Al termine di questo percorso di
confronto e valutazione delle risposte che si sono date alle eterne domande
dell’uomo - e cioè, in termini semplificati, se esista un Dio e che cosa o chi
sia, se si sia rivelato all’uomo e se ci salverà dalla morte definitiva -
intendo descrivere brevemente e schematicamente i possibili atteggiamenti
dell’uomo nei confronti della prospettiva religiosa della vita, che tipicamente
confluiscono nella forma di vita del credente in Dio, dell’ateo e
dell’agnostico.
In questa descrizione si deve tener
conto sia di quello che sappiamo
riguardo la vita e la religione, cioè il problema della conoscenza della
verità, detto aspetto gnoseologico,
sia di quello che desideriamo, cioè
il problema del senso della vita o della realizzazione significativa dell’uomo,
detto aspetto esistenziale.
Sono due aspetti fondamentali
dell’uomo, coesistenti, che però, per quanto possibile, devono essere valutati
separatamente.
Accennerò poi a quelli che sono
considerati le possibilità e i limiti delle posizioni del credente, dell’agnostico
e dell’ateo.
È fondamentale infine tener presente
che ognuna di queste tre posizioni è sostenuta, con argomenti ritenuti
significativi da chi li tematizza e/o li condivide, da autorevoli teologi,
filosofi o scienziati.
Devo fare due precisazioni
importanti. La prima: ovviamente non pretendo di descrivere il pensiero ed il
vissuto di ogni credente o agnostico o ateo che sia, perché ognuno ha il
proprio modo di pensare - nei contenuti e nella giustificabilità - e di vivere
la propria fede o la propria incredulità. Mi limito a dire qualcosa in cui qualcuno
si possa parzialmente rispecchiare.
La seconda: di seguito, per credente intendo, per semplificare, il
teista, anzi precisamente il monoteista, e il monoteista cristiano (tipicamente
inteso) - ma non si deve dimenticare che il credente può essere anche solo il
deista - e quando parlo di religione,
mi riferirò soprattutto al cristianesimo (ma anche qui ci sono tanti modi di
concepirlo), ma con la consapevolezza che è solo una delle tante religioni
esistenti, ancorché la più universale - per non parlare dei diversi modi in cui
si può abbracciare una dimensione “spirituale” della vita.
Credente
Il credente in Dio è colui che crede nell’esistenza di una
“ulteriorità” rispetto alla sola forma visibile del mondo, che chiama “Dio”, e
che pensa come origine e senso ultimo del tutto e della sua propria vita.
Più concretamente, il teista crede che l’uomo sia stato voluto e “creato”
da un Dio, che questo Dio si sia rivelato agli uomini tramite un mediatore (se
consideriamo solo i tre monoteismi: patriarchi, Mosè e profeti per l’ebraismo;
Gesù, tradizionalmente inteso come “uomo e Dio” per il cristianesimo; e
Maometto per l’Islam) e che il suo destino oltre la morte sarà quello della comunione
eterna con Dio.
Aspetto
gnoseologico
In
genere i credenti (cristiani) ritengono che sia più plausibile razionalmente
l’esistenza di Dio e la verità della rivelazione (cristiana); in altri termini
ritengono di avere dei buoni motivi
per credere, o che sia più ragionevole
credere piuttosto che non credere (non ritengono di poter dimostrare la propria
fede).
Al credente la “religione” sembra
essere credibile - e quindi la speranza ad essa collegata fondata – soprattutto considerando questi
argomenti (tra quelli più classici): l’idea di Dio presente nell’uomo
(argomento ontologico); l’esistenza, l’ordine e la complessità dell’universo e
della vita consapevole dell’uomo (argomenti cosmologico e teleologico); le
numerose e attendibili “esperienze religiose” di tanti uomini di diverse
culture; i sorprendenti eventi miracolosi documentati, passati e presenti;
l’esigenza di Dio per fondare o giustificare pienamente la morale; l’esigenza
di un significato assoluto della vita
presente in tanti uomini; il bisogno di dare senso e riscattare il troppo
dolore presente nel mondo; la presenza universale della “religione” tra gli
uomini; la plausibilità storica della rivelazione cristiana.
Si può riassumere la posizione del
credente con l’espressione: “non sono sicuro che Dio esista e che il
cristianesimo sia vero, ma lo ritengo plausibile”.
Aspetto
esistenziale
Il credente - oltre alla sua convinzione teoretica della plausibilità
della prospettiva teistica della vita - è colui che cerca una dimensione
“verticale” della vita, un più ampio contesto significativo della sua
esistenza. È mosso dalla sua passione per l’infinito. Non vuole soffocare la
sua aspirazione ad una felicità e pienezza definitive. È colui che spera
giungano a compimento quei “momenti” di senso e felicità che costruisce e
sperimenta già nella sua vita, perseguendo decisamente valori impegnativi come
la giustizia, la solidarietà, la compassione, riassumibili nell’amore per Dio
(culto) e per gli altri (donazione e servizio). Confida anche che non abbiano
l’ultima parola l’ingiustizia, l’odio, il dolore, e soprattutto, la morte.
Insomma, il credente spera in un senso ultimo positivo del tutto, che
naturalmente, visti i limiti della vita umana, può eventualmente darsi solo in
una dimensione trascendente.
In
questa scelta il credente seguirà la logica
dell’investimento, del rischio, non accontentandosi del finito, di ciò che
ha qui ed ora, del limitato della “vita terrena” per impegnarsi nella ricerca
di una “vita spirituale” che sola potrebbe realizzarlo pienamente. Il teista
pensa/spera che Dio esista e si abbandona a questa sua convinzione/speranza,
perché pensa che sia realistica e che sola possa realizzarlo in pienezza.
Possibilità e limiti
Questa scelta è possibile e legittima perché
la realtà è aperta a questa possibilità - la religione è inconfutabile e
l’ateismo è indimostrabile - e quindi l’uomo che non si accontenta del finito
può impegnarsi in questa sua vita finita seguendo la religione nella speranza
di raggiungere l’infinito, di realizzarsi in modo assoluto in futuro
(escatologico). (Tra parentesi: è anche possibile e legittimo che una persona
che dal punto di vista gnoseologico ritenga la religione improbabile, dal punto
di vista esistenziale segua la religione, perché potrebbe avere estremo bisogno
di sperare in un Dio per dare senso alla sua vita, nonostante l’elevato rischio
che non sia vera).
Tuttavia presenta anche dei limiti: sottolineo solo la questione del
rischio: il credente impegna tutto
quel che ha e che è qui - che è l’unica cosa sicura - per una inverificabile
realizzazione assoluta nell’aldilà, sacrifica ad un assoluto incerto le proprie
energie vitali, pur sapendo che potrebbe anche non trovare nulla e quindi
sprecare anche quel poco che ha: forse non si tratterà di dare via
completamente la propria vita, tuttavia non potrà impegnarsi del tutto per
godere e plasmare quel che la vita qui potrebbe donargli. La vita che si vive
qui è troppo preziosa per rischiarla per un’ipotetica realizzazione
nell’aldilà, e poi, ancorchè relativa, può essere vissuta nell’impegno e nella
pienezza, senza essere considerata vana solo perché non è assoluta.
Ateo
L’ateo, al contrario, è colui che crede non esista questa
“ulteriorità” trascendente e che il tutto coincida e si esaurisca con/in questa
dimensione nient’altro che immanente.
Più concretamente l’ateo è la persona che crede che Dio non esista, che l’uomo sia
solo il prodotto accidentale della natura, che tutte le religioni siano
infondate, cioè costruzioni umane, e che non ci sarà alcun’altra vita oltre la
morte.
Aspetto
gnoseologico
In genere gli atei ritengono più plausibili razionalmente l’inesistenza
di Dio e l’infondatezza delle religioni
rivelate; in altri termini ritengono di avere dei buoni motivi per non credere, o che sia più ragionevole
non credere piuttosto che credere (in genere non ritengono di poter dimostrare
l’inesistenza di Dio).
All’ateo la religione sembra non essere credibile - e
quindi la speranza ad essa collegata infondata - soprattutto considerando:
l’impossibilità di dedurre un Dio reale dalla sola idea di Dio presente
nell’uomo; la probabile costituzione nient’altro che naturalistica
dell’universo e dell’uomo; l’improbabilità delle esperienze religiose e dei
miracoli come rivelatori della presenza e l’azione di un Essere trascendente;
che Dio è facoltativo per fondare o giustificare la morale; i sospetti, e
probabilmente illusori, desideri ed esigenze dell’uomo di realizzarsi al di là
delle possibilità che gli sono proprie in questa vita; l’eccesso del
male/dolore dell’uomo e il corrispettivo
silenzio di Dio riguardo il suo possibile senso e riscatto in una presunta
dimensione trascendente; la pluralità delle religioni rivelate suggerente la
loro origine umana piuttosto che divina; la verosimiglianza dell’identità
nient’altro che umana del “fondatore” del cristianesimo, Gesù di Nazareth. Si può riassumere la
posizione dell’ateo con l’espressione: “non sono sicuro che Dio non esista e
che il cristianesimo non sia vero, ma lo ritengo plausibile”.
Aspetto
esistenziale
L’ateo – oltre alla sua convinzione teoretica della plausibilità
della prospettiva ateistica della vita – è colui cui basta la dimensione
“orizzontale” della vita, che si concentra su quello che può fare dentro la sua
esistenza. È mosso dalla sua passione per il finito. Perseguirà un’etica per l’io, per il suo solo
interesse e successo personale, impegnandosi del tutto per godere e plasmare
quel che la vita qui può donargli, o anche un’etica per il tu, per la solidarietà, implicante anche il sacrificio
per l’altro. Si accontenta della sua dimensione finita, con tutti i suoi
aspetti crudeli e stupendi; si prende tutta la responsabilità di dare un senso
alla sua vita dando senso alle piccole cose; “non crede che per vivere
pienamente sia necessario durare eternamente, né che la felicità, l’amore o il
pensiero perdano valore perché finiscono”.
In questa scelta l’ateo seguirà la logica della moderazione,
accontentandosi del finito, di ciò che ha qui ed ora, impegnandosi a ricavare
il massimo e a godere di tutto quanto gli è possibile qui ed ora, o anche
aiutando gli altri, ma comunque non sprecando tempo ed energie alla ricerca di
una eventuale realizzazione assoluta ma incerta. L’ateo non spera in Dio,
perché pensa che sia una speranza illusoria ed eventualmente perché pensa che
possa realizzarsi anche senza Dio.
Possibilità
e limiti
Questa scelta è possibile e legittima
perché la realtà è aperta a questa possibilità – la religione è indimostrabile
e l’ateismo è inconfutabile - e quindi non si è obbligati a seguire la
religione impegnandosi per essa col rischio che sia tutto vano, illusorio,
ovvero che non si raggiunga la realizzazione ultramondana sperata. (Tra
parentesi: è anche possibile e legittimo che una persona che dal punto di vista
gnoseologico ritiene la religione probabile, dal punto di vista esistenziale
abbracci l’ateismo, perché per seguire la religione potrebbe pretendere la
certezza sulla sua verità, e non la sola probabilità, per non rischiare nulla
nel seguirla).
Tuttavia presenta anche dei limiti: sottolineo solo la questione di
quanto sia relativa la realizzazione
solamente intramondana dell’uomo: questa vita, da sola, è limitata ad
un’avventura a momenti piacevole ed altri spiacevole, destinata a finire nel
nulla tra qualche decina di anni. Se si tiene conto del desiderio di molti di
realizzarsi in qualcosa di più grande, di assoluto, di definitivo, allora
diventa accettabile affrontare un cammino fatto di profondi e importanti valori
umani, che rendono la vita più piena già qui, cammino impegnativo ed incerto,
ma aperto ad una possibilità di infinità di vita, di gioia, di amore, che dice
che vale la pena rischiare. E’ sicuramente più importante quello che si
potrebbe trovare se la religione fosse vera - infinito - che quello che si
potrebbe perdere se la religione fosse falsa - finito.
Agnostico
L’agnostico è colui che non sa se
credere o meno ad una “ulteriorità” che trascende il mondo fisico, chiamata
“Dio”. Più concretamente è la persona che crede
di non poter credere né che Dio esista né che non esista, né che qualche
religione sia vera né che sia infondata, né che dopo la morte ci sia la vita
eterna né che non ci sia nulla.
Aspetto
gnoseologico
Per gli agnostici non sembra
possibile determinare se la “religione” sia credibile o non credibile, ovvero
sembra loro risultare indecidibile la
questione sulla sua verità - e quindi la speranza
ad essa collegata semplicemente possibile
– soprattutto considerando: l’incertezza se l’idea di Dio presente
nell’uomo, e l’esistenza, ordine e complessità dell’universo siano indicatori
attendibili della reale esistenza di Dio; l’ambiguità delle esperienze
religiose e dei miracoli verificatesi; il dubbio se l’esigenza di un
significato assoluto della vita e il bisogno di riscattare il dolore del mondo
saranno soddisfatti; l’incertezza se la presenza universale della “religione”
tra gli uomini sia prova della verità della “religione” stessa;
l’indeterminabilità della verità della rivelazione cristiana.
Si può riassumere la posizione
dell’agnostico con l’espressione: “non so se Dio esista o non esista, né se la
religione sia vera o no, perciò mi astengo dal prendere posizione”.
Aspetto
esistenziale
A questa posizione teoretica
dell’agnosticismo, possono seguire tre
posizioni esistenziali diverse tra loro: la prima, quella propriamente
agnostica; la seconda, aperta alla fede (tendente alla credenza); la terza,
chiusa alla fede (tendente all’incredulità).
Nella prima, che idealmente si mantiene ad uguale distanza dal credere e
dal non credere, la persona seguirà una via intermedia, tenendo conto che la
“religione” può essere vera - e
quindi parzialmente si impegnerà per seguirla sperando nella sua promessa di
una realizzazione ultramondana - ma che può anche essere falsa – e quindi si impegnerà anche per una realizzazione
intramondana, qui ed ora. Si tratterebbe, per così dire, di vivere impegnandosi
sulla e per la “terra”, e insieme di impegnarsi e di investire anche nel
“cielo”. In altri termini, sarebbe un investimento moderato nella “religione”.
Possibilità
e limiti
Questa scelta è possibile e legittima perché rispecchia l’incertezza della nostra conoscenza sugli
argomenti religiosi – dove non sembra possibile stabilire oggettivamente se sia più plausibile l’esistenza o non esistenza di
Dio, se si sia rivelato oppure no, se ci salverà dalla morte oppure no - e non
fa assumere atteggiamenti unilaterali come se si sapesse se la religione fosse
vera o falsa, quando invece in realtà il nostro sapere al riguardo rimane,
appunto, indeterminato.
Tuttavia
presenta dei limiti: se può sembrare
l’atteggiamento più adeguato rispetto ai dati che abbiamo da un punto di vista teoretico, potrebbe essere difficile da
mantenere coerentemente in pratica. Si potrebbe facilmente scivolare in una
della due posizioni più definite, abbracciando o non abbracciando la
“religione”, poiché potrebbe essere problematico determinare cosa concretamente
significhi mantenere una posizione intermedia nelle scelte quotidiane tra
valori conflittuali.
Nella seconda posizione esistenziale, aperta nei confronti della fede
religiosa, la persona, nonostante sia consapevole della incapacità della
ragione di appoggiare la propria fede, spera o confida che Dio esista. Qui la
persona si confonde praticamente con il credente
descritto sopra, anche se teoreticamente è meno “convinto” della sua
credenza in Dio. È il suo bisogno di
credere in Dio, è la sua passione per l’infinito, che determinano la sua forma
di vita di credente, piuttosto che le sua dimensione intellettuale.
Nella terza, chiusa alla fede, la persona, nonostante sia consapevole
dell’incapacità della ragione di sostenere la propria incredulità, spera (o è
comunque convinta) che Dio non esista. Qui la persona si confonde praticamente
con l’ateo descritto sopra, anche se
teoreticamente è meno “convinto” della sua incredulità. È il suo bisogno di non credere in Dio, è la sua
passione per il finito, che determinano la sua forma di vita di non credente,
piuttosto che le sua dimensione intellettuale.
Considerazioni
finali
Da quanto emerso si possono trarre
queste considerazioni. Nessuno può dire di essere in possesso della verità
assoluta sull’uomo e sul “problema di Dio” (che possa “insegnare” agli altri).
Non ci sono prove empiriche o dimostrazioni logiche a sostegno o contro la
“religiosità”. Non ci sono evidenze di nessun genere.
Il dibattito filosofico, scientifico
e storico intorno alla “questione di Dio” e della “religione” è ancor oggi
acceso e sconfinato (dopo secoli di discussioni), gli argomenti pro e contro in
perenne conflitto, e le domande aperte molto più numerose delle possibili
risposte raggiunte. Pertanto, non c’è dubbio che religiosità e ateismo siano
entrambi indimostrabili e inconfutabili. Piuttosto, le opinioni divergono in
merito alla plausibilità o meno, che ognuno assegna all’una o all’altra visione
del mondo. Da qui l’esistenza dei credenti, degli atei e degli agnostici.
Di conseguenza, visto che altri
uomini come noi - colti, intelligenti e in buona fede come pretendiamo di
essere noi - la pensano diversamente o addirittura all’opposto di noi, dovremmo
persuaderci che, malgrado le nostre convinzioni, potremmo alla fine sbagliarci.
Dobbiamo essere ben consapevoli che, qualunque sia la nostra posizione - del
credente, dell’agnostico o dell’ateo – altre due posizioni diverse dalla nostra
sono certamente possibili e sostenute da persone dignitose quanto noi. Noi
certo non le riteniamo ragionevoli come la nostra, ma quantomeno non dovremmo
ritenerle impossibili. Gli altri hanno altre ragioni, le loro ragioni, vedono
sotto altri punti di vista lo stesso problema, danno peso ad aspetti che noi
riteniamo secondari o superabili; ma è ben difficile che le loro ragioni ci
siano completamente estranee o incomprensibili.
È quindi probabilmente vero, per
stessa ammissione di alcuni rappresentanti autorevoli del pensiero credente e
non credente, che ogni uomo che riflette consapevolmente su questi temi, porta
dentro sé entrambe le posizioni, religiose e non religiose, sopradescritte.
Ognuno vivrebbe, in diversa misura e in diversi momenti della sua vita, la
fede, il dubbio e l’incredulità.
Questo perché credere non è
possesso, o garanzia o sicurezza umane, bensì abbandono e rischio. Perché anche
il credente sa che, dopo tutto, “forse è proprio vero che Dio non esiste”.
E, d’altra parte, anche
l’incredulità non si appoggia su una
certezza assoluta. Perché anche il non credente sa che, dopo tutto, “forse è
proprio vero che Dio esiste”.
Per tutti sarebbero presenti, poco o
tanto, la lotta e la ricerca: la lotta del credente contro il dubbio e
l’incredulità, e la lotta del non credente contro il dubbio e la credenza; la
ricerca di entrambi per amore della verità, per avere nuove conferme alle
proprie posizioni o per rivalutarle. Ancora per entrambi, la consapevolezza del
rischio, piuttosto che una pace e una sicurezza incrollabile e stabile,
acquisita una volta per tutte.
Pertanto il rispetto, la tolleranza
ed il dialogo con chi la pensa diversamente da noi dovrebbero essere
atteggiamenti doverosi, anzi normali. Anche perché ci possiamo avvicinare alla
verità solo col contributo di tutti, nel cammino e nel confronto con l’altro.
Per concludere, allora, la scelta se
essere credente, ateo o agnostico, è una scelta di tipo personale o soggettivo, che ogni uomo, vivendo, deve compiere.
Infatti sulle questioni ultime della vita non disponiamo di soluzioni pronte:
il dibattito non solo è in corso da tempi remoti, ma verosimilmente proseguirà
finchè esisterà l’uomo; quindi, da un punto di vista razionale, si dovrebbe
posporre la nostra decisione ad oltranza, senza mai assumere una posizione razionale
definita, dal momento che potrebbero sempre emergere ulteriori dati e
interpretazioni, in qualunque direzione. Ma la vita è breve. Da qui la
necessità di una appropriazione di tipo personale, di una decisione a carattere
esistenziale, da fare in mancanza di evidenze, ma, almeno, nel modo più
consapevole ed equilibrato possibile.
Per questo credo che la ricerca di
noi stessi - di quel che siamo, della nostra natura, e quindi la ricerca di Dio
- fatta con lucidità e consapevolezza - secondo le nostre personali possibilità
e capacità - qualunque sia l’esisto, sia una delle attività che manifesta più
eloquentemente la dignità dell’uomo. In questa decisione ognuno deve tener
conto sia di quello che è arrivato a conoscere in ordine a queste tematiche
filosofico-religiose, sia di quello che spera, a cui aspira, per la
realizzazione della sua propria esistenza. Perché alla fine, quel che più
conta, è la nostra dignità, e la
nostra dignità dipende da come ci siamo posti davanti alla realtà di noi
stessi, degli altri, del mondo e all'idea di “Dio”; dipende cioè dalla nostra
autenticità e onestà, intellettuale ed esistenziale, e dalla nostra coerenza
nella vita con quella verità che nel cammino della nostra ricerca ed
esperienza, siamo riusciti a concepire e a raggiungere.


