martedì 7 aprile 2015

7. L'ESPERIENZA RELIGIOSA (o di Dio)


E’ possibile fare, in qualche modo, esperienza del divino? Potrebbe Dio manifestarsi, comunicarsi a noi in modo che possiamo sperimentarlo? Normalmente certo noi non abbiamo una esperienza diretta di Dio, come l’abbiamo con gli oggetti o le persone del nostro mondo quotidiano. Potremmo però fare una esperienza extra-ordinaria di Dio, in modo da by-passare tanti problemi teoretici ed arrivare, per così dire, in un ‘sol colpo’ alla certezza di Dio?
Alcuni dicono di no, già per la definizione preliminare di essere trascendente che abbiamo dato di Dio, e sarebbe quindi da escludere una sua presenza che potesse essere percepita a livello sensoriale. Ma altri ritengono invece che ciò non sia contraddittorio. Anche se Dio è inosservabile per definizione questo non implica l’impossibilità logica che qualcuno possa arrivare ad acquisire una conoscenza della presenza di Dio grazie alla mediazione dei sensi. Dopotutto, per il teista in generale e per il cristiano in particolare, Dio non è solo trascendente ma anche immanente, è un Dio nella storia, un Dio che si è fatto uomo.
In effetti molti credenti, nel presente e nel passato, e nelle più diverse culture, occidentali ed orientali, dicono di aver avuto esperienze religiose, e all’apice di queste, esperienze mistiche, in cui avrebbero sperimentato Dio o il “sacro”. C’è chi ha provato il “sentimento del numinoso”, ovvero ha avuto l’esperienza di trovarsi in presenza di un essere assai diverso da noi, sacro e trascendente. Altri testimoniano che, anche senza aver vissuto esperienze sensoriali (esteriori) straordinarie (estasi, visioni e altri fenomeni simili), sono stati invasi, in un particolare momento della loro vita, da un maggior senso di libertà, di gioia, gratitudine e pace, che la loro vita si è trasformata interiormente ed esteriormente. E imputano questo cambiamento ad un intervento divino. Tra l’altro, qualche credente, dice addirittura che sia possibile, se non indurre, almeno favorire tale incontro col divino, assumendo un certo atteggiamento esistenziale che renderebbe più ricettivi e più adatti a ricevere il “totalmente altro” dentro di sé.
Secondo alcuni dunque, il fatto che l’esperienza religiosa sia qualcosa di universale tra gli esseri umani, e che essi per quanto possano descrivere in modo diverso l’oggetto della loro esperienza hanno in comune qualcosa nella loro credenza religiosa, riveste un profondo significato. Per esempio, secondo il filosofo francese H. Bergson (1859-1941) questa forma di esperienza fornisce l’unica prova possibile dell’esistenza di Dio. Vi è - egli dice - un profondo accordo tra i mistici, soprattutto tra i mistici cristiani, e tale accordo è segno di una identità di intuizione la quale si può spiegare solo con l’esistenza reale dell’Essere divino con cui essi si credono in comunicazione. Sarebbe infatti del tutto inverosimile la tesi per cui l’esperienza dei mistici sia l’espressione di una patologia psichica o di una semplice autosuggestione, considerando la natura spirituale e morale di tanti suoi protagonisti, la loro personalità certamente eccezionale, ma scevra da sintomatologie isteriche o psicotiche. Per altro alcuni mistici si sono manifestati critici circa alcune loro visioni e fenomeni straordinari, cosa che  depone a favore della loro autenticità quando ne parlavano con certezza. 

Tuttavia, nonostante la convinzione di chi vive queste esperienze come autentiche, come reali e insospettabili, perché portatrici di una pace, di una gioia, di un’armonia, di un unione tra il soggetto umano e Dio, ovvero come comunicanti loro un’affermazione attendibile su una realtà trascendente, non si possono eludere importanti domande, del tipo: che cosa si sperimenta realmente nell’esperienza religiosa? come accertare che non si tratta di un semplice stato d’animo soggettivo?
Infatti, i termini stessi con cui il soggetto descrive ciò che prova, non sono già un’interpretazione? L’idea di una potenza superiore, di qualcosa di più grande dell’uomo è un “dato immediato della coscienza” o, al contrario, una interpretazione del soggetto, il prodotto di un’elaborazione in cui entrano in gioco fattori culturali, sociali e politici? Non si prende ciò che è l’enunciato di un fatto psicologico per un’ asserzione metafisica? Tale inferenza, però, da un punto di vista filosofico, appare problematica, perché il fatto di avere un’esperienza di per sé non garantisce che esista qualcosa al di là dell’esperienza stessa. Il mistico afferma che le sue esperienze sono rivolte a qualcosa al di là dell’esperienza, qualcosa che realmente esiste al di fuori di noi, non solo nella sua mente. Ma passare da un’esperienza soggettiva ad un’entità oggettiva, nella realtà, richiede una dimostrazione, o almeno delle prove. Se il mistico oltre alla sua affermazione non porta delle prove constatabili da altri se ne deve dedurre che l’esperienza mistica non stabilisce l’esistenza di una fonte divina di cui essa sarebbe l’effetto (J. Hospers).
            Ma anche da un punto di vista psicologico si possono constatare problemi. Quando da una generica intuizione del divino si passa all’esperienza dell’estasi “dovendo l’approccio psicologico osservare e cogliere soprattutto gli aspetti comportamentali e verbali, ne ha rivelato la similitudine con stati e manifestazioni psicopatologiche, pur cercando al contempo di coglierne le differenziazioni e le specificità: cosa questa tutt’altro che facile” (L. Pinkus). Con questo non si vuole insinuare che, in generale, i mistici siano delle persone affette da disturbi psichici. Ma è anche vero che interrompere lo stato ordinario di coscienza non è così difficile, ed esistono innumerevoli forze in grado di riuscirvi: corse estenuanti, fame e sete, privazioni del sonno, stimoli sonori intensi, deprivazione o iperstimolazione sensoriale, danza ininterrotta, meditazione, ripetizione ossessiva di parole o frasi, traumi cerebrali. E tanti mistici storicamente conosciuti erano spesso sottoposti all’azione di una o più di queste forze. Essi infatti per penitenza erano soliti privarsi di cibo o sonno, oppure rimanevano in uno stato di meditazione per ore, ripetendo ossessivamente le stesse preghiere. Situazioni del genere, sommate ad una personalità problematica, alla fede religiosa, alle astinenze sessuali, al contesto sociale e culturale, agiscono sinergicamente, creando una modificazione della coscienza che si carica di tematiche mistiche trascendentali (A. De Vincentiis).
Ci sono poi una vasta gamma di esperienze che potrebbero essere descritte come mistiche, ovvero nelle diverse situazioni in cui noi possiamo dire di fare esperienze straordinarie: di fronte ai prodigi e alle bellezze naturali (montagne, mare, tramonti, cielo stellato, ecc.), nell’esperienza sessuale, nel parto, in situazioni di gioia, o quando siamo pieni di felicità ed entusiasmo, oppure in situazioni di dolore di angoscia, nei momenti di conforto o quando constatiamo l’amore gratuito da parte di un altro, o infine nell’incontro con la morte. “Sono tutte esperienze di un mistero, ma sarebbe troppo affrettato scambiare l’esperienza di questo mistero per esperienza di Dio. Esso può venir interpretato in modo teistico, ma compreso pure in modo panteistico, ateistico, nichilistico” ammette lo stesso teologo W. Kasper. A proposito di questa ambivalenza, alcuni sostengono che le esperienze teistiche avrebbero lo stesso contenuto di esperienze non teistiche,  ma che sarebbero solo diversamente interpretate: in tutte ci sarebbe l’esperienza dell’“unità indifferenziata” con la realtà che ci circonda, oppure sarebbero momenti in cui uno vede la realtà “più in profondità” di quel che vede normalmente, ma non si vivrebbe necessariamente un reale incontro con Dio.
C’è poi un’altra importante considerazione da fare. Come ha sottolineato a ragione G. E. Lessing (1729-1781) è molto diverso avere solo racconti di altri che dicono di aver fatto certe esperienze straordinarie rispetto al fatto di averle vissute noi stessi. Le esperienze degli altri uomini possono essere conosciute soltanto fino al punto in cui essi sono capaci o vogliono comunicarle. Infatti non sappiamo cosa l’altro veramente abbia sentito, udito, vissuto, e non sappiamo quanto sia fedele la sua descrizione della sua esperienza, se sia lucida o quanto emotivamente e culturalmente condizionata. Per quel che ne sappiamo potrebbero anche ingannarsi o, al limite, anche voler ingannare. Questo vuol dire che, anche ammesso si ritenesse che quanti credono di essere stati essi stessi partecipi di una esperienza religiosa siano giustificati a fidarsi di tale esperienza e ad impostare in base ad essa la propria  vita, questo non può automaticamente valere anche per quanti queste esperienze le sentono solo raccontare. Lo scarto tra i due tipi di conoscenza è evidente.
Inoltre, il fatto di per sè che l’esperienza religiosa sia un fenomeno universale non garantisce che sia una esperienza autenticamente trascendente. Le persone, dicono i critici, si sono sempre ovunque sentite insicure in un mondo difficile e hanno sempre desiderato protezione contro una sorte spesso crudele. È la condizione umana, ed è semplicemente naturale che le persone cerchino qualcosa che le mettano al riparo da tutto ciò. È pressochè universale anche la credenza nella magia e nella stregoneria, ma questo non è un motivo sufficiente per crederci. Anche l’errore umano è universale (J. Hospers). Detto altrimenti, il fatto che ci sia similitudine in certe esperienze religiose in contesti diversi potrebbe indicare anche solo la somiglianza della natura psicosomatica di tutti gli esseri umani.
Il filosofo R. Swinburne ammette che tali esperienze non possono essere considerate una prova dell’esistenza di Dio poiché è sempre possibile descrivere l’esperienza supposta di Dio anche in modo profano ed è quindi una questione di interpretazione. Però, aggiunge, bisogna considerare che noi normalmente accordiamo una generale fiducia nei confronti dell’affidabilità della nostra percezione, e tale atteggiamento è l’unico che un uomo ragionevole possa assumere. Quindi se qualcuno afferma di aver fatto un’esperienza (qualsiasi) possiamo razionalmente metterla in dubbio solo se abbiamo una prova positiva da opporgli in contrario. Swinburne ritiene che le affermazioni di percezione di natura religiosa meritano di essere prese sul serio allo stesso modo delle affermazioni di percezione di qualsiasi altra natura. Di conseguenza sarebbe razionale credere che Dio esista dal momento che ammettiamo che alcune esperienze, che i soggetti ritengono autenticamente religiose, lo siano effettivamente. Tuttavia anche questa argomentazione apologetica è criticabile. Si deve infatti dire che mentre tutti ci affidiamo all’esperienza sensoriale, molti vedono buone ragioni per sospettare o destituire di fondamento l’esperienza religiosa. Quest’ultima viene criticata in base all’osservazione che le condizioni dell’esperienza di Dio non sono le stesse, e non possono mai esserlo, di un’esperienza empirica. L’esperienza quotidiana infatti è riconosciuta da tutti, è pubblica, mentre l’esperienza religiosa non è universale ed uguale dappertutto, è privata, non può essere suscitata a piacere, non dipende dall’uomo ma solo da un possibile Dio che si rivela quando vuole.
C’è anche il problema del conflitto tra le esperienze: chi dice di aver avuto l’esperienza diretta di Dio tramite Cristo, altri sostengono di aver avuto una esperienza diretta del Dio dell’Antico  Testamento ma non di Cristo, altri pretendono di avere esperienze dirette di Allah. Altri sperimentano l’unità con Brahman o con l’universale natura del Buddha. Per non parlare delle visioni più diversificate dei diversi personaggi divini, dalla Madonna a Krishna. Alcuni sono convinti che tale problema possa essere superato considerando che quello che più differisce sono le credenze e non tanto le esperienze in sé, ossia le interpretazioni dottrinali o semplicemente il modo o il linguaggio di comunicare tali esperienze, le quali invece avrebbero un “nocciolo duro” in comune, cioè l’incontro con una realtà trascendente ineffabile e indescrivibile in sé. Ma questa soluzione provoca le domande critiche: se si ammette che il contenuto di un’esperienza religiosa è fissato dal contesto storico-religioso, allora come sapere fino a che punto tale esperienza è plasmata dalla propria cultura, magari fino ad esserne semplicemente un prodotto piuttosto che configurarsi come reale accesso al trascendente? E se quello che esse comunicano può essere considerato solo come un “ritratto” del divino, ma non il divino in sé, se non dicono quello che il divino realmente è, come sappiamo se quest’ultimo sia degno di amore o fede, piuttosto che di indifferenza?
Lo studioso F.J. Streng  così enuclea sinteticamente alcuni problemi fondamentali cui vanno incontro i sostenitori della verità come esperienza intima di una presenza spirituale: 1. comunicare una realtà inconcepibile per mezzo di parole o di riferimenti alla normale esperienza umana; 2. correlare l’eccezionale esperienza interiore a criteri generali di verifica del normale sapere, come la percezione e l’inferenza; 3. giustificare la pretesa di una qualità spirituale interiore e superiore da parte della persona che rivendica stati di consapevolezza fuori dal comune e autorevoli, 4. evitare l’evidente circolarità implicita nell’affermazione che chi nega la validità della verità sovracosciente non è in grado di capire o giudicare la validità di questa verità. Aggiunge anche che dal momento che la natura della verità religiosa richiede un cambiamento nella qualità dell’apprendimento per mezzo di speciali tecniche o di un potere trascendente (per es. la grazia divina) qualsiasi riferimento a stati di coscienza inusuali non può fornire la norma di validità per una teoria generale della vertità che si fondi anche sul normale ragionamento o sulla percezione.
Significativo è quanto dice L. Brown, il direttore del Religious Experience Research Centre dello Westminster College di Oxford, l’istituzione più nota nel Regno Unito (istituita negli anni settanta) impegnata nello studio sistematico dell’esperienza religiosa. Fino al 1996 sono stati raccolti 6000 rapporti in cui altrettante persone descrivono loro esperienze accadute decsritte come esperienze trascendentali perché danno l’idea che ci sia qualcosa di diverso e distinto da noi esseri umani. Ebbene, alla domanda se si possa dire che al di la di ciò che sono, tali esperienze siano riferite ad un Dio reale, L. Brown afferma che “probabilmente è impossibile rispondere. Come potremmo sapere se le esperienze individuali sono o no riferite in modo oggettivo a un Dio reale? Il massimo che si può dire è che , se una persona ha una sua consapevolezza di Dio, e questo cambia la sua vita, allora, per quell’individuo, “Dio” è un’influenza reale. Moltissime persone sono in grado di individuare con precisione un evento specifico che ha cambiato il corso della loro vita. Ma credo che esista moltissima altra gente, come me, per esempio, che ha sempre vissuto all’ombra di un ordine trascendente di qualche tipo”(in R. Stannard, La scienza e i miracoli, 1996). 

Qualcuno è anche convinto che l’uomo possa prepararsi, possa mettersi nelle giuste condizioni per poter favorire tale incontro con Dio, per poter “ricevere” Dio in sé. Se l’uomo si mettesse in un atteggiamento di costante preghiera e supplica, si incamminasse in un percorso di ascolto e di attesa, di svuotamento del proprio sé perché Dio se c’è possa riempirlo; se si abbandonasse  con fiducia al possibile Dio, se si mettesse in una radicale disponibilità ad accogliere la presenza e l’amore di Dio in lui, se lasciasse fare a Dio, allora probabilmente Dio gli verrebbe incontro e si manifesterebbe a lui. Sarebbe almeno una condizione necessaria, se non sufficiente, perché Dio si faccia presente all’uomo.
Ma è chiaro che anche la giustificazione di tale atteggiamento risulta problematica. Si tratterebbe infatti di prodigarsi in un notevole impegno senza alcuna certezza di risultato, con il rischio che sia tutto vano. Da che cosa sarebbe giustificata questa logica che esige tutto e non garantisce nulla? Si deve concludere che questo atteggiamento di ricerca e di abbandono , questa via, resta un audace rischio: il rischio cioè di lasciarci andare senza che sia possibile accertare in anticipo quale possa essere l’esito di simile impegno profuso. Per di più, accanto alle persone che dicono di aver incontrato Dio dopo essersi abbandonate a lui, ce ne sono altre che hanno dato e danno testimonianza che alle loro preghiere e suppliche al possibile Dio, al loro impegno e alle loro rinunce per la religione, nessuno ha mai risposto né le ha mai confermate sul loro cammino con risposte univoche di alcun genere. 

            Pertanto “il ricorso all’esperienza religiosa o l’esperienza religiosa da sola, in ultima analisi, non è sufficiente per la fondazione filosofica e la giustificazione della religione; sulla base dell’esperienza religiosa da sola non si può dimostrare la verità della religione”(J. Schmitz).       

Quindi in conclusione, l’esperienza religiosa in sé rimane ambivalente nella sua possibilità di rivelarci la presenza e l’azione di un Essere trascendente; chi sperimenta qualcosa di straordinario che interpreta come esperienza di Dio, dovrà valutare in modo lucido la portata della sua esperienza; per gli altri rimane un “fatto” ancor più problematico, che non tutti condividono, che non è ne controllabile né ripetibile. Questo non vuol dire che l’argomento dell’”esperienza religiosa” sia del tutto vano per aggiungere maggiore credibilità alla credenza religiosa: qualcosa può dire, come nel caso di una testimonianza di una persona che sia seria e attendibile, che non soddisfi alcun tipo di interessi dalla sua testimonianza, e che trasformi la sua vita in senso positivo e umano (che dia “buoni frutti”).  Ma è difficile dire quanto. Così anche il percorso di “abbandono” previo a Dio, che porterebbe a facilitare tale esperienza personale, lascia perplessi: per quanto lodevole, rimane arduo nell’impegno e incerto nel risultato.

BIBLIOGRAFIA

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Stannard R., La scienza e i miracoli. Conversazioni sui rapporti tra scienza e fede, 1996, Longanesi 1998, pp.118-128
Streng F.G., Verità, in M. Eliade (diretta da), Enciclopedia delle religioni, or.1986, pgg.22-35, Jaka          Book 1995
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