martedì 28 aprile 2015

27. CONCLUSIONI: IL CREDENTE, L'ATEO E L'AGNOSTICO


Al termine di questo percorso di confronto e valutazione delle risposte che si sono date alle eterne domande dell’uomo - e cioè, in termini semplificati, se esista un Dio e che cosa o chi sia, se si sia rivelato all’uomo e se ci salverà dalla morte definitiva - intendo descrivere brevemente e schematicamente i possibili atteggiamenti dell’uomo nei confronti della prospettiva religiosa della vita, che tipicamente confluiscono nella forma di vita del credente in Dio, dell’ateo e dell’agnostico.
In questa descrizione si deve tener conto sia di quello che sappiamo riguardo la vita e la religione, cioè il problema della conoscenza della verità, detto aspetto gnoseologico, sia di quello che desideriamo, cioè il problema del senso della vita o della realizzazione significativa dell’uomo, detto aspetto esistenziale.
Sono due aspetti fondamentali dell’uomo, coesistenti, che però, per quanto possibile, devono essere valutati separatamente.
Accennerò poi a quelli che sono considerati le possibilità e i limiti delle posizioni del credente, dell’agnostico e dell’ateo.
È fondamentale infine tener presente che ognuna di queste tre posizioni è sostenuta, con argomenti ritenuti significativi da chi li tematizza e/o li condivide, da autorevoli teologi, filosofi o scienziati. 

Devo fare due precisazioni importanti. La prima: ovviamente non pretendo di descrivere il pensiero ed il vissuto di ogni credente o agnostico o ateo che sia, perché ognuno ha il proprio modo di pensare - nei contenuti e nella giustificabilità - e di vivere la propria fede o la propria incredulità. Mi limito a dire qualcosa in cui qualcuno si possa parzialmente rispecchiare.
La seconda: di seguito, per credente intendo, per semplificare, il teista, anzi precisamente il monoteista, e il monoteista cristiano (tipicamente inteso) - ma non si deve dimenticare che il credente può essere anche solo il deista - e quando parlo di religione, mi riferirò soprattutto al cristianesimo (ma anche qui ci sono tanti modi di concepirlo), ma con la consapevolezza che è solo una delle tante religioni esistenti, ancorché la più universale - per non parlare dei diversi modi in cui si può abbracciare una dimensione “spirituale” della vita. 

Credente

Il credente in Dio è colui che crede nell’esistenza di una “ulteriorità” rispetto alla sola forma visibile del mondo, che chiama “Dio”, e che pensa come origine e senso ultimo del tutto e della sua propria vita.
Più concretamente, il teista crede che l’uomo sia stato voluto e “creato” da un Dio, che questo Dio si sia rivelato agli uomini tramite un mediatore (se consideriamo solo i tre monoteismi: patriarchi, Mosè e profeti per l’ebraismo; Gesù, tradizionalmente inteso come “uomo e Dio” per il cristianesimo; e Maometto per l’Islam) e che il suo destino oltre la morte sarà quello della comunione eterna con Dio.

Aspetto gnoseologico

            In genere i credenti (cristiani) ritengono che sia più plausibile razionalmente l’esistenza di Dio e la verità della rivelazione (cristiana); in altri termini ritengono di avere dei buoni motivi per credere, o che sia più ragionevole credere piuttosto che non credere (non ritengono di poter dimostrare la propria fede). 
Al credente la “religione” sembra essere credibile - e quindi la speranza ad essa collegata fondata – soprattutto considerando questi argomenti (tra quelli più classici): l’idea di Dio presente nell’uomo (argomento ontologico); l’esistenza, l’ordine e la complessità dell’universo e della vita consapevole dell’uomo (argomenti cosmologico e teleologico); le numerose e attendibili “esperienze religiose” di tanti uomini di diverse culture; i sorprendenti eventi miracolosi documentati, passati e presenti; l’esigenza di Dio per fondare o giustificare pienamente la morale; l’esigenza di un  significato assoluto della vita presente in tanti uomini; il bisogno di dare senso e riscattare il troppo dolore presente nel mondo; la presenza universale della “religione” tra gli uomini; la plausibilità storica della rivelazione cristiana.
Si può riassumere la posizione del credente con l’espressione: “non sono sicuro che Dio esista e che il cristianesimo sia vero, ma lo ritengo plausibile”.  

Aspetto esistenziale

Il credente - oltre alla sua convinzione teoretica della plausibilità della prospettiva teistica della vita - è colui che cerca una dimensione “verticale” della vita, un più ampio contesto significativo della sua esistenza. È mosso dalla sua passione per l’infinito. Non vuole soffocare la sua aspirazione ad una felicità e pienezza definitive. È colui che spera giungano a compimento quei “momenti” di senso e felicità che costruisce e sperimenta già nella sua vita, perseguendo decisamente valori impegnativi come la giustizia, la solidarietà, la compassione, riassumibili nell’amore per Dio (culto) e per gli altri (donazione e servizio). Confida anche che non abbiano l’ultima parola l’ingiustizia, l’odio, il dolore, e soprattutto, la morte. Insomma, il credente spera in un senso ultimo positivo del tutto, che naturalmente, visti i limiti della vita umana, può eventualmente darsi solo in una dimensione trascendente.
            In questa scelta il credente seguirà la logica dell’investimento, del rischio, non accontentandosi del finito, di ciò che ha qui ed ora, del limitato della “vita terrena” per impegnarsi nella ricerca di una “vita spirituale” che sola potrebbe realizzarlo pienamente. Il teista pensa/spera che Dio esista e si abbandona a questa sua convinzione/speranza, perché pensa che sia realistica e che sola possa realizzarlo in pienezza.

Possibilità e limiti

Questa scelta è possibile e legittima perché la realtà è aperta a questa possibilità - la religione è inconfutabile e l’ateismo è indimostrabile - e quindi l’uomo che non si accontenta del finito può impegnarsi in questa sua vita finita seguendo la religione nella speranza di raggiungere l’infinito, di realizzarsi in modo assoluto in futuro (escatologico). (Tra parentesi: è anche possibile e legittimo che una persona che dal punto di vista gnoseologico ritenga la religione improbabile, dal punto di vista esistenziale segua la religione, perché potrebbe avere estremo bisogno di sperare in un Dio per dare senso alla sua vita, nonostante l’elevato rischio che non sia vera).
Tuttavia presenta anche dei limiti: sottolineo solo la questione del rischio: il credente impegna tutto quel che ha e che è qui - che è l’unica cosa sicura - per una inverificabile realizzazione assoluta nell’aldilà, sacrifica ad un assoluto incerto le proprie energie vitali, pur sapendo che potrebbe anche non trovare nulla e quindi sprecare anche quel poco che ha: forse non si tratterà di dare via completamente la propria vita, tuttavia non potrà impegnarsi del tutto per godere e plasmare quel che la vita qui potrebbe donargli. La vita che si vive qui è troppo preziosa per rischiarla per un’ipotetica realizzazione nell’aldilà, e poi, ancorchè relativa, può essere vissuta nell’impegno e nella pienezza, senza essere considerata vana solo perché non è assoluta.   

Ateo

L’ateo, al contrario, è colui che crede non esista questa “ulteriorità” trascendente e che il tutto coincida e si esaurisca con/in questa dimensione nient’altro che immanente.
Più concretamente l’ateo è la persona che crede che Dio non esista, che l’uomo sia solo il prodotto accidentale della natura, che tutte le religioni siano infondate, cioè costruzioni umane, e che non ci sarà alcun’altra vita oltre la morte.
Aspetto gnoseologico

In genere gli atei ritengono più plausibili razionalmente l’inesistenza di Dio e   l’infondatezza delle religioni rivelate; in altri termini ritengono di avere dei buoni motivi per non credere, o che sia più ragionevole non credere piuttosto che credere (in genere non ritengono di poter dimostrare l’inesistenza di Dio).
All’ateo la religione sembra non essere credibile - e quindi la speranza ad essa collegata infondata - soprattutto considerando: l’impossibilità di dedurre un Dio reale dalla sola idea di Dio presente nell’uomo; la probabile costituzione nient’altro che naturalistica dell’universo e dell’uomo; l’improbabilità delle esperienze religiose e dei miracoli come rivelatori della presenza e l’azione di un Essere trascendente; che Dio è facoltativo per fondare o giustificare la morale; i sospetti, e probabilmente illusori, desideri ed esigenze dell’uomo di realizzarsi al di là delle possibilità che gli sono proprie in questa vita; l’eccesso del male/dolore dell’uomo e il  corrispettivo silenzio di Dio riguardo il suo possibile senso e riscatto in una presunta dimensione trascendente; la pluralità delle religioni rivelate suggerente la loro origine umana piuttosto che divina; la verosimiglianza dell’identità nient’altro che umana del “fondatore” del cristianesimo, Gesù di Nazareth.  Si può riassumere la posizione dell’ateo con l’espressione: “non sono sicuro che Dio non esista e che il cristianesimo non sia vero, ma lo ritengo plausibile”.
Aspetto esistenziale

L’ateo – oltre alla sua convinzione teoretica della plausibilità della prospettiva ateistica della vita – è colui cui basta la dimensione “orizzontale” della vita, che si concentra su quello che può fare dentro la sua esistenza. È mosso dalla sua passione per il finito. Perseguirà un’etica per l’io, per il suo solo interesse e successo personale, impegnandosi del tutto per godere e plasmare quel che la vita qui può donargli, o anche un’etica per il tu, per la solidarietà, implicante anche il sacrificio per l’altro. Si accontenta della sua dimensione finita, con tutti i suoi aspetti crudeli e stupendi; si prende tutta la responsabilità di dare un senso alla sua vita dando senso alle piccole cose; “non crede che per vivere pienamente sia necessario durare eternamente, né che la felicità, l’amore o il pensiero perdano valore perché finiscono”.
In questa scelta l’ateo seguirà la logica della moderazione, accontentandosi del finito, di ciò che ha qui ed ora, impegnandosi a ricavare il massimo e a godere di tutto quanto gli è possibile qui ed ora, o anche aiutando gli altri, ma comunque non sprecando tempo ed energie alla ricerca di una eventuale realizzazione assoluta ma incerta. L’ateo non spera in Dio, perché pensa che sia una speranza illusoria ed eventualmente perché pensa che possa realizzarsi anche senza Dio. 

Possibilità e limiti

Questa scelta è possibile e legittima perché la realtà è aperta a questa possibilità – la religione è indimostrabile e l’ateismo è inconfutabile - e quindi non si è obbligati a seguire la religione impegnandosi per essa col rischio che sia tutto vano, illusorio, ovvero che non si raggiunga la realizzazione ultramondana sperata. (Tra parentesi: è anche possibile e legittimo che una persona che dal punto di vista gnoseologico ritiene la religione probabile, dal punto di vista esistenziale abbracci l’ateismo, perché per seguire la religione potrebbe pretendere la certezza sulla sua verità, e non la sola probabilità, per non rischiare nulla nel seguirla).
Tuttavia presenta anche dei limiti: sottolineo solo la questione di quanto sia relativa la realizzazione solamente intramondana dell’uomo: questa vita, da sola, è limitata ad un’avventura a momenti piacevole ed altri spiacevole, destinata a finire nel nulla tra qualche decina di anni. Se si tiene conto del desiderio di molti di realizzarsi in qualcosa di più grande, di assoluto, di definitivo, allora diventa accettabile affrontare un cammino fatto di profondi e importanti valori umani, che rendono la vita più piena già qui, cammino impegnativo ed incerto, ma aperto ad una possibilità di infinità di vita, di gioia, di amore, che dice che vale la pena rischiare. E’ sicuramente più importante quello che si potrebbe trovare se la religione fosse vera - infinito - che quello che si potrebbe perdere se la religione fosse falsa - finito. 

Agnostico

L’agnostico è colui che non sa se credere o meno ad una “ulteriorità” che trascende il mondo fisico, chiamata “Dio”. Più concretamente è la persona che crede di non poter credere né che Dio esista né che non esista, né che qualche religione sia vera né che sia infondata, né che dopo la morte ci sia la vita eterna né che non ci sia nulla. 

Aspetto gnoseologico

Per gli agnostici non sembra possibile determinare se la “religione” sia credibile o non credibile, ovvero sembra loro risultare indecidibile la questione sulla sua verità - e quindi la speranza ad essa collegata semplicemente possibile – soprattutto considerando: l’incertezza se l’idea di Dio presente nell’uomo, e l’esistenza, ordine e complessità dell’universo siano indicatori attendibili della reale esistenza di Dio; l’ambiguità delle esperienze religiose e dei miracoli verificatesi; il dubbio se l’esigenza di un significato assoluto della vita e il bisogno di riscattare il dolore del mondo saranno soddisfatti; l’incertezza se la presenza universale della “religione” tra gli uomini sia prova della verità della “religione” stessa; l’indeterminabilità della verità della rivelazione cristiana.
Si può riassumere la posizione dell’agnostico con l’espressione: “non so se Dio esista o non esista, né se la religione sia vera o no, perciò mi astengo dal prendere posizione”.  

Aspetto esistenziale

A questa posizione teoretica dell’agnosticismo, possono seguire tre posizioni esistenziali diverse tra loro: la prima, quella propriamente agnostica; la seconda, aperta alla fede (tendente alla credenza); la terza, chiusa alla fede (tendente all’incredulità).
Nella prima, che idealmente si mantiene ad uguale distanza dal credere e dal non credere,  la persona seguirà una via intermedia, tenendo conto che la “religione” può essere vera - e quindi parzialmente si impegnerà per seguirla sperando nella sua promessa di una realizzazione ultramondana - ma che può anche essere falsa – e quindi si impegnerà anche per una realizzazione intramondana, qui ed ora. Si tratterebbe, per così dire, di vivere impegnandosi sulla e per la “terra”, e insieme di impegnarsi e di investire anche nel “cielo”. In altri termini, sarebbe un investimento moderato nella “religione”.

Possibilità e limiti

Questa scelta è possibile e legittima perché rispecchia l’incertezza della nostra conoscenza sugli argomenti religiosi – dove non sembra possibile stabilire oggettivamente se sia più plausibile l’esistenza o non esistenza di Dio, se si sia rivelato oppure no, se ci salverà dalla morte oppure no - e non fa assumere atteggiamenti unilaterali come se si sapesse se la religione fosse vera o falsa, quando invece in realtà il nostro sapere al riguardo rimane, appunto, indeterminato.
            Tuttavia presenta dei limiti: se può sembrare l’atteggiamento più adeguato rispetto ai dati che abbiamo da un punto di vista teoretico, potrebbe essere difficile da mantenere coerentemente in pratica. Si potrebbe facilmente scivolare in una della due posizioni più definite, abbracciando o non abbracciando la “religione”, poiché potrebbe essere problematico determinare cosa concretamente significhi mantenere una posizione intermedia nelle scelte quotidiane tra valori conflittuali.              

Nella seconda posizione esistenziale, aperta nei confronti della fede religiosa, la persona, nonostante sia consapevole della incapacità della ragione di appoggiare la propria fede, spera o confida che Dio esista. Qui la persona si confonde praticamente con il credente descritto sopra, anche se teoreticamente è meno “convinto” della sua credenza in Dio. È il suo bisogno di credere in Dio, è la sua passione per l’infinito, che determinano la sua forma di vita di credente, piuttosto che le sua dimensione intellettuale. 

Nella terza, chiusa alla fede, la persona, nonostante sia consapevole dell’incapacità della ragione di sostenere la propria incredulità, spera (o è comunque convinta) che Dio non esista. Qui la persona si confonde praticamente con l’ateo descritto sopra, anche se teoreticamente è meno “convinto” della sua incredulità. È il suo bisogno di non credere in Dio, è la sua passione per il finito, che determinano la sua forma di vita di non credente, piuttosto che le sua dimensione intellettuale. 

Considerazioni finali 

Da quanto emerso si possono trarre queste considerazioni. Nessuno può dire di essere in possesso della verità assoluta sull’uomo e sul “problema di Dio” (che possa “insegnare” agli altri). Non ci sono prove empiriche o dimostrazioni logiche a sostegno o contro la “religiosità”. Non ci sono evidenze di nessun genere.
Il dibattito filosofico, scientifico e storico intorno alla “questione di Dio” e della “religione” è ancor oggi acceso e sconfinato (dopo secoli di discussioni), gli argomenti pro e contro in perenne conflitto, e le domande aperte molto più numerose delle possibili risposte raggiunte. Pertanto, non c’è dubbio che religiosità e ateismo siano entrambi indimostrabili e inconfutabili. Piuttosto, le opinioni divergono in merito alla plausibilità o meno, che ognuno assegna all’una o all’altra visione del mondo. Da qui l’esistenza dei credenti, degli atei e degli agnostici.
Di conseguenza, visto che altri uomini come noi - colti, intelligenti e in buona fede come pretendiamo di essere noi - la pensano diversamente o addirittura all’opposto di noi, dovremmo persuaderci che, malgrado le nostre convinzioni, potremmo alla fine sbagliarci. Dobbiamo essere ben consapevoli che, qualunque sia la nostra posizione - del credente, dell’agnostico o dell’ateo – altre due posizioni diverse dalla nostra sono certamente possibili e sostenute da persone dignitose quanto noi. Noi certo non le riteniamo ragionevoli come la nostra, ma quantomeno non dovremmo ritenerle impossibili. Gli altri hanno altre ragioni, le loro ragioni, vedono sotto altri punti di vista lo stesso problema, danno peso ad aspetti che noi riteniamo secondari o superabili; ma è ben difficile che le loro ragioni ci siano completamente estranee o incomprensibili.
È quindi probabilmente vero, per stessa ammissione di alcuni rappresentanti autorevoli del pensiero credente e non credente, che ogni uomo che riflette consapevolmente su questi temi, porta dentro sé entrambe le posizioni, religiose e non religiose, sopradescritte. Ognuno vivrebbe, in diversa misura e in diversi momenti della sua vita, la fede, il dubbio e l’incredulità.
Questo perché credere non è possesso, o garanzia o sicurezza umane, bensì abbandono e rischio. Perché anche il credente sa che, dopo tutto, “forse è proprio vero che Dio non esiste”.
E, d’altra parte, anche l’incredulità  non si appoggia su una certezza assoluta. Perché anche il non credente sa che, dopo tutto, “forse è proprio vero che Dio esiste”.
Per tutti sarebbero presenti, poco o tanto, la lotta e la ricerca: la lotta del credente contro il dubbio e l’incredulità, e la lotta del non credente contro il dubbio e la credenza; la ricerca di entrambi per amore della verità, per avere nuove conferme alle proprie posizioni o per rivalutarle. Ancora per entrambi, la consapevolezza del rischio, piuttosto che una pace e una sicurezza incrollabile e stabile, acquisita una volta per tutte.
Pertanto il rispetto, la tolleranza ed il dialogo con chi la pensa diversamente da noi dovrebbero essere atteggiamenti doverosi, anzi normali. Anche perché ci possiamo avvicinare alla verità solo col contributo di tutti, nel cammino e nel confronto con l’altro.
Per concludere, allora, la scelta se essere credente, ateo o agnostico, è una scelta di tipo personale o soggettivo, che ogni uomo, vivendo, deve compiere. Infatti sulle questioni ultime della vita non disponiamo di soluzioni pronte: il dibattito non solo è in corso da tempi remoti, ma verosimilmente proseguirà finchè esisterà l’uomo; quindi, da un punto di vista razionale, si dovrebbe posporre la nostra decisione ad oltranza, senza mai assumere una posizione razionale definita, dal momento che potrebbero sempre emergere ulteriori dati e interpretazioni, in qualunque direzione. Ma la vita è breve. Da qui la necessità di una appropriazione di tipo personale, di una decisione a carattere esistenziale, da fare in mancanza di evidenze, ma, almeno, nel modo più consapevole ed equilibrato possibile.
Per questo credo che la ricerca di noi stessi - di quel che siamo, della nostra natura, e quindi la ricerca di Dio - fatta con lucidità e consapevolezza - secondo le nostre personali possibilità e capacità - qualunque sia l’esisto, sia una delle attività che manifesta più eloquentemente la dignità dell’uomo. In questa decisione ognuno deve tener conto sia di quello che è arrivato a conoscere in ordine a queste tematiche filosofico-religiose, sia di quello che spera, a cui aspira, per la realizzazione della sua propria esistenza. Perché alla fine, quel che più conta, è la nostra dignità, e la nostra dignità dipende da come ci siamo posti davanti alla realtà di noi stessi, degli altri, del mondo e all'idea di “Dio”; dipende cioè dalla nostra autenticità e onestà, intellettuale ed esistenziale, e dalla nostra coerenza nella vita con quella verità che nel cammino della nostra ricerca ed esperienza, siamo riusciti a concepire e a raggiungere.  







lunedì 27 aprile 2015

26. MODELLI PRAGMATICI/ESISTENZIALI DI GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE RELIGIOSA



1.     Fede religiosa come fede/fiducia nella realtà   

            Come si vive nella vita sperando e nutrendo fiducia in generale, così si può vivere sperando in un senso assoluto. Infatti l’uomo, finchè vive, attua la sua esistenza soltanto in modo che continuamente si muove oltre il confine di ciò che è da lui conoscibile e dimostrabile. Tale confine lo oltrepassiamo in un movimento che è sollecitato da precorrimento e da previsione del futuro (cioè in un qualcosa che non è stato esperito da noi e che ci fa così camminare su un terreno inesplorato) e si svolge inoltre in un campo di tensione caratterizzato da interesse ed importanza per noi. Una cosa simile possiamo chiamarla fede (B. Welte).
In altre parole, l’uomo vive necessariamente di fede e di speranza nei confronti delle altre persone e del mondo, per cui la fede religiosa non è che un tipo particolare della fede in generale. Noi crediamo molte più cose di quelle che ci è dato apprendere per esperienza diretta. Chi di noi si è mai preoccupato di accertare direttamente la verità di tutto quello che ci hanno insegnato a scuola? Pensiamo e agiamo più in base a un credere che non in base ad un sapere esplicito (vedi anche post “3.Conoscenza ordinaria e conoscenza religiosa”). La fede appartiene all’essere umano tanto quanto il pensiero. Anzi viene prima, perché non si può certo contestare che dall’inizio della nostra vita ci sia non il pensiero, nel senso di una critica e di un esame riflesso, ma l’affidarsi a qualcuno, la ricerca fiduciosa di protezione, l’imitare, il seguire. All’inizio dunque è la fede, la fiducia.
In ogni caso non sembra rispecchiare la realtà dell’uomo, nella sua dinamica vitale, separare ragione e fede, perché l’uomo è un tutt’uno: intelletto e sentimento, razionalità e fiducia, calcolo e amore gratuito.
Quindi cadrebbe in contraddizione quell’uomo che vivendo continuamente di fede in generale dicesse di non accettare la fede religiosa perché è incerta: come se lui stesse vivendo e potesse vivere solo di certezze dimostrabili.
Qualcosa di simile è l’”argomento del differimento” del filosofo S. Kierkegaard, così riassumibile: 1. una decisione razionale è per principio interminata: non importa di quanti dati si disponga, potrebbero sempre emergere nuovi dati; 2. per tale ragione il dibattito accademico circa l’attendibilità storica delle sacre scritture e le argomentazioni filosofiche riguardanti la fede sono perpetuamente in atto; 3. se la fede dovesse fondarsi su tale processo dovrebbe essere rinviata all’infinito, e si farebbe in tempo a morire prima; 4. deve pertanto essere presa una precisa scelta di interruzione di questo processo decisionale; 5. questa è la fede.
Si potrebbe anche chiedere: perché si dovrebbe proprio nel campo teologico – dimostrazione di Dio, rivelazione, vita oltre la morte – esigere una dimostrabilità nel senso rigoroso del termine, benché siffatte pretese non si pongano più in altri ambiti della conoscenza, pure scientifica? Tra l’altro si deve già credere in qualcosa per poter in generale parlare di sapere e di scienza.
Inoltre, ci sono molti fenomeni intramondani che non sono suscettibili di constatazione empirica e verifica, né che possono essere resi comprensibili in tal modo. Se ci si limita a considerare significative per la vita solo le esperienze verificabili oggettivamente, come si potrà comprendere, per es., un innamorato? o uno che è afflitto dal dolore? o uno pieno di gratitudine?
Le esperienze dell’amore e dell’innamoramento non sono dunque oggettivabili: né l’innamorato può convincere pienamente altri della legittimità del suo amore, né egli stesso ha una garanzia assoluta di essere autenticamente corrisposto nell’amore. Pensiamo al gap tra le motivazioni razionali che si hanno per amare qualcuno e l’infinito interesse che per quella persona si prova quando se ne è innamorati: potremmo trovare infinite ragioni, sia per confermare sia per contraddire questo amore, posponendo all’infinito l’argomento, ma ad un certo punto scegliamo di esserne coinvolti. Così ci si innamora, ci si ama, ci si lega ad un parter. Vivere di solo ciò che è dimostrabile significherebbe privare la vita di gran parte di ciò che le è di più peculiare, significativo e di più vitale. Anche queste sono motivi per credere, forse non motivi specificatamente razionali, ma senz’altro motivi umani. 

            A queste osservazioni è stato controbattuto che:
            - la fede religiosa non è una particolarità della fede in generale: al contrario la prima ha un carattere assolutamente particolare che non si può assolutamente dedurre a partire da un credere universale in generale; non basta la fede naturale per arrivare alla fede cristiana (K. Lowith);
            - né la fede religiosa è una scarsa conoscenza suscettibile di accedere ad una più elevata conoscenza tramite successivi procedimenti conoscitivi, come invece è gran parte della fede interna al sapere (A. Fabris);
            - dalla fede religiosa dipende tutta la mia vita, il mio modo di vivere. Se ci si sbagliasse non sarebbe come sbagliare a credere a questo o a quest’altra persona, ma come sbagliare l’impostazione totale della vita (W. Weischedel);
            - uno può legittimamente protestare del fatto che le cose stiano in questo modo - cioè tutto avvolto dall’incertezza e dal rischio, sia le questioni religiose che quelle semplicemente umane, quotidiane – piuttosto che diversamente - cioè tutto chiaro, comprensibile ed evidente -  e potrebbe ritenere ingiusta e quindi inaccettabile questa situazione;
            - se nonostante questa incertezza di base, accetta di continuare a vivere, potrà almeno decidere lui liberamente quale incertezza scegliere, tra quelle suscettibili di scelta: scegliere se impegnarsi, investire qui ed ora in modo moderato sperando di ottenere una ricompensa immediata per quanto modesta, oppure se impegnarsi e investire in modo rilevante sperando di ottenere una grande ricompensa in futuro.
            Per vivere è necessaria solo la fede in generale, mentre la fede religiosa è facoltativa.
            Riguardo all’analogia dell’esperienza della fede con quella dell’amore W.Weischedel ha specificato che il rapporto con Dio del credente non è paragonabile a quello con un partner umano: nel rapporto umano si può osservare il partner, notare segni del suo interessamento nei nostri confronti, del suo amore, ancorché un accertamento assoluto sia impossibile; nel rapporto di fede non si può osservare direttamente il partner divino in questo ipotetico rapporto, che è per sua natura invisibile, né ci sono chiari indizi della realtà di questo rapporto al di fuori di un’interpretazione nella fede. 

2.     Fede religiosa come speranza  

“Quando ci interroghiamo sulla verità della fede, non dobbiamo assumere come punto di partenza una concezione della verità estranea alla fede. […] La verità nel senso della Bibbia non è semplicemente l’accordo tra il pensiero e la realtà. La verità è piuttosto un evento, nel cui avverarsi trova conferma il suo presupposto originario. La verità non la si può tener stretta, la verità è piuttosto un risultato. Verità e storia stanno qui in rapporto immediato. La verità della fede sarà totalmente palese solo escatologicamente. […] Così la fede è possibile solo in riferimento alla speranza” (W. Kasper).
Se la verità biblica non è che “speranza suscitata da una promessa”, se la fede è un accogliere e confidare in una promessa, allora la legittimazione della verità di questa promessa sta solo nel futuro escatologico. La mancata verifica della fede nell’esperienza intramondana non è dunque un argomento contro la fede e la speranza religiosa, si tratta solo di rinviare la verifica a dopo la morte. La fede come speranza è dunque inconfutabile perché nessuno può disporre del futuro (H. Gollwitzer).
 
            A questo argomento sono state fatte varie osservazioni.
Se si interpreta la fede come speranza, ossia come fiducia e speranza nella realizzazione di una promessa, allora è chiaro che la sua verifica ce la si può attendere solo in futuro. Una speranza può in effetti essere confutata solo quando non trova realizzazione, per cui di fronte ad una fede che spera il non credente può solo ammettere la sua inconfutabilità, la sua perenne possibilità. Ma una cosa completamente diversa è stabilire se ad uno vada bene accettare la fede, quella che dovrebbe essere la verità della sua vita, solo come speranza, possibilità, e non invece come sapere, certezza. La fede come speranza in una promessa si  presenta in tutta la sua radicalità come rischio, come non garanzia, come possibilità di  mancata realizzazione della promessa in cui si spera (W.Weischedel). Inoltre c’è il rischio che chi spera possa pensare di sostituire lo sforzo del conoscere e del sapere con lo sperare, cioè che troppo facilmente si affidi alla speranza, ma in modo ideologico e con cattiva coscienza. La speranza, per essere ragionevole, dovrebbe essere come minimo possibile, ma meglio se anche fondata (plausibile). 

3.     Fede religiosa come scommessa  

Un argomento affine ai precedenti è la classica “scommessa” di Blaise Pascal.
            Premesso che l’uomo non può eliminare l’incertezza su Dio con la sua sola ragione (filosofica, scientifica o storica) o con l’esperienza, la forma di vita religiosa assume necessariamente la configurazione di una opzione, di una speranza, di una scommessa.
Ricordiamo brevemente il discorso di Pascal: “L’uomo deve scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse; se la ragione non può aiutarlo in questa scelta, tanto vale che consideri qual è la scelta più conveniente proprio come se si trattasse di un gioco o di una scommessa nella quale bisogna considerare da un lato la posta , dall’altro la perdita o la vincita eventuale. Ora, chi scommette sull’esistenza di Dio, se guadagna, guadagna tutto, se perde, non perde nulla: bisogna dunque scommettere senza esitare. La scommessa è già ragionevole quando si tratta di una vincita finita e di poco superiore alla posta e diventa tanto più conveniente quando la vincita è infinitamente superiore alla posta. Nè vale dire che l’infinita distanza tra la certezza di ciò che si scommette e l’incertezza di ciò che si può guadagnare rende uguale il bene finito, che si rischia certamente, a quello infinito, che è incerto. Ogni giocatore azzarda con certezza per guadagnare con incertezza e azzarda un finito certo per guadagnare un infinito incerto senza peccare contro la ragione. In un gioco in cui vi sono uguali probabilità di vincere o di perdere, arrischiare il finito per guadagnare l’infinito ha ovviamente la convenienza massima”.
            Il nocciolo della scommessa è che chi scommette sull’esistenza di Dio se guadagna, guadagna tutto, mentre se perde non perde nulla, e che quindi ha la convenienza massima a farlo. Nella scommessa Pascal afferma che la giustificazione di una convinzione religiosa può trovare la sua ragion d’essere nella sua semplice utilità, nell’essere di giovamento al credente. Naturalmente la scommessa deve avvenire su un “oggetto” almeno logicamente possibile, meglio poi se anche probabile. Insomma, “in mancanza di evidenza sperimentale e osservativa è razionale credere a ciò che per noi è più desiderabile”.
Per Pascal, poi, la scelta è forzata perché non scommettere sull’esistenza di Dio equivale a scommettere contro l’esistenza di Dio, esattamente come non decidere di iniziare un’attività ha lo stesso esito di decidere di non iniziarla: in entrambi i casi non si fa nulla.
            Inoltre già Pascal faceva riflettere sul fatto che il costo della scommessa - la conversione – non deve apparire (necessariamente) come una perdita. Chi fa la scommessa della fede dà via solo quel che già qui e ora gli impedisce di vivere una vita buona, e quindi ci si “guadagnerebbe” già in questa vita; si potrebbe vivere così indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un’altra vita dopo la morte. E’ famosa la battuta del Santo Curato d’Ars a chi gli pose il dubbio sull’altra vita dopo la morte: “Anche se non ci fosse nulla, non mi pentirò mai di aver creduto in un Dio che è Amore”.
I cristiani hanno riscoperto che credere non significa affatto valutare l’aldiquà meno rispetto alla sospirata vita eterna. Essi testimoniano che l’opzione della fede in favore del regno di Dio rende la loro vita più ricca e vera già qui ed ora. Si vive nella fiducia nei confronti delle persone, del mondo, di Dio; si vive seguendo una Parola che ti fa vivere meglio, più umanamente, in un rapporto di solidarietà con gli altri, che ti dà senso, libertà dall’attaccamento alle cose, e ti dà a sperare anche in un compimento trascendente assoluto. 

            Tuttavia si possono fare le seguenti critiche.
            Per alcuni esiste ed è importante la differenza di vita che ci può essere tra chi scommette per Dio e chi no: seguire la religione può essere molto più impegnativo che non seguirla, e quindi a) il guadagno di tutto, se si guadagna, lo si guadagna a caro prezzo, e nessuno può sentirsi obbligato a impegnarsi, sacrificarsi e rischiare in questo modo; in altre parole l’impegno-sacrificio finito se rapportato al possibile guadagno infinito è niente, ma in sé è molto e può essere considerato anche troppo;  e b) non è vero che se si perdesse non si perderebbe nulla: non è la stessa cosa finire nel nulla avendo vissuto prima una vita di sacrifici per seguire la religione con la speranza di raggiungere la felicità eterna piuttosto che finirvi avendo vissuto una vita alla ricerca del massimo godimento con un sacrificio il più possibile calcolato.
Uno può preferire di rischiare e soffrire il meno possibile qui e puntare su piccoli “guadagni” (a scapito della possibilità della felicità eterna) mentre un altro può preferire di puntare sulla possibilità della felicità eterna (a scapito della certezza di sacrificarsi di meno qui e di contare su facili guadagni); cioè uno può concentrarsi di più sul rischio della perdita, un altro sulla possibilità del guadagno. E’ legittimo cioè scegliere “opzioni il più possibile ‘poco ricche di presupposti’, in cui non è necessario nutrire in maniera arrischiata troppa speranza e profondere troppo impegno, in cui è possibile poi consolarsi anche della delusione, qualora dovesse risultare che esse sono vane”.
C’è infatti chi “potrebbe cambiare vita, rispetto alle lusinghe del mondo, solo se si tratta del finito del mondo di fronte al certo eterno, non se può circolare il sospetto che anche la religione sia incertezza[…]. Altrimenti le lusinghe del mondo faranno sempre aggio, poiché questo finito è intanto la certa ‘totalità’ che l’uomo esperisce”(P. Flores d’Arcais); chi dice che “se Dio non si rivela è solo un’ipotesi, e un’ipotesi è troppo poco per fondarci sopra l’unica esistenza che abbiamo”(D.Bernazza). 
            Un’altra critica è che essa, se è logicamente valida, sarebbe valida per ogni diverso Dio di ogni diversa religione. Infatti la scommessa non è limitata all’alternativa Dio del cristianesimo/ateismo, ma sarebbe valida anche per Allah, per il Dio di alcune sette del Buddhismo, o all’interno del cristianesimo stesso, per il Dio di diverse concezioni del cristianesimo.
            Ancora. Pascal assume che ci siano solo due possibilità. O Dio esiste, e ricompensa i credenti con l’eterna beatitudine, mentre punisce gli infedeli con l’eterna condanna, o tutto questo non si dà. Però, dice per es. H. Albert, questa riduzione a due alternative sembra arbitraria. Si può infatti pensare l’ulteriore possibilità che vi sia un Dio, che punisce con la condanna tutte le persone che pensano solo alla loro eterna beatitudine, ma ricompensa altre che non riescono su questa base ad arrivare alla fede cristiana. Oppure si potrebbe pensare ad un Dio a cui non interessi in genere la fede degli uomini , ma solo il loro comportamento morale.
            C’è anche chi ritiene che questo argomento, al di là del suo rigore logico, c’entri poco con l’autentica fede religiosa: non sarebbe degno comportarsi come se Dio esistesse nella speranza che, se esiste, si sarà ricompensati. P. Odifreddi dice: “Ogni Dio che si rispetti dovrebbe infuriarsi di più con un fedele che crede per convenienza, ma senza convinzione, che con un infedele, che non crede per mancanza di convinzione, nonostante la convenienza”. Perché dovremmo sottomettere la nostra ragione all’interesse e soprattutto il nostro spirito a un calcolo di costi/benefici? Sarebbe indegno di noi. “Non sono un giocatore - dice A. Comte-Sponville -  sono uno spirito. Non è il mio interesse che vado ricercando innanzitutto, ma la verità, e nulla mi garantisce che i due procedano nella stessa direzione”. A questa critica si potrebbe rispondere che Pascal riteneva la scommessa una sorta di premessa della fede e non la fede in sé; la persona che avrebbe effettuato questa premessa si sarebbe realmente impegnata nel credere in Dio, e non sarebbe rimasta indefinitivamente nei panni dello scommettitore la cui unica motivazione è il potenziale guadagno.
La scommessa di Pascal comunque sembra restare valida nel suo valore che non è quello di costringere a scommettere su Dio (così che chi non lo facesse sbaglierebbe) ma quello di legittimare tale libera scelta. Infatti per quanto sia più impegnativo vivere scommettendo su Dio piuttosto che non, e per quanto si possa rischiare tutto per niente, resta sempre infinita la distanza tra ciò che si potrebbe guadagnare, che è infinito, rispetto a quello che si sacrifica e si rischia, che è  finito, per cui la convenienza è sempre massima. Quindi dalla scommessa non si conclude che l’uomo (se vuole essere ragionevole) deve scommettere su Dio, ma solo che può farlo.  

Direi che questi argomenti pragmatici o esistenziali hanno una qualche validità: non obbligano certamente a compiere la scelta della fede, ma possono appoggiare in qualche modo una simile scelta. 

BIBLIOGRAFIA 

Abbagnano N., Dio, prove, in Id. Dizionario della filosofia, UTET 1971, pgg 245-249
Albert H., La miseria della teologia, 1979, Borla 1979, pp. 156-164
Gollwitzer H.- Weischedel W., Credere e pensare. Due prospettive a confronto, or.1965, Marietti          1982
Guitton J., L’assurdo e il mistero, 1984, Rusconi 1986
Jordan J., Pragmatic arguments and belief in God, 2009, in Stanford Encyclopedia of Philosophy (internet)
Welte B., Che cosa è credere, 1982, Morcelliana 1983
Werbick J., Riflessione intermedia. Fede e ragione in Id. Essere responsabili della fede. Una     teologia fondamentale, or. 2000, Queriniana 2002, p.229- 276
Timossi R., Decidere di credere. Ragionevolezza della fede, San Paolo 2012, pp. 211-243
Zagzebski L.T., Pensare Dio. Un’introduzione storica alla filosofia della religione, 2007, Edoardo Varini Editore 2012, pp. 73-100

domenica 26 aprile 2015

25. MODELLI SUPPLEMENTARI DI GIUSTIFICAZIONE DELLA FEDE RELIGIOSA: K. Rahner e H. Urs Von Balthasar


        Via metafisico-trascendentale (K. Rahner)

Nella filosofia trascendentale si trova la presentazione delle condizioni che rendono possibile la conoscenza. Per Kant la conoscenza non si spiega solo in base a conoscenze empiriche, ma in base all’apriorità che individua i fondamenti della conoscenza indipendentemente dall’esperienza. La prima implica il contenuto informativo, la seconda la validità generale e necessaria della conoscenza. Pertanto Kant chiama trascendentale “ogni conoscenza che si occupa, non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto è possibile a priori”.
Il teologo cattolico K. Rahner (1904-1984), servendosi del metodo trascendentale, si interroga sulle condizioni di possibilità presenti nel soggetto umano in vista della comprensione  e dell’eventuale accettazione della proposta della fede cristiana. Rahner ricerca, in altre parole, le strutture antropologiche che rendono possibile all’uomo di accogliere un’eventuale rivelazione divina come massimamente significativa in quanto determinazione storica assoluta (categoriale) della sua esperienza trascendentale. Secondo Rahner l’uomo è l’essere dell’assoluta trascendenza e il cristianesimo ne è la sua suprema determinazione categoriale.
L’uomo, dice Rahner, nella sua opera “Uditori della parola” (or.1941) è spirito: “l’essenza dell’uomo […] è l’assoluta apertura ad ogni essere, ovvero, in una parola, l’uomo è spirito. Questa apertura viene definita da Rahner anche come trascendenza dello spirito umano, ossia come il suo trascendere l’ente in direzione dell’essere. Egli sottolinea innanzitutto “l’autonomia cosciente” dell’uomo, ossia il fatto che l’uomo può distaccarsi dagli oggetti del suo conoscere e rapportarsi a sé. Questa autonomia cosciente si rivela in ogni avvenimento umano, in particolare nel “giudizio”, nell’azione, nella quale essa si manifesta come libertà, e nel pensiero. Ma qual è il fondamento ultimo di questa autonomia cosciente? Egli parte dal “giudizio” e quindi dalla “percezione del singolo oggetto sotto il concetto”; egli si chiede su che cosa si fondi la sua possibilità, ossia “quale condizione sia necessario stabilire a priori e in partenza nel soggetto conoscente perché egli possa avere le singole conoscenze”. Posto così il problema del giudizio, appare chiaro a Rahner che il singolo oggetto viene percepito in una “limitatezza”; è questo e non un altro; è limitato in direzione dell’altro. Ma si può comprendere un limite solo per il fatto di essere già al di là del limite. È necessario affermare “che l’atto che percepisce il singolo oggetto sensibile, coglie già in precedenza qualcosa che lo trascende in quanto tale”. Rahner chiama ciò “percezione previa”; essa fa parte “della  costituzione fondamentale dell’esistenza umana”.
Ma in che direzione va lo sforzo di cogliere proprio di questa “percezione previa”? e che cos’è questo “qualcosa che trascende” a cui essa si indirizza? Rahner risponde che essa si dirige “all’essere in sé nella sua illimitatezza”, o “essere in generale”, “essere in quanto tale”, “puro essere”, “essere assoluto”. E Rahner, pur con qualche cautela, alla fine equipara l’essere assoluto a Dio e sostiene che “con la necessità con cui è posta la percezione previa, è affermato anche Dio come essere assoluto” e che “la percezione previa giunge fino a Dio”. Dunque in ogni pensiero umano è già contenuto secondo Rahner un riconoscimento di Dio. Per mezzo dell’antropologia metafisica si dimostrrebbe pertanto che l’uomo esiste sub specie Dei, in quanto “egli si muove stabilmente in una vastità che può essere colmata solo dalla pienezza dell’essere assoluto di Dio”. “L’uomo, in quanto spirito, è sempre orientato, a motivo della sua natura, all’essere assoluto di Dio; egli tende a Dio”. “Egli è uomo solo perché è sempre in cammino verso Dio”.
Ma Rahner non si ferma alla fondazione dell’esistenza di Dio, ma vuole anche “dimostrare la possibilità di una rivelazione all’uomo”, che egli intende come “una libera apertura di Dio, essere personale e libero”. E se Dio è libero egli ha la possibilità di nascondersi come di rivelarsi. Da questo punto di vista Rahner definisce l’uomo “colui che sta in ascolto di una possibile rivelazione di Dio”. Ma rimane da determinare “il punto preciso in cui l’atto libero e possibile della rivelazione divina può incontrare l’uomo, perché questi lo possa riconoscere liberamente”. Poiché l’uomo non può trovare nella propria essenza il contenuto di una rivelazione divina finchè non parteciperà della visione immediata di Dio, non gli resta che conoscerla attraverso la parola,e quindi l’uomo non ha altra risorsa che quella “di essere un uditore della parola di Dio”. Ed essendo l’essenza dell’uomo, secondo Rahner, definita mediante la storicità, ne conseguirebbe che “il luogo di una possibile rivelazione è sempre e necessariamente la storia dell’uomo”. Egli vuole ora dedurre dalla storicità dell’esistenza umana la necessità del volgersi dell’uomo alla storia. Questo passaggio si realizza riguardo al concetto di fenomeno. infatti “l’essere in generale è aperto all’uomo solo nel fenomeno”; esso deve “manifestarsi nel fenomeno”. Ma un essere sopramondano può essere conosciuto nella sua concretezza attraverso il fenomeno? Non secondo le modalità proprie di un fenomeno immediato ma, secondo Rahner, tramite un modo per cosi dire indiretto di manifestarsi, ossia “mediante la negazione” ossia, “mediante la negazione del limite della potenza dell’essere determinato, immediatamente accessibile, e mediante l’abolizione di questo limite verso l’alto in direzione del puro essere”, solo in questo modo l’uomo potrebbe “cogliere un ente determinato trascendente il mondo”. Rahner afferma inoltre che “una negazione, in quanto tale, ha la sua unica, possibile sede nella parola” e quindi “un ente trascendente il mondo” può “essere dato allo spirito finito attraverso la parola”. A questo punto, considerando l’essenza dell’uomo come essere storico, “la rivelazione libera può giungere soltanto in una forma ben puntualizzata nell’ambito della singola esistenza umana”. Ma l’uomo deve “tener conto della possibilità che tale rivelazione non si verifichi in modo puntuale nella singola storia di ogni uomo, ma solo in quella di determinati uomini”. Così essa “dev’essere attesa come un evento fissato nello spazio e nel tempo di tutto il complesso della storia umana”. A partire da ciò rahner definisce il compito dell’uomo. Egli afferma che questi è “ in generale tenuto a priori, in forza della sua essenza, a consultare di fatto la storia circa una rivelazione eventualmente avvenuta”. 

Le critiche che sono state fatte a Rahner  (soprattutto da W. Weischedel) sono numerose e circostanziate; noi annoteremo solo le più generali e importanti.
Innanzitutto esaminiamo la parte relativa alla fondazione dell’esistenza di Dio.
Weischedel osserva che, il fatto che Rahner, a partire dall’essere infinito quale orizzonte della percezione previa, finisca con l’ammettere Dio come realtà è altamente problematico. Per due motivi. Primo. Si deve concedere che la percezione previa, che è incontestabilmente una condizione che rende possibile la conoscenza finita, non si ponga da sé alcun limite, e che quindi essa, considerata al suo tendere, si spinge sino all’infinito. Ma che questo infinito, a cui essa tende, esista anche di fatto come realtà particolare è altamente problematico e non risulta chiaro perlomeno a partire dal fenomeno della concezione previa.
Secondo, l’essere infinito quale orizzonte entro cui viene percepito ogni essere finito, potrebbe al massimo essere la totalità del mondo pensabile come infinita (e come detto solo come a ciò a cui si tende e non come afferrabile nella sua realtà). Volendo introdurre Dio quindi Rahner dovrebbe per essere coerente identificarlo con la totalità, a cui si tende, nel mondo. Come ammette anche C. Greco “ l’infinito intenzionato nella coscienza rimane ambiguo: può essere interpretato come fondamento panteistico della realtà, o come espressione della suprema assurdità dell’esistenza, o infine in senso teistico. Ognuna di queste interpretazioni suppone un’ opzione”. Anche per questa via non è pertanto possibile giungere ad una conoscenza sicura di Dio.
Per quanto concerne la dimostrazione della possibilità di una rivelazione all’uomo, Rahner, secondo Weischedel, si avvale di una serie di presupposti indimostrati filosoficamente o problematici nella loro giustificazione: le attribuzioni a Dio di libertà e personalità; Dio inteso come colui che rivela, e l’uomo inteso come l’essere sospeso ad una rivelazione; o riguardo il manifestarsi di un essere sopramondano mediante la negazione: negando ogni finitezza, si può senz’altro pervenire alla nozione di un essere infinito, ma solo nel concetto, non nella realtà: in tal modo non viene ancora dimostrato che questo ente pensato come infinito esiste anche realemnte e si manifesta nel fenomeno e nella parola. 
La necessità, affermata da Rahner, di stare in ascolto di una rivelazione eventualmente avvenuta nella storia non deriva tuttavia , come egli ritiene, dalla necessità di volgersi alla storia in generale. Il fatto che l’uomo si comprenda sempre a partire dalla sua storia non rientra tra gli elementi costitutivi, giustificabili filosoficamente, dell’esistenza umana. Con questa nozione, per contro, non è stato ancora detto nulla circa la necessità di volgersi all’incontro con una possibile rivelazione. 

2. Via estetica (H. Urs Von Balthasar)

Secondo il teologo cattolico H. Urs Von Balthasar (1905-1988) allo scopo di rendere credibile il messaggio cristiano agli uomini sono state seguite finora due vie principali: la via cosmologica e quella antropologica, ma entrambe sono riduzionismi: di fronte alla impraticabilità odierna della prima (critiche alla metafisica) e i gravi rischi a cui è esposta la seconda (proiezione) egli propone una terza via chiamata “estetica”.
Il progetto di una “estetica teologica” sgorga dalla persuasione secondo cui il modo di darsi di Dio nella rivelazione ha gli stessi caratteri del modo di darsi della bellezza (autoevidenza, disinteresse, gratuità, ecc.). Infatti analogamente al bello, il quale porta con sé un’evidenza che brilla e s’impone immediatamente, Cristo possiede in sé un’evidenza intrinseca paragonabile alle opere d’arte e ai principi matematici. Inoltre, analogamente alla bellezza che è senza scopo e senza interesse, la rivelazione di Dio in Cristo avviene all’insegna di un atto libero e disinteressato che non ha altri fini all’infuori di sé.
Dio può essere riconosciuto unicamente dalla sua “gloria”, cioè “Dio viene primariamente non come maestro per noi (“vero”), non come redentore con tanti scopi per noi (“buono”), ma per mostrare e irradiare se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella “assenza di interesse” che il vero amore ha in comune con la bellezza. Alla gloria di Dio è stato creato il mondo con la sua propria gloria  e alla gloria di Dio sarà anche salvato. E solo chi, colpito da un raggio di questa gloria, avrà un sentimento incoativo per ciò che è l’amore che non ha scopo, potrà giungere ad avvertire la presenza dell’amore divino di Gesù Cristo”.
Appurato che l’incontro con Dio possiede le stesse note dell’incontro con la bellezza, la conoscenza umana della rivelazione assumerà anch’essa la fisionomia di una percezione della ‘figura ‘ o ‘forma’”. Il bello, scrive Balthasar, parlando della bellezza in generale, “è in primo luogo una forma e la luce non cade su questa forma dall’alto o dall’esterno, ma irrompe dal suo intimo.[…] La forma visibile non ‘rinvia’ soltanto ad un mistero invisibile della profondità, ma ne è l’apparizione, lo rivela proprio mentre nello stesso tempo lo nasconde e lo vela. […] Il contenuto non giace dietro la forma ma in essa. Chi non riesce a vedere e a leggere la forma, non può cogliere nemmeno il contenuto. A colui al quale la forma non dà luce, rimarrà invisible anche la luce del contenuto”. Nell’ambito proprio della rivelazione la Forma-figura per eccellenza è rappresentata da Cristo, apparizione splendente, anche se velata nella carne, del Mistero trinitario”. Nella figura di Cristo si ha infatti l’apparizione definitiva dell’Essere nell’esistente, ossia il vertice e il fine dell’automanifestazione gloriosa di Dio nel mondo. La croce è il vertice dell’autorivelazione divina: qui, nella figura del servo, irrompe nel mondo la gloria del Figlio e l’amore divino raggiunge in tal modo il suo punto estremo. Il centro della rivelazione della gloria di Dio è quindi il mistero della Pasqua.
Da queste considerazioni scaturisce anche una precisa visione dell’uomo: egli è colui che accoglie la figura della gloria divina, se ne lascia rapire, diventando esistenza riconoscente che rende grazie. Di fronte alla comunicazione della gloria divina, alla sua bellezza e alla profondità che in essa brilla, l’uomo è chiamato innanzitutto a percepire con tutte la sue facoltà, a vedere la gloria divina nella figura di Cristo. In seguito l’uomo è chiamato al rapimento, inteso come movimento di tutto l’essere dell’uomo che esce da se stesso per buttarsi in Dio.
Il processo che porta alla fede implica precisamente che si percepisca la forma di Cristo e se ne resti soggiogati. A partire da questa sua concezione, Balthasar giunge a parlare di una “evidenza oggettiva della forma della rivelazione”, per cui “la luce ha origine dall’oggetto che si rivela al soggetto e lo attira al di là di se stesso…nella sfera dell’oggetto”. Ribadisce più volte che la figura dev’essere compresa mediante se stessa, come autointerpretantesi, con l’esclusione di ragioni esterne. Se infatti Dio decide di rivelarsi la sua rivelazione storica non può non portare i tratti di una singolarità assoluta, divina. Essa dovrà possedere una sua speciale evidenza per cui si potrà dire che Dio è riconoscibile solo attraverso Dio stesso. L’autoevidenza dell’amore che appare nella figura cristologica che lo esprime è quindi il presupposto fondamentale in Balthasar. Egli cosi descrive il concetto di “evidenza oggettiva “ attribuito alla forma della rivelazione: “si tratta di una evidenza che emana e si impone a partire dal fenomeno stesso e che non viene stabilita a motivo del bisogno di soddisfacimento del soggetto. La forma che ci incontra storicamente è convincente in se stessa perché la luce, mediante cui essa brilla, emana da se stessa e si dimostra in modo evidente come tale, in quanto luce che emana dalla cosa”. Alla rivelazione così intesa corrisponde dal punto di vista antropologico, la struttura originaria dell’uomo come “stupore”, come “estasi” in cui lo spirito umano si apre ricettivamente all’essere nella meraviglia in lui suscitata da ogni singolo esistente.
Balthasar ha voluto mettere in chiaro come l’estetica rappresenti l’unica via possibile per chi intenda accostarsi a qualcosa (Dio e la rivelazione) che non è costruito dalla sua mente e dalle sue mani, ma che gli è offerto dall’alto nello splendore di un’automanifestazione evidente – di fronte alla quale l’unico atteggiamento legittimo è l’accettazione consenziente della fede: “Questo lasciar valere ciò che vale si chiama fede”.
In sintesi, la natura “estetica” della rivelazione, intesa alla maniera di Balthasar, consiste nel fatto che in essa Dio si autoesibisce nello splendore evidente della sua gloria, manifestando tramite Cristo il suo amore disinteressato per il mondo e suscitando, da parte dell’uomo, un atteggiamento di amore consenziente. 

Tuttavia anche questo “modello” di giustificazione della fede presenta dei limiti.
Che l’amore disinteressato di Gesù affascini, seduca e incanti non c’è motivo di metterlo in dubbio. Si può condividere quanto scrive E. Bianchi: “Il Cristo che muore sulla croce, che abita il luogo della disperazione, dell’abbandono umano e di Dio, dell’annichilimento della dignità dell’uomo e che vive questo con amore e perdonando i suoi aguzzini mi rivela qualcosa che forse non mi convince razionalmente, ma certamente mi vince. E ancor più mi avvince. Opporre il bene al male, perdonare fino a settanta volte sette, compiere gesti unilaterali di carità, di perdono, senza pretendere alcun contraccambio, chinarsi di fronte al nemico personale per servirlo con amore, tutto questo è certamente follia e scandalo ma è anche la diretta rivelazione della sapienza e della potenza di Dio, ed è rivelazione di possibilità radicali dell’uomo.[…] La verità della fede la si misura sulla verità e sulla bellezza della vita che suscita. La narrazione del volto di Dio è delegata ai credenti, chiamati a null’altro se non alla santità, a essere un riflesso della vita di Cristo. Una vita che è stata anche bella, buona e felice, e che ha trovato, e così l’ha anche indicato, il suo senso radicale nella donazione di sé, nella pro-esistenza, nell’amore che ha il suo canone nella dedizione fino alla croce”.
Anche se è peraltro vero che questo dono di sé è paradossale, non immediatamente naturale, tutt’altro che ovvio. Infatti prodigarsi per il bene, e per il bene degli altri, significa anche spesso un danno nei nostri confronti ed esige sacrifici dolorosi che forse, come atteggiamento di vita,  potrebbe non essere condiviso da chi assume una visione naturalistica della vita, in cui viene concepito l’uomo come nato dal caso e dalla necessità, straniero nell’universo, senza un senso assoluto dell’esistenza ma col solo senso eventuale che ognuno vuole assegnargli, senza un fine oltre la morte biologica, che potrebbe stabilire che il significato relativo della vita stia nella ricerca del piacere, o nella lotta per l’esistenza in cui uno può far di tutto per vincere anche senza riguardo dell’altro, a meno che non sia suo amico.
Detto questo, rimane comunque plausibile che la vita nella sua essenza sia relazione, e quindi amore, perché l’amore lega. Quindi quello che noi tutti cerchiamo e desideriamo è di amare ed essere amati. E questo è quello che ha insegnato e soprattutto testimoniato Gesù.
Ma qui sorgono delle domande. Non è quello che hanno insegnato e vissuto anche tanti altri uomini e fondatori di religioni? Come e perché l’amore vissuto da Gesù qualificherebbe la sua identità come divina piuttosto che come semplicemente umana? Tra l’altro i limiti della ricerca storica non consentono nemmeno di renderci certi che la figura di Gesù descritta nei vangeli sia realmente la figura reale di Gesù. Ma non è questo fondamentale, quanto il fatto che si può venire colpiti dallo splendore di Cristo anche senza considerarlo Dio, ma semplicemente una notevole figura d’uomo, che ha vissuto in modo radicale l’essenza dell’uomo come essere amante.
Balthasar parla di rapimento davanti alla figura o “forma” di Gesù. Ma chi si concentra sulla figura deve pure essere in grado di giustificare il suo rapimento, e non è affatto libero dalla responsabilità di accertare che questo suo stato esistenziale sia adeguato di fronte all’oggetto specifico, né dal provare perché lo sia. Altrimenti tale percezione rimane solo qualcosa di soggettivo, che non può convincere tutti.

BIBLIOGRAFIA

Abbagnano N.- Fornero G. (a cura di), Storia della filosofia. La filosofia contemporanea, pgg, 257-     279 (K. Rahner) e 754-773 (H. U. Von Balthasar)
Greco C., Modelli teologici di mediazione della verità della rivelazione, in Id. La rivelazione.    Fenomenologia, dottrina, credibilità, 2000 San Paolo, p. 319-353
Rahner K., Corso fondamentale sulla fede, or. 1976, Edizioni Paoline 1984
Von Balthasar H.U., Solo l’amore è credibile, 1963, Borla 1985
Weischedel W., Il Dio dei filosofi, vol. 3°, or. 1971, Il nuovo Melangolo, 1994