplificata da Socrate, Pitagora e da un
"re saggio" che gli ebrei hanno ucciso e che perciò "furono
spogliati del loro regno" ma che comunque continua a vivere in loro
"grazie alle sagge leggi che ha promulgato". La lettera è datata dal
73 d.C. in poi, per alcuni nel II- III sec d.C.. Le affermazioni su Gesù
sembrano dipendere in parte da fonti cristiane, ma è in ogni caso una
testimonianza che il "re dei Giudei" presentato da Matteo affascinò
anche sapienti pagani, come si racconta in Mt 2,1ss.
In conclusione il valore delle
testimonianze non cristiane consente di ritenere l’esistenza storica di Gesù
come del tutto ragionevole, tale da procurare meno problemi storici
dell’ipotesi della sua non esistenza. Insomma, sono pochi quelli che oggi
dubitano che Gesù sia veramente esistito.
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