E’ possibile fare, in qualche modo,
esperienza del divino? Potrebbe Dio manifestarsi, comunicarsi a noi in modo che
possiamo sperimentarlo? Normalmente certo noi non abbiamo una esperienza
diretta di Dio, come l’abbiamo con gli oggetti o le persone del nostro mondo
quotidiano. Potremmo però fare una esperienza extra-ordinaria di Dio, in modo
da by-passare tanti problemi teoretici ed arrivare, per così dire, in un ‘sol
colpo’ alla certezza di Dio?
Alcuni dicono di no, già per la
definizione preliminare di essere trascendente che abbiamo dato di Dio, e
sarebbe quindi da escludere una sua presenza che potesse essere percepita a
livello sensoriale. Ma altri ritengono invece che ciò non sia contraddittorio.
Anche se Dio è inosservabile per definizione questo non implica l’impossibilità
logica che qualcuno possa arrivare ad acquisire una conoscenza della presenza
di Dio grazie alla mediazione dei sensi. Dopotutto, per il teista in generale e
per il cristiano in particolare, Dio non è solo trascendente ma anche
immanente, è un Dio nella storia, un Dio che si è fatto uomo.
In effetti molti credenti, nel
presente e nel passato, e nelle più diverse culture, occidentali ed orientali,
dicono di aver avuto esperienze religiose, e all’apice di queste, esperienze
mistiche, in cui avrebbero sperimentato Dio o il “sacro”. C’è chi ha provato il
“sentimento del numinoso”, ovvero ha avuto l’esperienza di trovarsi in presenza
di un essere assai diverso da noi, sacro e trascendente. Altri testimoniano
che, anche senza aver vissuto esperienze sensoriali (esteriori) straordinarie
(estasi, visioni e altri fenomeni simili), sono stati invasi, in un particolare
momento della loro vita, da un maggior senso di libertà, di gioia, gratitudine
e pace, che la loro vita si è trasformata interiormente ed esteriormente. E
imputano questo cambiamento ad un intervento divino. Tra l’altro, qualche
credente, dice addirittura che sia possibile, se non indurre, almeno favorire tale
incontro col divino, assumendo un certo atteggiamento esistenziale che
renderebbe più ricettivi e più adatti a ricevere il “totalmente altro” dentro
di sé.
Secondo alcuni dunque, il fatto che
l’esperienza religiosa sia qualcosa di universale tra gli esseri umani, e che
essi per quanto possano descrivere in modo diverso l’oggetto della loro
esperienza hanno in comune qualcosa nella loro credenza religiosa, riveste un
profondo significato. Per esempio, secondo il filosofo francese H. Bergson
(1859-1941) questa forma di esperienza fornisce l’unica prova possibile
dell’esistenza di Dio. Vi è - egli dice - un profondo accordo tra i mistici,
soprattutto tra i mistici cristiani, e tale accordo è segno di una identità di
intuizione la quale si può spiegare solo con l’esistenza reale dell’Essere
divino con cui essi si credono in comunicazione. Sarebbe infatti del tutto
inverosimile la tesi per cui l’esperienza dei mistici sia l’espressione di una
patologia psichica o di una semplice autosuggestione, considerando la natura
spirituale e morale di tanti suoi protagonisti, la loro personalità certamente
eccezionale, ma scevra da sintomatologie isteriche o psicotiche. Per altro
alcuni mistici si sono manifestati critici circa alcune loro visioni e fenomeni
straordinari, cosa che depone a favore
della loro autenticità quando ne parlavano con certezza.
Tuttavia, nonostante la convinzione
di chi vive queste esperienze come autentiche, come reali e insospettabili,
perché portatrici di una pace, di una gioia, di un’armonia, di un unione tra il
soggetto umano e Dio, ovvero come comunicanti loro un’affermazione attendibile
su una realtà trascendente, non si possono eludere importanti domande, del
tipo: che cosa si sperimenta realmente nell’esperienza religiosa? come accertare
che non si tratta di un semplice stato d’animo soggettivo?
Infatti, i termini stessi con cui il
soggetto descrive ciò che prova, non sono già un’interpretazione? L’idea di una
potenza superiore, di qualcosa di più grande dell’uomo è un “dato immediato della
coscienza” o, al contrario, una interpretazione del soggetto, il prodotto di
un’elaborazione in cui entrano in gioco fattori culturali, sociali e politici?
Non si prende ciò che è l’enunciato di un fatto psicologico per un’ asserzione
metafisica? Tale inferenza, però, da un punto di vista filosofico, appare
problematica, perché il fatto di avere un’esperienza di per sé non garantisce
che esista qualcosa al di là dell’esperienza stessa. Il mistico afferma che le
sue esperienze sono rivolte a qualcosa al di là dell’esperienza, qualcosa che
realmente esiste al di fuori di noi, non solo nella sua mente. Ma passare da
un’esperienza soggettiva ad un’entità oggettiva, nella realtà, richiede una
dimostrazione, o almeno delle prove. Se il mistico oltre alla sua affermazione
non porta delle prove constatabili da altri se ne deve dedurre che l’esperienza
mistica non stabilisce l’esistenza di una fonte divina di cui essa sarebbe
l’effetto (J. Hospers).
Ma
anche da un punto di vista psicologico si possono constatare problemi. Quando
da una generica intuizione del divino si passa all’esperienza dell’estasi
“dovendo l’approccio psicologico osservare e cogliere soprattutto gli aspetti
comportamentali e verbali, ne ha rivelato la similitudine con stati e
manifestazioni psicopatologiche, pur cercando al contempo di coglierne le
differenziazioni e le specificità: cosa questa tutt’altro che facile” (L.
Pinkus). Con questo non si vuole insinuare che, in generale, i mistici siano
delle persone affette da disturbi psichici. Ma è anche vero che interrompere lo
stato ordinario di coscienza non è così difficile, ed esistono innumerevoli
forze in grado di riuscirvi: corse estenuanti, fame e sete, privazioni del
sonno, stimoli sonori intensi, deprivazione o iperstimolazione sensoriale,
danza ininterrotta, meditazione, ripetizione ossessiva di parole o frasi,
traumi cerebrali. E tanti mistici storicamente conosciuti erano spesso
sottoposti all’azione di una o più di queste forze. Essi infatti per penitenza
erano soliti privarsi di cibo o sonno, oppure rimanevano in uno stato di
meditazione per ore, ripetendo ossessivamente le stesse preghiere. Situazioni
del genere, sommate ad una personalità problematica, alla fede religiosa, alle
astinenze sessuali, al contesto sociale e culturale, agiscono sinergicamente,
creando una modificazione della coscienza che si carica di tematiche mistiche
trascendentali (A. De Vincentiis).
Ci sono poi una vasta gamma di
esperienze che potrebbero essere descritte come mistiche, ovvero nelle diverse
situazioni in cui noi possiamo dire di fare esperienze straordinarie: di fronte
ai prodigi e alle bellezze naturali (montagne, mare, tramonti, cielo stellato,
ecc.), nell’esperienza sessuale, nel parto, in situazioni di gioia, o quando
siamo pieni di felicità ed entusiasmo, oppure in situazioni di dolore di
angoscia, nei momenti di conforto o quando constatiamo l’amore gratuito da
parte di un altro, o infine nell’incontro con la morte. “Sono tutte esperienze
di un mistero, ma sarebbe troppo affrettato scambiare l’esperienza di questo
mistero per esperienza di Dio. Esso può venir interpretato in modo teistico, ma
compreso pure in modo panteistico, ateistico, nichilistico” ammette lo stesso
teologo W. Kasper. A proposito di questa ambivalenza, alcuni sostengono che le esperienze
teistiche avrebbero lo stesso contenuto di esperienze non teistiche, ma che sarebbero solo diversamente
interpretate: in tutte ci sarebbe l’esperienza dell’“unità indifferenziata” con
la realtà che ci circonda, oppure sarebbero momenti in cui uno vede la realtà
“più in profondità” di quel che vede normalmente, ma non si vivrebbe
necessariamente un reale incontro con Dio.
C’è poi un’altra importante
considerazione da fare. Come ha sottolineato a ragione G. E. Lessing
(1729-1781) è molto diverso avere solo racconti di altri che dicono di aver
fatto certe esperienze straordinarie rispetto al fatto di averle vissute noi
stessi. Le esperienze degli altri uomini possono essere conosciute soltanto
fino al punto in cui essi sono capaci o vogliono comunicarle. Infatti non
sappiamo cosa l’altro veramente abbia sentito, udito, vissuto, e non sappiamo
quanto sia fedele la sua descrizione della sua esperienza, se sia lucida o
quanto emotivamente e culturalmente condizionata. Per quel che ne sappiamo
potrebbero anche ingannarsi o, al limite, anche voler ingannare. Questo vuol
dire che, anche ammesso si ritenesse che quanti credono di essere stati essi
stessi partecipi di una esperienza religiosa siano giustificati a fidarsi di
tale esperienza e ad impostare in base ad essa la propria vita, questo non può automaticamente valere
anche per quanti queste esperienze le sentono solo raccontare. Lo scarto tra i
due tipi di conoscenza è evidente.
Inoltre, il fatto di per sè che
l’esperienza religiosa sia un fenomeno universale non garantisce che sia una
esperienza autenticamente trascendente. Le persone, dicono i critici, si sono
sempre ovunque sentite insicure in un mondo difficile e hanno sempre desiderato
protezione contro una sorte spesso crudele. È la condizione umana, ed è
semplicemente naturale che le persone cerchino qualcosa che le mettano al
riparo da tutto ciò. È pressochè universale anche la credenza nella magia e
nella stregoneria, ma questo non è un motivo sufficiente per crederci. Anche
l’errore umano è universale (J. Hospers). Detto altrimenti, il fatto che ci sia
similitudine in certe esperienze religiose in contesti diversi potrebbe
indicare anche solo la somiglianza della natura psicosomatica di tutti gli
esseri umani.
Il filosofo R. Swinburne ammette che
tali esperienze non possono essere considerate una prova dell’esistenza di Dio
poiché è sempre possibile descrivere l’esperienza supposta di Dio anche in modo
profano ed è quindi una questione di interpretazione. Però, aggiunge, bisogna
considerare che noi normalmente accordiamo una generale fiducia nei confronti
dell’affidabilità della nostra percezione, e tale atteggiamento è l’unico che
un uomo ragionevole possa assumere. Quindi se qualcuno afferma di aver fatto
un’esperienza (qualsiasi) possiamo razionalmente metterla in dubbio solo se
abbiamo una prova positiva da opporgli in contrario. Swinburne ritiene che le
affermazioni di percezione di natura religiosa meritano di essere prese sul
serio allo stesso modo delle affermazioni di percezione di qualsiasi altra
natura. Di conseguenza sarebbe razionale credere che Dio esista dal momento che
ammettiamo che alcune esperienze, che i soggetti ritengono autenticamente
religiose, lo siano effettivamente. Tuttavia anche questa argomentazione
apologetica è criticabile. Si deve infatti dire che mentre tutti ci affidiamo
all’esperienza sensoriale, molti vedono buone ragioni per sospettare o
destituire di fondamento l’esperienza religiosa. Quest’ultima viene criticata
in base all’osservazione che le condizioni dell’esperienza di Dio non sono le
stesse, e non possono mai esserlo, di un’esperienza empirica. L’esperienza
quotidiana infatti è riconosciuta da tutti, è pubblica, mentre l’esperienza
religiosa non è universale ed uguale dappertutto, è privata, non può essere suscitata
a piacere, non dipende dall’uomo ma solo da un possibile Dio che si rivela
quando vuole.
C’è anche il problema del conflitto
tra le esperienze: chi dice di aver avuto l’esperienza diretta di Dio tramite
Cristo, altri sostengono di aver avuto una esperienza diretta del Dio
dell’Antico Testamento ma non di Cristo,
altri pretendono di avere esperienze dirette di Allah. Altri sperimentano
l’unità con Brahman o con l’universale natura del Buddha. Per non parlare delle
visioni più diversificate dei diversi personaggi divini, dalla Madonna a
Krishna. Alcuni sono convinti che tale problema possa essere superato
considerando che quello che più differisce sono le credenze e non tanto le
esperienze in sé, ossia le interpretazioni dottrinali o semplicemente il modo o
il linguaggio di comunicare tali esperienze, le quali invece avrebbero un
“nocciolo duro” in comune, cioè l’incontro con una realtà trascendente
ineffabile e indescrivibile in sé. Ma questa soluzione provoca le domande
critiche: se si ammette che il contenuto di un’esperienza religiosa è fissato
dal contesto storico-religioso, allora come sapere fino a che punto tale
esperienza è plasmata dalla propria cultura, magari fino ad esserne
semplicemente un prodotto piuttosto che configurarsi come reale accesso al
trascendente? E se quello che esse comunicano può essere considerato solo come
un “ritratto” del divino, ma non il divino in sé, se non dicono quello che il
divino realmente è, come sappiamo se quest’ultimo sia degno di amore o fede,
piuttosto che di indifferenza?
Lo studioso F.J. Streng così enuclea sinteticamente alcuni problemi
fondamentali cui vanno incontro i sostenitori della verità come esperienza
intima di una presenza spirituale: 1. comunicare una realtà inconcepibile per
mezzo di parole o di riferimenti alla normale esperienza umana; 2. correlare
l’eccezionale esperienza interiore a criteri generali di verifica del normale
sapere, come la percezione e l’inferenza; 3. giustificare la pretesa di una
qualità spirituale interiore e superiore da parte della persona che rivendica
stati di consapevolezza fuori dal comune e autorevoli, 4. evitare l’evidente
circolarità implicita nell’affermazione che chi nega la validità della verità
sovracosciente non è in grado di capire o giudicare la validità di questa
verità. Aggiunge anche che dal momento che la natura della verità religiosa
richiede un cambiamento nella qualità dell’apprendimento per mezzo di speciali
tecniche o di un potere trascendente (per es. la grazia divina) qualsiasi
riferimento a stati di coscienza inusuali non può fornire la norma di validità
per una teoria generale della vertità che si fondi anche sul normale
ragionamento o sulla percezione.
Significativo è quanto dice L.
Brown, il direttore del Religious Experience Research Centre dello Westminster
College di Oxford, l’istituzione più nota nel Regno Unito (istituita negli anni
settanta) impegnata nello studio sistematico dell’esperienza religiosa. Fino al
1996 sono stati raccolti 6000 rapporti in cui altrettante persone descrivono loro
esperienze accadute decsritte come esperienze trascendentali perché danno
l’idea che ci sia qualcosa di diverso e distinto da noi esseri umani. Ebbene,
alla domanda se si possa dire che al di la di ciò che sono, tali esperienze
siano riferite ad un Dio reale, L. Brown afferma che “probabilmente è
impossibile rispondere. Come potremmo sapere se le esperienze individuali sono
o no riferite in modo oggettivo a un Dio reale? Il massimo che si può dire è
che , se una persona ha una sua consapevolezza di Dio, e questo cambia la sua
vita, allora, per quell’individuo, “Dio” è un’influenza reale. Moltissime
persone sono in grado di individuare con precisione un evento specifico che ha
cambiato il corso della loro vita. Ma credo che esista moltissima altra gente,
come me, per esempio, che ha sempre vissuto all’ombra di un ordine trascendente
di qualche tipo”(in R. Stannard, La scienza e i miracoli, 1996).
Qualcuno è anche convinto che l’uomo
possa prepararsi, possa mettersi nelle giuste condizioni per poter favorire
tale incontro con Dio, per poter “ricevere” Dio in sé. Se l’uomo si mettesse in
un atteggiamento di costante preghiera e supplica, si incamminasse in un
percorso di ascolto e di attesa, di svuotamento del proprio sé perché Dio se
c’è possa riempirlo; se si abbandonasse
con fiducia al possibile Dio, se si mettesse in una radicale
disponibilità ad accogliere la presenza e l’amore di Dio in lui, se lasciasse
fare a Dio, allora probabilmente Dio gli verrebbe incontro e si manifesterebbe
a lui. Sarebbe almeno una condizione necessaria, se non sufficiente, perché Dio
si faccia presente all’uomo.
Ma è chiaro che anche la
giustificazione di tale atteggiamento risulta problematica. Si tratterebbe
infatti di prodigarsi in un notevole impegno senza alcuna certezza di
risultato, con il rischio che sia tutto vano. Da che cosa sarebbe giustificata
questa logica che esige tutto e non garantisce nulla? Si deve concludere che
questo atteggiamento di ricerca e di abbandono , questa via, resta un audace
rischio: il rischio cioè di lasciarci andare senza che sia possibile accertare
in anticipo quale possa essere l’esito di simile impegno profuso. Per di più,
accanto alle persone che dicono di aver incontrato Dio dopo essersi abbandonate
a lui, ce ne sono altre che hanno dato e danno testimonianza che alle loro
preghiere e suppliche al possibile Dio, al loro impegno e alle loro rinunce per
la religione, nessuno ha mai risposto né le ha mai confermate sul loro cammino
con risposte univoche di alcun genere.
Pertanto
“il ricorso all’esperienza religiosa o l’esperienza religiosa da sola, in
ultima analisi, non è sufficiente per la fondazione filosofica e la
giustificazione della religione; sulla base dell’esperienza religiosa da sola
non si può dimostrare la verità della religione”(J. Schmitz).
Quindi in conclusione, l’esperienza
religiosa in sé rimane ambivalente nella sua possibilità di rivelarci la
presenza e l’azione di un Essere trascendente; chi sperimenta qualcosa di
straordinario che interpreta come esperienza di Dio, dovrà valutare in modo
lucido la portata della sua esperienza; per gli altri rimane un “fatto” ancor
più problematico, che non tutti condividono, che non è ne controllabile né
ripetibile. Questo non vuol dire che l’argomento dell’”esperienza religiosa”
sia del tutto vano per aggiungere maggiore credibilità alla credenza religiosa:
qualcosa può dire, come nel caso di una testimonianza di una persona che sia
seria e attendibile, che non soddisfi alcun tipo di interessi dalla sua
testimonianza, e che trasformi la sua vita in senso positivo e umano (che dia
“buoni frutti”). Ma è difficile dire
quanto. Così anche il percorso di “abbandono” previo a Dio, che porterebbe a
facilitare tale esperienza personale, lascia perplessi: per quanto lodevole,
rimane arduo nell’impegno e incerto nel risultato.
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